1. Dietro la crisi della democrazia cosa c’è?

Abbiamo già parlato della democrazia o meglio della sua crisi… in alcuni articoli postati qualche giorno fa su questo Blog… alcuni commenti e una moltitudine di domande arrivatemi, mi sollecitano di tornare sull’argomento sempre più d’attualità approfondendone alcuni aspetti – cosa che faccio volentieri – ne riparlo aiutandomi con qualche stralcio di documenti e di riviste di storia, politica e filosofia* che pubblicano in rete, con la convinzione che tutti quanti si debba dover comprendere meglio quanto è successo, quanto succede e forse succederà… a seguito in questo squarcio temporale dell’ultimo “trentennio”, cercando di collegarlo storicamente a eventi analoghi che ci aiutano a storicizzare velocemente la situazione che abbiamo e stiamo vivendo sul piano economico, sociale e di tenuta democratica delle istituzioni… nella speranza di poter intravvedere qualche possibile prospettiva…

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“Sembra sempre più difficile comprendere la natura della crisi delle istituzioni democratiche che accompagna la crisi economica scoppiata ormai quasi un decennio fa… ciò rende sempre più urgente definire un quadro analitico di lungo periodo per darsi qualche risposta… infatti la durata e la profondità di questa crisi così globale… rende alla fine semplicistica la risposta che definisce …la deriva plebiscitaria e carismatica di cui soffrono le nostre istituzioni democratiche come il frutto “avvelenato” del trentennio neoliberista apertosi dalla metà degli anni Settanta”.
In estrema sintesi, il senso di quanto troverete scritto qui …consiste nell’affermare che è possibile comprendere la crisi della politica, nell’ambito della quale si pongono fenomeni oggi particolarmente vistosi come l’astensionismo di massa, la critica della democrazia rappresentativa e l’invocazione della democrazia diretta, soltanto se la si inquadra in un contesto più ampio e di lungo periodo. Ampio, nel senso che questa crisi si collega alla crisi sociale ed economica …in verità anche a una crisi che in molti definirebbero «intellettuale e morale» di lungo periodo, poiché essa chiama in causa una «grande trasformazione» verificatasi già nel corso degli ultimi 50-60 anni. declino-democratico“Si tratta, insomma, di un fenomeno già radicato nella nostra storia più recente, ma che ha caratteristiche precise di alcuni precedenti eventi storici. Per questo, al fine di intendere il nesso che collega l’odierna crisi della politica alle sue radici economico-sociali e più precisamente: alle conseguenze sociali e quindi alla stessa vita quotidiana di una moltitudine di persone… si fa richiamo alla controrivoluzione neoliberista che inizia nella seconda metà degli anni Settanta, ma che ha un analogo precedente storico cui sembra utile risalire di un’altra grande trasformazione, avvenuta a cavallo tra l’Otto e il Novecento. Ovvero nell’età classica del liberismo che trasformò il “capitalismo industriale” proprio in un sistema sociale …poco meno di un secolo fa. Cominciata nel 1834, con l’abolizione del regolazionismo “paternalistico” e l’adozione del Poor Law Reform Act …una normativa che, codificando «il lavoro come merce», instaura il sistema del cosiddetto mercato libero. E regge sino al crollo di Wall Street nel 1929. In realtà, l’utopia del libero mercato (socialmente distruttiva: causa di disoccupazione e miseria di massa) entrò in crisi già dopo i primi quarant’anni (con la grande depressione del 1873-96), innescando forti tensioni di classe e risposte collettivistiche di stampo protezionistico sul piano sociale e nazionale. Vanno annoverati in questo quadro da una parte la nascita del sindacalismo e il primo affermarsi di elementi di welfare; dall’altra, il nazionalismo, l’interventismo economico, il consolidarsi di mercati monopolistici e il rafforzarsi di tensioni “inter-imperialistiche”, tra le cause primarie del primo conflitto mondiale”.I successivi sessant’anni segnano in sostanza la lunga agonia del liberismo, che approda (con il crollo di Wall Street) all’implosione dell’ultima delle sue istituzioni, la base aurea. II Fascismo fu la conseguenza di questa agonia. Più precisamente, costituì una risposta alle conseguenze del drammatico cedimento del sistema monetario internazionale caratteristico della fase liberale. “Così si comprende, secondo Karl Polanyi (è stato un sociologo, filosofo, economista e antropologo ungherese). È noto per la sua critica della società di mercato espressa nel suo lavoro principale ‘La grande trasformazione’ …la differenza tra mondo anglosassone e destino europeo. Mentre Stati Uniti e Inghilterra, padroni della moneta, abbandonano per tempo la base aurea (tra il 1931 e il ’33), esautorano il potere politico della finanza e optano per politiche espansionistiche (di welfare) salvaguardando la democrazia; la maggior parte dei paesi europei punta tutto sulla difesa deflazionistica della moneta (in quanto i loro sistemi industriali dipendono dall’acquisto delle materie prime sul mercato estero).resize-2 Dinanzi all’alternativa tra salvataggio del sistema economico (cioè dell’industria nazionale) e risanamento della moneta (via deflazione) da un lato, e difesa del lavoro (occupazione e redditi) dall’altro, l’affermarsi (a questo punto inevitabile) del primo corno del dilemma implica negli anni Trenta l’adozione di politiche repressive (incentrate sull’adozione di poteri d’emergenza e sulla sospensione delle pubbliche libertà)”. La morale della favola è chiara: avere a lungo rifiutato di governare il processo economico (in omaggio all’ideologia della sua naturale autonomia), avere lasciato briglie sciolte agli «spiriti selvaggi» del capitalismo, distruttori della coesione sociale, costringe alla fine ad approdare all’estremo opposto: non soltanto al governo sociale-politico dell’economia, ma all’adozione di politiche totalitarie, liberticide e criminali. Non molto diverso nelle conclusioni appare lo schema tracciato addirittura una decina di anni prima (da un punto di vista prevalentemente politico) da Harold Laski in “Democracy in Crisis, 1933”. “Laski ritiene che la crisi democratica degli anni Trenta discenda dal «rapido e profondo risentimento» provocato nelle masse popolari dal fatto che la democrazia rappresentativa non ha mantenuto le promesse di riscatto sociale. Ai suoi occhi non è un caso se «la sproporzione che sussiste fra il potere economico (detentore di un «governo invisibile») e il potere politico formale è quasi fantastica»”.La crisi democratica discende, a suo giudizio, da una contraddizione fondamentale, alla base della democrazia borghese. Se – scrive – «il problema consiste nel proporsi di impiegare le ricchezze per il bene totale della comunità, il potere di disporne e di dirigerle per l’utile privato si trova ad essere protetto dalle salvaguardie costituzionali».«Le banche, l’energia, il petrolio, i trasporti, il carbone, tutti i servizi essenziali dai quali dipende il benessere pubblico son tutti interessi acquisiti in mano dei privati», e «il problema diventa ancor più astruso per il fatto che la lunga prosperità aveva convinto l’uomo medio che la Costituzione fosse sacrosanta per quanto può esserlo uno strumento simile».  La classe dominante si rifiutò subito di consentire alle masse di raccogliere le briciole dalla sua tavola»:  di qui, secondo Laski, «un senso di disillusione nei riguardi della democrazia, ancor più diffuso, e uno scetticismo verso le istituzioni popolari ancor più grande che in qualsiasi altro periodo della storia».  defocused crowd of people --- Image by © Images.com/Corbis

Di qui anche la delegittimazione delle istituzioni democratiche, la crisi di credibilità dei sistemi rappresentativi e delle grandi organizzazioni politiche e sindacali, e l’invocazione di uomini provvidenziali”. Questo schema – a ben guardare in entrambe le varianti qui ricordate – calza a pennello con la vicenda di quest’ultimi 40/50. Tra gli anni Sessanta e Settanta si registrano in tutto l’Occidente inediti avanzamenti sul terreno della democrazia sociale e politica, della mobilità sociale, della onquista di sovranità reale da parte della classe lavoratrice. Le Costituzioni post-belliche reagiscono all’esperienza del fascismo predisponendo cornici istituzionali funzionali a questo sviluppo. E l’esigenza della ricostruzione (dei paesi devastati dal conflitto e di un sistema economico mondiale) offre l’opportunità di coinvolgere il lavoro in un compromesso progressivo che non solo propizia l’accumulazione e la distribuzione di ricchezza, ma promuove la partecipazione democratica delle classi subalterne. sviluppo-democrazia
Naturalmente questa è per quel che mi riguarda …una sintesi di parte, che può essere contrastata considerando la stessa storia da una diversa prospettiva. Infatti, se dal punto di vista del lavoro e della democrazia il trentennio 1945-75 può essere considerato senz’altro una fase progressiva, nell’ottica del capitale esso fu invece un incubo, caratterizzato da ricorrenti fiammate inflazionistiche e da un’imponente quanto allarmante dinamica redistributiva. Nei paesi sviluppati la ricchezza sociale aumentava (il Pil crebbe in media del 4% l’anno negli Usa, del 5% nei paesi della Comunità economica europea, dell’11% in Giappone), ma contemporaneamente il saggio medio di profitto del capitale investito nelle attività direttamente produttive diminuiva. Giunto (nel 1950) sino al 22%, cominciò a ridursi, assestandosi tra il 7,5% (nel 1970) e il 10% (nel 1975). I mutamenti che si verificarono nel secondo dopoguerra e che andarono a regime negli anni Sessanta provocarono (o accentuarono) una riduzione del saggio di profitto del capitale privato e furono di fatto considerati da componenti significative delle classi dirigenti occidentali perniciosi e minacciosi per la stabilità dei sistemi economici e sociali. La posizione destinata ad affermarsi nel successivo trentennio venne teorizzata nel famoso convegno che la Commissione Trilaterale dedicò nel 1975 proprio alla «crisi della democrazia». In che cosa consisteva tale crisi dal punto di vista dell’establishment capitalistico? In sostanza, in presunti «eccessi» di democrazia (in particolare nell’eccessivo potere negoziale delle organizzazioni sindacali, forti del regime di piena occupazione), causa a loro volta di inflazione (così pretendeva la vulgata, benché l’inflazione derivasse dallo shock petrolifero del 1973) e di una conflittualità sociale ritenuta intollerabile o – come si cominciò a dire allora – «non compatibile». Che quel convegno sia stato un evento periodizzante, fondativo della nostra attuale condizione, lo dimostra il fatto che a ben guardare vige tuttora la medesima logica e retorica, con la sola differenza che i pretesi «eccessi», di cui si parla da vent’anni a questa parte, riguardano la democrazia economica piuttosto che quella sociale e politica. L’idea di un eccesso di democrazia economica (cioè la convinzione che il lavoro percepisse troppo reddito sotto forma di retribuzioni e di servizi) ha ispirato la costruzione dell’Unione Europea (basata sul veto all’impiego redistributivo ed espansivo della finanza pubblica) e oggi costituisce, per così dire, l’implicito concettuale della grande «crisi», che dalla stragrande maggioranza dei politici, dei banchieri e degli opinionisti viene rappresentata come crisi fiscale (dei debiti sovrani) mentre è in realtà soltanto l’effetto recessivo (economicamente e socialmente devastante) di un gigantesco travaso di ricchezza dal lavoro al capitale (e dal pubblico al privato), operato per via finanziaria, monetaria e fiscale attraverso le politiche deflattive della cosiddetta austerità. Ma torniamo agli anni Settanta.  democrazia1
“Dalla crisi di redditività del capitale industriale e da un livello crescente di conflitto sociale prese avvio la svolta neoliberista, che avrebbe radicalmente trasformato la costituzione materiale dei paesi occidentali a partire dalla seconda metà degli anni Settanta (in Italia ne furono avvisaglie prima la svolta dell’Eur, con la teorizzazione dei vincoli di compatibilità, l’idea della «responsabilità nazionale» del movimento operaio, e il primato della «governabilità»; poi la marcia dei quarantamila diretta dalla Fiat, che – sancì l’idea che il conflitto sindacale, fosse nemico dell’interesse generale del Paese”. “Il neoliberismo si fonda su tre pilastri: sul piano industriale, la delocalizzazione produttiva (che di fatto, grazie alla rivoluzione informatica e dei trasporti, ha unificato il mercato mondiale del lavoro e offerto al capitale la possibilità di giocare su enormi differenze salariali); sul piano finanziario, la deregolazione (che ha permesso l’impiego speculativo delle risorse in precedenza destinate all’economia produttiva) e la liberalizzazione dei movimenti di capitale (che ha unificato i mercati speculativi riducendo ai minimi termini la sovranità monetaria degli Stati); sul piano politico-istituzionale, l’accentramento dei poteri negli esecutivi (sia in ambito nazionale che nel contesto continentale europeo), che ha permesso la direzione tecnocratica dei processi in simbiosi con le oligarchie economiche (avviando la crisi storica dello Stato pluriclasse e la tendenziale regressione a forme autoritarie di comando). Un quarto pilastro (del quale in genere non si parla, come se non inerisse al terreno economico) riguarda i rapporti internazionali, affidati a un classico mix tra libera concorrenza economico-finanziaria tra i maggiori gruppi transnazionali e ferreo controllo militare (anche attraverso la guerra) delle aree strategiche sul piano geopolitico da parte delle grandi potenze”. sfida_demoIl risultato complessivo dell’interazione di questi pilastri della «costituzione neoliberista» può essere riassunto (per ciò che attiene ai processi economici, sociali e politici) nella triade: finanziarizzazione dell’economia (principalmente per effetto dell’enorme squilibrio di rendimento dei capitali speculativi rispetto al capitale industriale); privatizzazione (non solo delle maggiori imprese e dei sistemi di welfare ma anche delle istituzioni, della giurisdizione e della sovranità); precarizzazione strutturale del lavoro dipendente (salariato o eterodiretto), con la conseguente caduta dei redditi da lavoro e proletarizzazione dei ceti medi… contraddicendo l’altra triade dei valori democratici di base: condividere, partecipare e decidere…
(continua)

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