2. Dietro la crisi della democrazia cosa c’è?

Quindi: “La crisi del lavoro mette a rischio la democrazia… Le nuove forme di lavoro sono diverse dal passato: attraverso di esse spesso non passa più alcuna strada verso eguaglianza ed emancipazione”. “Nel giro di trent’anni (a partire dagli anni Ottanta) le condizioni consolidatesi nel trentennio precedente (i «Trenta gloriosi», che Eric Hobsbawm definì «età d’oro» del secolo breve e Paul Krugman designa come «epoca della grande compressione», alludendo alla marcata dinamica redistributiva che vide drasticamente ridursi il reddito dei settori più abbienti: negli Stati Uniti la quota della ricchezza nazionale posseduta dallo 0,1% più ricco della popolazione si dimezzò, passando da oltre il 20% al 10% sono state cancellate e ribaltate, come dimostrano i dati sulla distribuzione della ricchezza in tutti i paesi occidentali. Ne bastino qui pochi inequivocabili”. salarioVediamo che è successo nei quindici paesi Ocse più ricchi, nel trentennio neo-liberista (1976-2006) la quota salari (l’incidenza dei redditi da lavoro sul Pil) è passata dal 68 al 58%. Negli Stati Uniti (dove i salari reali sono fermi dai primi anni Settanta a fronte di un aumento della produttività pari all’83%, e dove la disoccupazione effettiva coinvolge oltre il 15% della forza-lavoro) il reddito del 10% più ricco della popolazione ha raggiunto il 50% del reddito nazionale (tornando ai livelli precedenti la seconda guerra mondiale); in questi anni di crisi, sempre negli Stati Uniti, oltre il 90% dell’incremento della ricchezza va al 10% più ricco della popolazione (mentre il 60% più povero continua a impoverirsi). Stesse considerazioni valgono per l’Italia, dove i salari reali, da tempo tra i più bassi in Europa, ristagnano da una quindicina d’anni e la quota salari è crollata al 53% (il che, in valori assoluti, equivale a una perdita di circa 240 miliardi di euro nel giro di trent’anni).

 “Si tratta di un colossale aumento delle disuguaglianze, che non compromette soltanto l’equità e la coesione sociale, ma impedisce anche la funzionalità del sistema economico e ne pregiudica la capacità di riprodursi”

(Joseph Stiglitz)

In questo senso l’epoca del neoliberismo ricalca quella del secolo liberista (1834-1929) ricostruito da Polanyi. Ma le analogie riguardano anche le conseguenze politiche delle trasformazioni economico-sociali, e qui veniamo direttamente all’odierna crisi della politica e della democrazia rappresentativa, che con ogni probabilità discende, almeno in parte, da processi analoghi a quelli che nel Novecento spinsero gran parte dell’Europa continentale nelle braccia del fascismo (ma in qualche misura la sindrome carismatica coinvolse anche gli Stati Uniti di Roosevelt –  e oggi, vedi anche l’elezione di Trump a Presidente degl’USA).
Come sappiamo, un secolo fa la crisi capitalistica sfociò appunto nell’affermazione di regimi monocratici, dispotici o, come si è ritenuto di definirli, «totalitari». “A prima vista si trattò quindi di una crisi delle istituzioni rappresentative del tutto diversa dall’attuale o addirittura opposta, in quanto oggi la critica «antipolitica» della rappresentanza si vuole ispirata dalla radicale sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche o – in una versione meno estremistica – dalla rivendicazione di forme di democrazia diretta. In realtà vi sono meno differenze di quanto non sembri, nel senso che tanto il rifiuto antipolitico delle istituzioni che oggi si esprime nella massiccia diserzione delle urne, quanto l’estremismo anarco-sindacale e la deriva plebiscitaria alla base di quello che non per caso Emil Lederer chiamò «Stato delle masse» possono ben essere ricondotti a una domanda iperdemocratica di partecipazione diretta al comando politico”. democrazia-possibilePer quanto paradossale possa apparire (in effetti è un paradosso, ma anche un dato di fatto), la delega totale al capo carismatico e l’esercizio della sovranità in regimi di democrazia diretta appaiono antitetici, ma sono in realtà gemelli siamesi. “In apparenza la democrazia diretta consiste nella riappropriazione del potere sovrano da parte della collettività. Ma – quali che siano i riferimenti storici che si vogliono invocare – non solo non vi è alcun esempio di esercizio della sovranità da parte di un’intera popolazione (nemmeno nell’Atene del quarto secolo, paradigma di democrazia diretta: l’ekklésia era composta dai soli cittadini – maschi adulti liberi – e contribuiva all’autogoverno insieme a istituzioni rappresentative – prima tra tutte la boulé – incaricate di correggere gli eccessi dell’assemblearismo e forse anche di “liberare” la città da un eccesso di politica); non solo è noto che quanto più si svaluta la rappresentanza, tanto più il conflitto politico si riduce a negoziato diretto tra portatori di interessi costituiti (a detrimento dei ceti per i quali il numero costituisce la fondamentale risorsa politica); non solo la retorica anti-rappresentativa che, a partire dal Sessantotto, ha preteso di costituire l’espressione più radicale della critica è stata sussunta in pieno dal «nuovo spirito del capitalismo post-fordista», che se ne è avvalso per presentarsi «come una rivolta libertaria contro lo Stato e contro le organizzazioni sociali oppressive del capitalismo corporativo e del socialismo reale»; ma è soprattutto evidente l’incoercibile scivolamento della pretesa partecipazione diretta alla sovranità verso l’affidamento al capo. In altre parole, la critica radicale della rappresentanza non muove verso l’obiettivo, di per sé condivisibile, dell’integrazione tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa e deliberativa. Essa in realtà cela un cuore nero (schmittiano) nella misura in cui offre un argomento tra i più efficaci ai governanti desiderosi di «prendere in via definitiva il largo» dai governati”. referendumLa domanda quindi è perché questi non se ne accorgono? Perché, in altri termini, l’affidamento al capo non è vissuto come espropriazione e quindi come antitesi rispetto alla democrazia diretta? Per il fatto che come: “…notò Freud in tempi non sospetti (1921) sulla scia di Le Bon e McDougall, con il capo ci si identifica (sulla scorta di dinamiche narcisistiche), ragion per cui le sue decisioni vengono vissute (almeno dapprincipio, finché persiste l’infatuazione carismatica) come fossero le proprie, i suoi gesti vengono ammirati come fossero i propri, il suo potere accolto e subito nell’illusione di esercitarlo in proprio”. Da quando Freud svolse queste classiche analisi è trascorso quasi un secolo, ma non si saprebbe certo sostenere che i pericoli che egli segnala siano venuti meno. Gli attuali sistemi di comunicazione sembrano piuttosto accrescerli, nella misura in cui tendono a spettacolarizzare ogni narrazione a scapito del vaglio critico. L’informazione di massa è così strutturata da aumentare l’impatto simbolico, favorendo la trasfigurazione dei personaggi posti sulla scena mediatica e alimentando la relazione narcisistica (l’identificazione inconsapevole tra le figure pubbliche e l’«ideale dell’Io» proprio degli spettatori). Dimodo ché effettivamente informazione e accecamento ideologico sembrano di norma correre di pari passo. “Democrazia diretta ed euforia plebiscitaria mobilitano passioni, soddisfano pulsioni, forniscono gratificazioni che la relazione politica disciplinata nel quadro della democrazia rappresentativa non è in grado di offrire. testata-dd-efddLa rappresentanza vive nella mediazione, cioè nella distanza e nell’alterità. Come sottolineava John Stuart Mill, consente (almeno in linea di principio) il controllo del potere” e favorisce la critica delle decisioni assunte da parlamento e governo, ma per ciò stesso mantiene bassa la temperatura nel sistema delle relazioni politiche. Il rappresentante non è il rappresentato, che non dimentica nemmeno per un momento questa alterità, in base alla quale avanza rivendicazioni ed elabora critiche. Ma quando le prestazioni della politica appaiono troppo insoddisfacenti (o quando le strutture valoriali, simboliche e organizzative dell’identità collettiva – a cominciare dai partiti politici – diventano troppo fragili e indistinte per alimentare in forme virtuose la relazione di simpatia e comunicazione ideologica in cui il processo rappresentativo si sostanzia, una reazione spontanea tende a travolgere non soltanto l’insieme dei rappresentanti, ma il sistema stesso della rappresentanza. La temperatura si alza. Il corpo sociale entra in fibrillazione, febbricita, rigetta la mediazione ed esige di entrare in gioco in prima persona”.Senonché, la «ribellione delle grandi masse» può condurre a molti esiti (a cominciare dall’insorgenza rivoluzionaria) ma non certo al loro protagonismo immediato in un quadro istituzionale, impossibile anche tecnicamente (com’era chiaro allo stesso Rousseau) se non nella forma paradossale, e di norma passiva, dell’assenza (la diserzione massiccia dalle urne). image5La rivendicazione iper-democratica si risolve di norma nel loro euforico, dionisiaco identificarsi nel protagonismo del capo. Che le seduce promettendo grandi risultati e, non di rado, totale impunità, e le soggioga, persuadendole di incarnarne la soggettività. La rivendicazione di rappresentanza si sublima in un sorta di “tifo” per le performances del capo… naturalmente si tratta di una suggestione. Come l’affidamento al capo implica la delega totale, quindi non il protagonismo della massa ma la sua espropriazione, così l’irruzione del capo non costituisce l’apoteosi della democrazia ma la sua negazione radicale. La massa si illude di essere finalmente in sella, avendo cacciato gli usurpatori che pretendevano di rappresentarla. Si ritrova in realtà del tutto spossessata e costretta al ruolo di ancella adorante. Ma anche in questo caso il fatto che l’esperienza storica abbia comportato dolori e lutti non sembra preservarci dal rischio di repliche tragiche o grottesche. Qui veniamo a un ultimo snodo del ragionamento. Perché l’esperienza non basta, e perché dovrebbe bastare? Tutto o molto dipende dall’idea che ci si è fatta di come si costituisce e funziona la «ragione pubblica» o «l’intelletto generale». Chiaramente per coloro che non si accontentano di schemi spontaneistici e problematizzano il processo di sviluppo della coscienza collettiva, la politica (intesa come azione di soggetti organizzati, variamente volta a partecipare all’esercizio della sovranità) hanno, tra gli altri, il compito di diffondere consapevolezza e di produrre soggettività attraverso la costruzione partecipata del discorso analitico e critico. In fondo è questo uno dei compiti essenziali che la Costituzione repubblicana assegna ai partiti politici, “…ed è anche la ragione per cui Kelsen (come già Weber) ritiene che non possa esservi democrazia senza partiti. Di certo è il cuore della teoria gramsciana del moderno principe, organismo radicalmente democratico non solo perché vincolato al rispetto di clausole partecipative nella costruzione dei gruppi dirigenti e nella determinazione degli obiettivi del conflitto sociale e politico, ma anche (in primo luogo) perché finalizzato a quello che i Quaderni chiamano «progresso intellettuale di massa» (quel progresso che Gramsci è convinto di avere contribuito a realizzare con particolare vigore nel corso dell’esperienza ordinovista).dc_pci Posta la questione in questi termini, si può sostenere con buone ragioni che i maggiori partiti politici abbiano effettivamente assolto il compito dell’alfabetizzazione civile e politica di massa nel corso del primo trentennio postbellico (non per caso, il periodo coincidente con l’età d’oro della democrazia europea). Per quanto riguarda l’Italia, ci si può riferire ai grandi partiti al plurale, attribuendo questo merito storico anche alla Democrazia Cristiana in quanto partito popolare, ma è indubbio che esso vada ascritto in particolare al Partito comunista italiano, quale che sia il giudizio retrospettivo sulle scelte politiche di fondo da esso assunte al tempo della cosiddetta prima Repubblica. “Fu il Pci, per ragioni per dir così ontologiche, ad assumersi l’onere principale di “civilizzare” le classi subalterne, di fornire loro strumenti di lettura della realtà, di decifrazione critica, quindi di autocomprensione e di oggettivazione della propria esperienza e condizione. L’apparato del partito, di cui si sarebbe poi lamentata la pesantezza, obbediva in buona misura a questa esigenza, la quale informava di sé un articolato e radicato complesso di strutture e attività, dalla stampa d’informazione alle scuole di partito, dall’organizzazione dell’intellettualità organica nei diversi settori della formazione pubblica alla produzione di “saperi”, dalla promozione di iniziative culturali alla creazione di istituzioni, alla direzione della cosiddetta «battaglia delle idee»”. Tutto questo implode a partire dall’89-91, dopo essere entrato gradualmente in crisi già nel corso degli anni Settanta. La crisi coinvolge, beninteso, tutti i partiti della cosiddetta prima Repubblica, che – com’è stato osservato ancora di recente da più di un osservatore – non soltanto si «degradano» in ragione del loro convertirsi «alla funzione servente della cosiddetta “governabilità”», ma, per ciò stesso, finiscono anche con l’abiurare i propri compiti costitutivi,crisi-partiti primi fra tutti l’estrazione di «domande sociali coordinate in programmi credibili» e il loro collegamento a un «qualche progetto almeno dignitoso di società e di Stato».

(continua)

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