2. La dimensione adulta. Tra realtà e progettualità condivise…

(seconda parte)

Continuiamo il ragionamento sui tempi d’oggi definiti come quelli della “Modernità liquida” come l’ha chiamata Z. Bauman. E vediamo come le trasformazioni vorticose che hanno attraversato l’economia a livello globale e i cambiamenti intervenuti nei sistemi produttivi esistenti abbiano profondamente mutato il mondo del lavoro in occidente e nei paesi in via di sviluppo, modificando altresì radicalmente il mondo delle comunicazioni e dei Media nonché quello delle relazioni interpersonali ad ogni livello. Il lavoro per le persone. Quello passato, era il secolo del Lavoro, scriveva Aris Accornero nel 1997, individuando proprio nella trasformazione dal “Lavoro” ai “lavori” il tratto distintivo del passaggio dal ventesimo al ventunesimo secolo. Una transizione veniva detto, quanto mai carica di rischi ma anche di possibilità: “le possibilità dei rischi come i rischi delle possibilità”, precisava Edgard Morin – sociologo e filosofo – in un suo libro “la natura della natura” del 2001, parlando già di una flessibilità che troppo spesso è diventata precarietà ma che più frequentemente avrebbe potuto trasformarsi in appaganti progressioni di carriera, di una diversificazione che può si, continuare ad essere discriminazione, ma che può dar luogo anche a inediti profili professionali, nella variabilità dei trend economici che “aprivano” a mercati globali e allo stesso tempo determinavano la crisi economica mondiale e rischi di default globale, per usare una terminologia ahinoi, molto diffusa soprattutto per gli eventi di questi ultimissimi anni. Queste situazioni – e la coesistenza di situazioni tra loro contrapposte – non hanno diminuito il ‘valore del lavoro’, anzi semmai hanno acuito: “le dimensioni e i significati del lavoro come sistema di senso” scriveva sempre Aris Accornero – Sociologo Esperto di lavoro e relazioni industriali – Professore emerito di Sociologia Industriale all’Università La Sapienza di Roma.  Si potrebbe dire che oggi è proprio la complessità che contraddistingue le persone, i contesti e i comportamenti del lavoro contemporaneo che sta ridando spazio – pur nel fluire contraddittorio di situazioni diverse e contrapposte – a una “nuova” dimensione qualitativa del lavoro stesso, e conseguentemente a una sua “nuova” pregnanza etica, oltre che “relazionale”. Howard Gardner, uno psicologo americano con la pubblicazione del suo libro “Formae mentis 1”, parla di “lavoratori etici”, cioè di persone che sappiano “lavorare per un fine che trascende l’interesse egoistico, e che i cittadini possano operare altruisticamente per migliorare il destino di tutti”. Che significato dare a tutto questo?  Ciò significa sicuramente dovere riscoprire la capacità di pensare e riprogettare un futuro economico e sociale del lavoro, senza più dimenticare (come invece è avvenuto almeno negli ultimi 25 anni) o meglio sottovalutare le implicazioni che le scelte indotte dai cambiamenti hanno sulla vita di ognuno di noi e dell’altro, degli altri… e si può dire ormai dell’intero pianeta. “…Per questo motivo, si può affermare che la riflessione dell’individuo adulto si deve sempre svolgere sullo sfondo di un determinato ‘orizzonte di esame etico’”.  Scrive Gardner: “Si tratta di un esame etico nella misura in cui è effettivamente presente la questione del ‘vivere bene’ proprio e per l’appunto con l’altro”. Più in generale, si attesta sempre di più, il ruolo che le soggettività dei lavoratori – e quindi le conoscenze e le competenze “nutrite” di emozioni – hanno rispetto alle stesse organizzazioni produttive, ai contesti e alle relazioni di lavoro. Solo in tal modo si supera l’idea dell’organizzazione produttiva come qualcosa di “freddo e senza vita” ma, al contrario, resa “viva” proprio dalle “emozioni, i sentimenti, le passioni, i bisogni, gli interessi (espliciti e latenti), che pervadono e sostengono la vita organizzativa, rivestono un ruolo rilevante in fatto di motivazione al lavoro e prestazione professionale. Condizionando pensieri, parole, decisioni, comportamenti, rituali e apprendimenti, che incidono sull’interpretazione delle responsabilità, sulle attribuzioni di valore e sulla definizione delle priorità, sull’utilizzo del tempo e delle risorse nonché sul trovare un livello di gratificazione derivante dallo svolgimento dei compiti”.  Il patrimonio di conoscenze e di competenze dei singoli lavoratori (ma anche le loro emozioni, il senso di appartenenza all’azienda, le relazioni ecc.) rappresentano dunque quel capitale intangibile che può determinare il successo economico di quell’organizzazione, allo stesso tempo determinando e soddisfacendo la domanda di “lavoro buono, cioè umanamente significativo”.  L’attenzione alla dimensione dell’infunzionale e dell’intangibile rispetto non solo al benessere della persona lavoratrice ma anche al successo dell’azienda appare oggi sempre più diffusa (anche se sommersa, come già detto, da mille altre situazioni di precarietà e di sfruttamento). Scrive Daniela Dato nel suo libro ‘La scuola delle emozioni’: “Capitali intangibili sono, allora, quelle cose ‘che contano’ senza poter essere ‘contate’, quantificate: sono le conoscenze, le idee, le capacità di gestire efficacemente le informazioni, la flessibilità, la creatività, le relazioni, la cura per le risorse umane e per la cultura d’impresa, così come il senso di appartenenza al proprio gruppo di lavoro, la cultura dell’organizzazione, intesa come insieme di abitudini (non come routine standardizzate ma come abiti mentali), attitudini, credenze e valori che permeano gli individui e gruppi di lavoro e persino la reputazione di un’azienda, il brand che dà l’idea dell’identità del prodotto, che promuove una cultura del patrimonio della marca”.  Termini e concetti, questi ultimi, che appaiono ormai acquisiti nella letteratura specialistica internazionale di ambito economico e sociologico così come pedagogico ma che sostanziano anche altri sguardi interpretativi del reale, particolarmente attenti a leggere in termini propositivi il vivere contemporaneo e a comprendere che “i veri attori dello sviluppo non sono i mezzi economici, ma le persone”.  L’azienda dovrebbe quindi sempre più essere un “luogo di persone”, il cui capitale umano va custodito e coltivato nella sua dimensione intangibile perché, aumentandone il valore rispetto al benessere delle persone che vi lavorano e al successo dell’azienda, diventi a sua volta “responsabile” anche di ciò che sta fuori dell’azienda (e che peraltro influenza il successo stesso dell’azienda). Mentre nella realtà, hanno perso peso nel corso degli ultimi anni, proprio quei concetti come: “la responsabilità sociale d’impresa”, “il bilancio e il budget sociale” che, raccogliendo anche in ambito economico-aziendale concetti derivanti da una mole di studi psicologici e socio-antropologici, oltre che etico-filosofici, confermava l’idea che la felicità (Noddigs, 2003; Samek Lodovici, 2004; Bauman, 2009) fosse perseguibile da chi non la persegue solo per sé ma proprio attraverso la “relazione profonda e non strumentale con l’altro”. Messa così: appare evidente allora il grado di responsabilità che gli adulti in primis hanno rispetto all’obiettivo di assicurare a tutti la concretizzazione delle condizioni necessarie a vedere riconosciuta e valorizzata la loro dignità come persone.  Scrive la Prof.ssa Chiara Saraceno ormai nota al pubblico televisivo italiano, nell’introduzione al libro di Martha Nussbaum – una filosofa e accademica statunitense, studiosa di filosofia politica, etica, femminismo e diritti sociali: “Non vi è dignità non solo quando non vi è abbastanza da mangiare; o quando non vi è libertà di lavorare e di non essere dipendenti da un marito o da una famiglia autoritari e violenti; o quando non è possibile associarsi per difendere i propri interessi o praticare la propria religione; o quando la propria incolumità fisica è messa quotidianamente a repentaglio dall’uso della forza da parte di altri. Non vi è dignità umana, e possibilità di libertà, quando è negata l’istruzione che nutre la ragione e fa maturare il pensiero. E anche quando la possibilità dell’immaginazione e la capacità di gioco vengono spente quando non sono state nutrite quando era necessario. Non vi è appello alla tradizione e ai valori condivisi che può legittimare l’assenza non già dell’esercizio pratico di queste capacità, ma il loro soffocamento e negazione prima che possano essersi sviluppate, in modo da aprirsi, appunto, alla libertà di scelta, che non può che essere individuale”.  In tal senso, parlare di responsabilità – del singolo e della collettività, di ogni nazione e di tutte le nazioni insieme – conduce naturalmente a discutere di formazione e impone conseguentemente una precisa responsabilità educativa degli adulti a tutelare e a valorizzare le “capacit-azioni” di quelle categorie di persone – in primis, i bambini gli adolescenti e le donne – che, in un’organizzazione tradizionale del tempo della vita e nella relativa distribuzione di funzioni, di ruoli e di compiti, sono state sempre pesantemente penalizzate da modelli adulto-centrici e anche maschilisti.  È la stessa Nussbaum a sottolinearlo, avendo applicato il concetto di ‘capability’ soprattutto in riferimento a donne e bambini e avendo riscontrato, proprio attraverso i rapporti sullo sviluppo umano dell’Onu, che in nessun paese le donne vengono, ad es., trattate bene quanto gli uomini, anche se sono i paesi sviluppati e/o in via di sviluppo a presentare le situazioni più drammatiche, coniugando discriminazione di genere rispetto alle donne e, nel caso dei bambini e di adolescenti, di età, con altissimi livelli di povertà.Anche nell’occidente “emancipato” – dice bene Martha Nussbaum – il riconoscimento diffuso dei diritti delle donne non ha risolto le molte contraddizioni che si nascondono, ad es., dietro la gestione delle attività di cura. Le donne, infatti, sono sicuramente le più esposte alla difficile mediazione tra identità molteplici: l’essere madre, casalinga, moglie, figlia ma anche professionista e cittadina. La loro progressiva conquista del lavoro ha rappresentato sicuramente un traguardo importante, che è stato conquistato (anche se non ancora del tutto raggiunto) dalle donne a prezzo di durissimi sacrifici. La mancanza di un adeguato supporto alla pluralità dei ruoli e delle appartenenze – per l’arretramento e il venir meno della consistenza del sistema di welfare per le donne – ha reso particolarmente difficile la gestione del rapporto tra “tempo personale”, “tempo sociale” e “tempo professionale”. Nonostante gli sviluppi sul cammino dell’emancipazione femminile, le difficoltà di vario genere che vivono le donne sono ancora rilevanti, proprio per la conflittualità derivante dal doppio ruolo – di lavoratrici e di casalinghe – dal momento che, nella maggior parte dei casi, la conquista del lavoro esterno (con ruoli e funzioni spesso di alto livello) non diminuisce il peso del lavoro casalingo, di moglie e di madre. La gran parte delle storie di vita di donne anche di successo – donne manager, docenti, imprenditrici, ricercatrici, ecc. – fa riferimento proprio alla fatica di dover svolgere più ruoli, prestando particolare attenzione al fatto che l’uno non interferisca e non “danneggi” l’altro. In realtà, anche questo tema, particolarmente delicato, va ridiscusso in termini nuovi, prestando attenzione al fatto che, come precisa la stessa Nussbaum – che pure condivide le riflessioni critiche maturate in questi decenni dal movimento femminista – la questione della “cura” non può più essere vista solo come una causa di oppressione bensì come una dimensione umana “da valorizzare e far circolare” e, conseguentemente, da proteggere e garantire anche attraverso un sostegno delle istituzioni pubbliche. Sul piano della realizzazione personale, peraltro, non va sottovalutato il riconoscimento della “marcia in più”, in termini di responsabilità, di impegno, di motivazione al successo che spesso rinviene alle donne proprio dalla polivalenza delle proprie funzioni e dei ruoli svolti. E quindi come collocare la generazione dei Millennial? Già i Millennial, la così detta “generazione smarrita”. Di chi è la colpa se non lavorano? Hanno tra i 15 e i 33 anni (una lunga adolescenza). Nel Mondo sono pronti a scalzare dalla scena politica ed economica i ‘vecchi’ che la occupano da quarant’anni. E in Italia? Anche qui da noi all’insegna della fantomatica “rottamazione” dei “vecchi della politica e dell’economia”, vi sono stati tentativi di “svecchiamento” dei vari establishment e delle ‘caste corporative’ dei tempi del consociativismo italico. Purtroppo però sembrerebbe che il “nuovo e giovane” abbia perso molto presto il bandolo del loro e nostro futuro. Confusi dal “sapore sapido” del potere, ancorché sicuramente schiacciati dalla forza della crisi economica… in Italia più “crisi” che mai, per situazioni antiche ed endemiche della nostra economia… sicuramente anche intrappolati da genitori che gli hanno promesso il mondo, ma non gli hanno insegnato come prenderselo in un modo diverso da come loro se lo erano preso… haa! Poveri “figli… di papà”
(continua)

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