3. Giovani e Adulti: Prove di ascolto e questioni interpretative…

“PROVA DI ASCOLTO” RECIPROCO

Raccontarsi significa evidentemente parlare di se, fare una narrazione su come siamo, su come pensiamo di essere, su come desideriamo di essere, su come cerchiamo di apparire.

Ciò richiede di entrare in una relazione che prevede un rapporto in cui ciò sia possibile, ma significa anche entrare in un processo che è insieme di introspezione e di verifica relazionale, di ascolto, di domande e di risposte.

Il raccontarsi ha dunque due dimensioni, una a valenza prevalentemente comunicativa, mentre la seconda ha un significato riflessivo, di verifica e conferma della propria identità. Di solito ci si racconta o per “essere” o per “apparire”, nelle relazioni che ci interessano il raccontarsi dovrebbe essere per “essere”, anche se qualche volta è necessario “apparire”.

Sarebbe opportuno però che l’atteggiamento prevalente fosse finalizzato all’essere e che l’apparire fosse almeno consapevole e finalizzato ad uno scopo “psicologicamente onesto”. Abbiamo già affermato che “Il raccontarsi” rappresenta una “narrazione” di sé, la psicologia ha scoperto che la “narrazione” costituisce un modo essenziale di costruzione della personalità individuale, che si sviluppa appunto in un narrarsi reciproco, nel gioco di ruoli della complessità delle relazioni.

Questa narrazione è stata sopra collocata su due piani che riguardano sia il modo che lo scopo: quello dell’essere e quello dell’apparire. L’apparire si riferisce evidentemente ad un rappresentarsi che è almeno funzionale ad uno scopo che può non essere evidente e cosciente, ad un ruolo da mantenere, mentre l'”essere” si riferisce più alla spontaneità ad un sentirsi ed esprimersi diretto. È evidente come ambedue questi modi, poi, si organizzano ancora su due piani diversi riguardo alla consapevolezza, cioè possiamo esprimerci, raccontare di se cose di cui siamo pienamente consapevoli, ma sempre colorite da emozioni che partono dall’inconscio, anche se cerchiamo sempre di razionalizzarle per mantenerle nel dominio del controllo cosciente.

Ci sono motivi del nostro comportamento ed emozioni che non sono immediatamente accettabili e confessabili se non rivestite da una giustificazione che le spieghi e le giustifichi. É evidente ancora, che tutto ciò riporta all’origine, alla relazione primaria che è poi quella familiare, campo emotivo e base di tutte le relazioni significative. Relazione che si costruisce e si sviluppa nell’interazione sistemica fra tre poli: padre, madre, figlio, e tra sottosistemi: genitori e figli, giovani e adulti, con aspetti psicodinamici che appartengono alle persone, ma contemporaneamente a generazioni diverse, tra livelli generazionali che esprimono a volte “culture” diverse. Il rapporto tra giovani e adulti si basa e si sviluppa sullo schema del rapporto tra genitori e figli. Il rapporto tra generazioni ha uno scopo, un fine ed una modalità di essere, lo scopo appare palese, spiegato dall’istinto genitoriale all’accudimento e dalle necessità culturali all’educazione, la modalità di essere è affidata anch’essa all’istinto mascherato da un’evidenza comportamentale ritenuta ovvia.

La caratteristica più importante è che è sempre un rapporto stretto, legato ai bisogni ed alle esigenze del figlio, che nasce in una dipendenza assoluta dai genitori e che si avvia con velocità incostante e modi diversi all’autonomia ed alla separazione. Come tutte le relazioni significative il rapporto genitori/figlio è immerso in un “campo emotivo-affettivo” che gli da senso e colore, che si esprime in modi evidenti e consapevoli, ma che si costruisce su contenuti mentali ed emozionali inconsci e nascosti che sono però determinanti nel mantenere, rinforzare, trasformare o distorcere la relazione. Questo campo oltre che essere definito e caratterizzato dalle emozioni è costruito dal pensiero, cioè è definito da come ci si pensa reciprocamente, cioè come i genitori pensano il figlio e come questo si sente pensato in rapporto a come pensa se stesso.

Se il rapporto tra genitori e figli è il luogo della crescita di questi e se la crescita è inevitabilmente legata alla differenziazione e quindi alla separazione, la trasgressione e la provocazione assumono in questo gioco un ruolo essenziale, come spinta alla differenziazione ed alla individuazione. Questo è il senso delle provocazioni che i figli ed i giovani mettono in atto nel rapporto con i genitori e con gli adulti.

La provocazione, in particolare in fase adolescenziale, è da una parte espressione dell’ambivalenza emotiva e dall’incertezza in cui i ragazzi si dibattono, dall’altra è una rivelazione trasgressiva che è per l’adolescente una prova del livello di autonomia possibile e per i genitori invito a cambiare, in accordo ed in sintonia con la crescita dei figli.

L’ansia che accompagna l’ambivalenza dell’autonomia induce il ragazzo alla provocazione, a volte ossessiva e petulante, ed i genitori a scoprirsi, a rispondere e quindi a raccontarsi in un modo diverso da prima, meno coperto dal ruolo, in un modo più dialogico, ma questo non è un’operazione facile per nessuno dei due dialoganti.

Nella maggior parte dei casi accade invece che la provocazione attiva prevalentemente dei meccanismi di difesa che tendono ad irrigidire i comportamenti ed a dare alla “narrazione” un copione che esprime non tanto il dialogo ma la necessità di difendersi dall’ansia.  Ed è proprio l’ansia che caratterizza questi processi di crescita.

Quella dei figli è legata ad emozioni forti anche se nascoste come l’incertezza e la paura, mentre quella dei genitori non è solo dovuta alla paura , ma all’incertezza, accompagnata dalla rabbia, dalla delusione o dal disappunto creati ed alimentati dalla provocazione, che spesso fa sentire impotenti, ma anche da una sottile e malcelata consapevolezza che tutto ciò rappresenta e prelude all’autonomia del figlio che passa sempre attraverso la separazione, la perdita, la consapevolezza e l’accettazione della diversità.

Nel rapporto tra giovani ed adulti, quindi, la provocazione dei giovani rappresenta un comportamento che, al di la del disagio che attiva e della complessità delle manifestazioni, esprime una “necessità”, è, come è stato già detto espressione dell’ambivalenza emotiva in cui si trova quasi costantemente il ragazzo preadolescente ed adolescente, che è poi incertezza, paura e timore, vissuti insieme ed in conflitto all’esplodere delle energie mal controllabili, dovute all’età ed alla scoperta del mondo. É un comportamento necessario ed obbligato che rientra nella “ritualità” di differenziazione dell’adolescenza.

La trasgressione e le provocazioni esprimono i tentativi che il ragazzo fa per saggiare la disponibilità dei genitori a sopportare l’ambiguità di essere disponibili e contemporaneamente cambiare il rapporto per sostenere la sua capacità di crescere e di indipendenza.

Tutto il complesso emotivo che l’accompagna rientra per certi aspetti nella fenomenologia e nella psicodinamica di quel processo che la psicoanalisi chiama dell'”elaborazione del lutto”. Si può affermare che se manca la trasgressione e la provocazione si possono avere disturbi nel processo di crescita e di individuazione dell’adolescente, che anche se innapparenti, prima o poi nella vita si esprimono in un modo sintomatico. E’ uno stimolo emotivo forte per i genitori, sia come coppia sia come persone, stimolo che ha come scopo e come effetto quello di indurre un processo di cambiamento anche nei genitori, che inizia con l’accettare e gestire la separazione del figlio che cresce e diventa autonomo, nei pensieri prima e nei comportamenti poi.

Un invito pressante ad entrare anch’essi in un mutamento evolutivo parallelo a quello del figlio. Infatti, i complessi fenomeni psicologici dell’adolescenza coinvolgono sempre massicciamente la famiglia che é indotta a cambiare stile di vita e progetti esistenziali.

Con l’adolescenza di un figlio i genitori sono costretti a rimettersi in discussione, a rivedere i rapporti personali con lui, ma anche a ridiscutere il rapporto tra loro.  Il processo di base è che la verifica che il figlio fa su di se e sulla sua identità in formazione induce nei genitori una verifica della propria, un fare i conti con la propria storia e la propria capacità di riproggettarsi. Possiamo affermare che un processo simile coinvolge tutti gli adulti che hanno normalmente a che fare con i giovani, investe in pieno il rapporto tra giovani ed adulti. É in questa dimensione che prende senso “il raccontarsi” sia nel significato comunicativo che riflessivo.

Di fronte alle provocazioni dei figli i genitori sono costretti a rispondere, e questo rispondere è sempre un raccontarsi, uno svelarsi, un mettersi in discussione nel rapporto.

Tutto ciò avviene in ogni caso all’interno di una relazione che ha delle caratteristiche specifiche e peculiari, è, naturalmente e necessariamente, asimmetrica e complementare. Ciò significa semplicemente che mentre il figlio fa il suo “dovere” provocando nel reinventarsi, i genitori devono fare i “genitori”, anche come portatori di limiti e di confini, perché il figlio possa crescere e svilupparsi. I genitori non possono perdere il loro potere fino a che il figlio non ha conquistato il suo. In questo particolare campo relazionale il raccontarsi dei genitori deve necessariamente essere un raccontarsi come persone, ma in una narrazione di coppia, un raccontarsi insieme per offrire al figlio la possibilità di confrontarsi con due persone diverse ma in rapporto. Tutto ciò vale anche per i genitori separati, che nonostante tutto, attingendo alle loro capacità genitoriali hanno, o dovrebbero avere, la possibilità di mantenere la disponibilità a fare un progetto comune per il figli, nonostante la rottura dei rapporti personali tra loro.

Questa è spesso la sfida maggiore che la provocazione dei figli scaglia contro i genitori, cioè l’invito ad una verifica del loro rapporto, e tutto ciò vale ancora di più per il mondo degli adulti nel suo complesso.  

Raccontarsi in modo “psicologicamente onesto ” significa per i genitori e per gli adulti riconoscere il loro “pregiudizio”, cioè riconoscere che il figlio non corrisponde più all’immagine che loro hanno di lui che è inserita nei loro progetti e che fa parte del progetto che loro hanno per lui, e contemporaneamente, che il figlio è una “persona” con pensieri propri, potenzialità progettuali proprie che, anche se in costruzione, fortunatamente producono progetti diversi ed originali.

Tutto ciò però non significa che sia necessario o opportuno un atteggiamento pedagogico libertario o minimalista, ma significa solo che il progetto di vita di ognuno, che nasce e si forma nell’età evolutiva, non è né il frutto di un caso, né del fluire naturale delle cose, ne tanto meno di una pedagogia controllante o direttiva, ma di un incontro, a volte di un conflitto necessario, di un processo non facile di costruzione e di maturazione reciproca che dovrebbe portare il figlio ad essere adulto con un proprio progetto personale, che tiene conto delle sue possibilità, della propria storia e del mondo. Il processo di crescita in età evolutiva, ed in particolare nell’adolescenza è sempre un processi di decostruzione e ricostruzione, nella realtà dei fatti significa che ogni ragazzo si trova per natura indotto a smontarsi pezzo per pezzo, scegliere cosa tenere e cosa buttare del suo “vecchio” modo di essere, unire tutto ciò alle nuove proposte che il mondo offre e ricostruirsi. In questo magma creativo i genitori hanno solo la possibilità di rendere convincenti ed appetibili, pensieri, opinioni, comportamenti che ritengono opportuno essere utile fare acquisire nella costruzione della personalità del figlio, che è sempre la risultante complessa, e non la sommatoria, di tutto ciò che succede nelle relazioni che tesse in età evolutiva. 

Rimanendo saldi i parametri del rapporto, il raccontarsi reciproco dovrebbe essere il più diretto possibile, ciò non significa che dovrebbe essere assolutamente veritiero altrimenti si violerebbe il “diritto alla trasgressione”, è un narrarsi insieme su una scena che ha delle “quinte” e dei “fondali” noti e conosciuti, che necessariamente nascondono le “macchine” che vi stanno dietro e che rendono possibile la narrazione. Tutto ciò porta ad un gioco di complicità palese e silente in cui la trasgressione è prevista, a volte conosciuta, ma la conoscenza resta riservata e nascosta, è un esercizio che permette ai genitori ed al figlio di attivare quell’ansia necessaria a gestire il processo di separazione.  Il raccontarsi riflessivo corrisponde a mettersi in discussione con l’immagine di se, nel momento che l’identità legata al ruolo genitoriale si sfuma ed i genitori si trova nuovamente a doversi riprogettare.

(continua)

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