America: se c’è una lezione in questa elezione è che si vince con l’equilibrio tra progressismo e contemporaneità…

Guardando alle elezioni presidenziali americane, mi sovviene un libro dal titolo significativo: “Le Lezioni americane –  Sei proposte per il prossimo millennio”, di Italo Calvino. E’ un libro basato su di una serie di lezioni preparate dall’autore nel 1985 in vista di un ciclo di sei lezioni da tenere all’Università di Harvard. Calvino, morì prima di poter tenere le lezioni… ognuna di queste si riferiva a uno dei 6 pilastri che secondo Calvino rappresentano un valore fondamentale del testo letterario (e, per estensione, della comunicazione in generale), anche se scritte ormai qualche decennio fa, costituiscono ancora oggi un testo estremamente moderno e polivalente, non soltanto in ambito letterario ma anche come strumento per capire i nuovi sistemi di comunicazione, anche quelli legati al mondo digitale che a quei tempi era ancora configurata solo all’ambito numerico. Vediamoli. Questi sono: “la “Leggerezza”, la “Rapidità”, l'”Esattezza”, la “Visibilità”, la “Molteplicità”, la “Concretezza”…  a pensarci bene sono temi che dovrebbero in realtà informare non soltanto l’attività degli scrittori e dei comunicatori, ma altresì ogni gesto della nostra esistenza.  Ma stando proprio alla centralità della comunicazione nella nostra vita di questi tempi…  c’è molto da interrogarsi sulla comunicazione politica, e guardando per l’appunto alle recentissime elezioni presidenziali americane riflettere su quel che ci comunica questa elezione, si quel è la lezione di questa elezione? Da noi sono ormai anni che si discute sul quale sia il miglior modo di conquistare gli elettori e il dibattito è sempre monopolizzato da chi dice che Sinistra e Destra sono categorie obsolete della politica e che non esistono più, che bisogna puntare su politiche nuove e radicali, rifiutare il neoliberismo senza regole, candidare figure anti-establishment. Quante volte abbiamo sentito dire che non si vince più al Centro, perché il Centro non c’è più. E quanti dei nostri pseudo leader ne tentano continuamente una ricostruzione (dall’antico Berlusconi, a Renzi, Calenda, e anche +Europa con la Bonino). Oppure si insiste a dire che bisogna riscoprire l’anima di una Sinistra radicale da contrapporre alla Destra Destra. Si, una nuova radicalità di contenuti e d’azione su cui ricostruire la Sinistra (Cuperlo, Orlando e altri). Oppure rifondare un centrosinistra aprendo il campo alle forze civiche e ambientaliste (Zingaretti, Franceschini e altri). Eccetera, eccetera. Ma se c’è una lezione nelle elezioni presidenziali americane di questi giorni, ci insegna un’altra cosa… Arriva un Joe Biden, coi suoi 77 anni. La prima considerazione che viene da fare: “È vecchio. Fa parte dell’establishment da 50 anni”. Sicuramente, il governatore della Liguria Giovanni Toti si starà chiedendo come Biden sia sfuggito alla richiesta di chiudersi in casa per ragioni di età e soprattutto perché non più produttivo.  Certo, la vera novità è la Harris, la prima Vicepresidente …va festeggiata con le sue parole: “We did it!. Alleluia!” (ce l’abbiamo fatta! Alleluia!). Certo c’è ancora il pensiero della guerriglia minacciosa di Trump, i rischi di un Senato ancora a maggioranza repubblicana e una Corte Suprema conservatrice con in più tutte le insidie del percorso antecedente al giuramento del prossimo 20 gennaio. Ma tant’è che “zio Joe” ha vinto e con lui Kamala!! Ecco spazzar via come il vento le foglie d’autunno, tutte queste interminabili e dotte disquisizioni che comunicano l’importante evento in modo tutt’altro che: “Leggero”, “Rapido”, “Esatto”, “Visibile”, “Molteplice”, “Concreto”…  si predilige in politica una comunicazione che non cerca certo la chiarezza ispirata dai “6 pilastri” indicati a suo tempo da Calvino. La comunicazione politica cui ricorrono molti, dei protagonisti  delle nostre cronache politiche e… pensate un po’ persino i giovanotti dei centri sociali. Si, quelli che predicano il ritorno di un anticapitalismo da anni Sessanta-Settanta, la centralità operaia, anzi no, gli emarginati, la “seconda società”: tutte quelle cose che sono state tradite dai partiti che cercavano quella “maledetta” Terza via, o per dire peggio dai quei “rinnegatissimi” Blair ieri, e oggi Macron e guarda un po’ anche da quel ‘fenomeno’ di Renzi. E’ proprio vero: “fra l’originale e la copia vince sempre l’originale”. Ma stiamo all’America e a queste sue elezioni presidenziali. Ricordate il tandem Sanders-Corbyn che dovevano ognuno nella propria Patria rinverdire il Socialismo (ma quale socialismo esattamente?), i due vecchi coi capelli bianchi che entusiasmarono i “sempre verdi” della Sinistra nostrana i Bersani e i D’Alema. Scissionisti e rifondatori della “ditta” di sinistra che fatica a tenere insieme un 3% di elettori. Bene, proprio Massimo D’Alema ha detto qualche sera fa, intervistato non ricordo più da chi e in quale occasione, che tutta questa discussione «è vecchia». Ha perfettamente ragione: davvero ha senso discutere di Clinton e Blair 25 anni dopo, dei loro errori e dei loro meriti? Ha senso discutere delle divisioni della Sinistra in micro-frazioni che faticano ad avere un’identità vera e un seguito altrettanto vero? Le elezioni del 46mo Presidente degl’USA, insegnano che ciò che non è mai vecchio (nemmeno d’età) è continuare a cercare un punto di equilibrio credibile fra “progressismo e contemporaneità”: esattamente ciò che hanno fatto i Democratici americani a cominciare dalla lezione di lungimiranza effettuata alle primarie con la scelta di Biden e non di Sanders. E gli inglesi con l’allontanamento di Corbyn per eccessiva vetustà intellettuale nonché per il suo negativo sentimento nei confronti degli ebrei. Bisognerà che i “nostri eroi” quelli che pensano alla nostra politica, ma soprattutto  alle loro poltrone …senza mai saperci indicare una via per il futuro… prendano atto e imparino che Biden ha saputo fare quello che nessun altro leader politico americano avrebbe saputo fare meglio. E che è stato ben descritto in un’articolo sul Corriere da Walter Veltroni: «È apparso al tempo stesso moderato nei toni e fermo nel sostegno alle grandi questioni: lotta al coronavirus, ripresa economica, uguaglianza razziale e cambiamenti climatici. Queste le quattro priorità del presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden. Quattro punti su cui è stata incentrata l’intera campagna elettorale e che Biden promette di gestire in modo opposto rispetto al suo predecessore, Donald Trump. Obiettivi, permettetemi che sono sempre presenti nelle domande di un elettorato progressista». E che dire ancora dell’aver voluto il tandem con Kamala Harris la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti d’America. Se non è progressismo questo, cosà lo è? La chiave sta appunto in quel «al tempo stesso», che non è elogio della giustapposizione formale (destra-sinistra o movimento-establishment) ma come detto di una sintesi sostanziale, un equilibrio tra progressismo e contemporaneità. E’ questa capacità di fare sintesi che ha fatto la differenza fra Biden e il suo “ombroso” avversario, tanto che si può pensare e concludere che se all’estremismo di Trump si fosse contrapposto l’estremismo di Sanders oggi avremmo The Donald ancora alla Casa Bianca. È probabile che durante lo svolgersi del voto americano, i nostri osservatori e comunicatori sia di Destra che di una certa Sinistra  avessero già vergato i loro acuminati articoli immaginando la vittoria di Trump, d’altronde l’altra sera su Rai Tre (nelle lungaggini dello spoglio delle schede) stava andando in onda il ‘funerale’ del Partito democratico americano (di quello nostro i nostri Media lo celebrano praticamente ogni dì). Erano tutti pronti a dire, appunto, che non si vince al Centro. Ora, suoneranno gioco forza un’altra canzone (hanno già cominciato a strimpellare i primi refrain), quella che dice che Biden ha comunque vinto per il rotto della cuffia – e invece probabilmente ha stravinto… chi ha mai preso dei 45 presidenti che l’hanno preceduto più di 74milioni di voti? – che poi ’sto voto postale, che significa? Boh!? Come se fosse una novità quando è previsto da sempre nell’ordinamento che regolamenta il voto americano, ma allora?! Che alla fine è una mezza vittoria perché Biden non ha la maggioranza al Senato (lo stesso Federico Rampini ha scritto addirittura di una specie di governo di coalizione, come se il Presidente degli Stati Uniti fosse alla fine un Giuseppe Conte qualsiasi). E insomma tutti già a dire che con Biden e la Harris vedrete che non cambierà niente della attuale politica americana. Ricordate che anche Obama fu una delusione? Tutte cose che da qualche giorno già vediamo belle stampate sui giornali o apparire nei sottopancia di qualche noioso talk show. Per fortuna si tratta di una comunicazione così palesemente contraddittoria da apparire tutt’altro che credibile. Perché invece se c’è una lezione americana in questa elezione è proprio quella che vede confermato che il progressismo liberale e sociale vince, mentre da noi tutto incespica troppo su alchimie politiciste che guardando al proprio ombelico, alle convenienze di un’ora invece che ad una strategia di lunga durata, e su di una linea politica ancora basata sull’ alleanza coi populisti, invece che su concreti programmi… ovvero sulle cose da fare, sulle priorità come si suole dire. Chissà se adesso soffierà anche da noi il vento americano? O si infrangerà sulla, sempre più appannata leadership di un presidente del Consiglio che solo poco più di un anno fa era alleato con il nostro Trump ‘in sedicesimi’ tal Matteo Salvini? E oggi non sa andare oltre alla speranza (vana) di trovare una alleanza stabile e definitiva con il movimento più anti-politico di sempre i 5 stelle o ciò che ne resterà dopo gl’imminenti Stati Generali. Speriamo che Joe Biden illumini anche il centrosinistra italiano, o meglio che con Biden ora la Sinistra d’Occidente possa immaginare un nuovo illuminismo. Imparando a coniugare il radicalismo delle scelte con la moderazione dei toni e delle ambizioni personali, ritrovando la voglia di pensare la grande politica…

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