Molte ha la vita forze tremende; eppure, più dell’uomo nulla, vedi, è tremendo
(Sofocle, “Antigone”, primo stasimo)
L’ aggettivo deinòs che Sofocle usa, ha alla radice il significato di temere ed ha una duplice valenza: sia negativa con il significato di terribile, tremendo, sia positiva come straordinario, meraviglioso. E questo è secondo i Greci un po’ il riassunto della condizione umana. Siamo degli esseri immersi nella Natura ma privi di istinto. Non abbiamo cioè delle rigide risposte ad uno stimolo come gli altri animali ed affidiamo a “paideia”, educazione e “tecne”, tecnica il nostro stare nel mondo… Abbiamo meccanismi adattativi alla natura ma al tempo stesso siamo in grado di adattare la natura alle nostre esigenze. Possiamo produrre cose meravigliose e terribili al tempo stesso, possiamo vivere secondo misura di quanto ci circonda o crescere a dismisura fagocitando risorse ed altri esseri umani. Il mondo in cui viveva Socrate, a cui attribuiamo l’arte maieutica in Occidente, si era già posto il problema della tecnica e del suo uso e aveva convenuto che anche la tecnica (quella ancora primitiva e “naturale” dell’epoca) doveva sottomettersi alla Necessità. Ma i Greci partivano da presupposti molto diversi dai nostri. Essi contemplavano la Natura cercando di comprenderne le leggi. La Natura era lo sfondo su cui avvenivano le vicende dei viventi, soggetti alla Necessità delle sue leggi immutabili, prima delle quali la consapevolezza che la morte era parte di esse. La grandezza dell’uomo greco consisteva proprio nell’accettare la sua mortalità, e vivere secondo misura delle cose, in un rapporto armonioso e ciclico con l’ambiente e civile, nella propria città. Siamo passati attraverso rivoluzioni copernicane della cultura che hanno cambiato la posizione dell’uomo nell’universo e ridefinito più volte la società. Civiltà oggi sotto il dominio della Scienza Tecnica, secondo Umberto Galimberti, costruita a misura di efficienza delle macchine e non dell’uomo, portatore di protesi tecnologiche che lo rendono connesso, ma non più in relazione. Abitanti di una ‘modernità liquida’ secondo Zygmunt Bauman in cui l’essere umano non è più definito dal proprio posto nella società, vincolato nella condotta e nelle azioni dal suo essere sociale. La società attuale offre ai suoi membri una libertà senza precedenti, corredata da un’analoga impotenza. L’uomo, lasciato sempre più solo, senza una trascendenza a cui tendere, una classe sociale in cui riconoscersi e per cui lottare, un forte ideale comune, si ritrova sempre meno cittadino e sempre più individuo in una società narcisista Spesso il valore personale viene attribuito ad un concetto di efficienza stabilito a priori dalla aderenza ad un piano aziendale, a proiezioni matematiche, ad analisi di dati; o alla possibilità di essere un buon soggetto economico, attivo, consum-attore, buyer persona, possibilmente prevedibile ed indicizzabile nei propri desideri e bisogni. Chiuso in una realtà sempre più virtuale che ad ogni scelta gli assomiglia un po’ di più, una filter bubble che lo conferma e lo rende re di un mondo a sua misura. “L’ individuo che non disponga di solide risorse interiori per adattarsi e attribuire senso e valore agli avvenimenti o che non abbia sufficiente fiducia in sé, si sentirà molto più vulnerabile, pertanto, costretto a darsi da solo il sostegno che non può aspettarsi dalla comunità. Sovente è immerso in un clima di tensione, inquietudine, dubbio, che gli rende la vita difficile. Il piacere di vivere diventa cosa rara.”. Al tempo stesso, la ricerca sull’uomo, sia spirituale che scientifica, ce lo riporta come un essere naturalmente interconnesso con tutto il vivente, in grado di conoscersi, crescere e di maturare attraverso una relazione parentale “sufficientemente buona” e continue interazioni con l’altro e con il proprio ambiente. Viviamo da sempre in un mondo pieno di risposte, ma sicuramente oggi è più facile trovarle e confermare sempre di più le nostre certezze. “Ogni cultura è una mappa che ci rappresenta e ci aiuta a comprendere i fenomeni che viviamo”. Ognuno di noi è inserito nella mappa, coach e coachee e questa, personalizzata dalle reciproche esperienze ed accumularsi di credenze, ci influenza, orienta il nostro giudizio, divide il mondo in buono e cattivo, in ok e non ok, per riprendere le parole dell’Analisi Transazionale. Il compito del coach è quello, attraverso l’accoglienza e l’ascolto, di rimanere sensibile alla persona dietro al suo problema, di rimanere sveglio all’umanità del coachee, nonostante la mappa. “L’ascolto è la medicina naturale più potente del mondo, perché ha come primo risultato il fare sentire l’altro accolto, accettato, non giudicato.” Attraverso la relazione di coaching la persona non il suo problema, viene accolta con empatia in uno spazio temporale a sua misura. Il coach lo mette in pratica attraverso l’accoglienza di sé, la capacità cioè di accogliere sé stesso in primis, con amore, senza giudizio, consapevole della propria mappa, che è sempre molto rassicurante, anche quando ci fa male. Capace di uscirne, frequentando il proprio territorio, rimanendo in ascolto ed accettazione di quello che c’è, nel qui ed ora. Lo svolgersi della relazione di Coaching Evolutivo®, mette progressivamente il Coachee in contatto con le sue potenzialità, invitandolo a trasformarle in potenzialità in azione: il coach pone le domande e non giudica le risposte, invita il Coachee ad andare sempre più in profondità per trovare sotto una patina di aspettative le sue risposte, usa il silenzio come spazio vuoto ed accogliente, in opposizione al brusìo del mondo. Il primo dovere di chi svolge una professione di aiuto dovrebbe essere quella di prendersi costantemente cura di sé stesso. È una forma di egoismo allargato: nella misura in cui stiamo bene possiamo prenderci cura di qualcun altro; nella misura in cui stiamo male, non solo non possiamo prenderci cura di qualcun altro, ma pretenderemo che gli altri si prendano cura di noi. È difficile portare qualcuno in luoghi che non abbiamo frequentato noi per primi e questo è tanto più vero quando parliamo di una ricerca evolutiva. Per quanto detto sinora poi, nel rapporto coach/coachee, basato sull’autenticità della relazione, la frequentazione e l’attuazione delle nostre potenzialità fa da “cassa di risonanza” con quelle del coachee. Diventare “i guardiani di noi stessi”, o quantomeno sereni frequentatori occasionali del sé, implica un patteggiamento tra la visione di noi stessi e quella del mondo, una conoscenza dei nostri meccanismi, un contatto con le nostre sensazioni, emozioni e pensieri: prendere coscienza di qual è la mappa in cui siamo immersi; quali sono gli occhiali che indossiamo per guardare al mondo e magari, ogni tanto, riuscire ad abbassarli per goderci una visuale più ampia. Attualmente le scienze che più indagano sull’uomo, neuroscienze e quantistica, ci offrono nuovi spunti e conferme di antiche pratiche. Ne sono un esempio la mindfulness, derivata dalla meditazione Vipassana e diventata un’attività proposta sia in ambito clinico psichiatrico, sia come protocolli di riduzione dello stress e di prevenzione alla ricaduta nelle dipendenze o le tecniche yogiche e russe di respirazione, che hanno trovato le applicazioni più disparate; tecniche antistress, fitness, prestazione… Il rischio che si può correre, molto insito nel nostro pensiero pragmatico è che la tecnica venga svuotata di senso ed usata solo come strumento, quando serve. Ma se tutto questo viene vissuto solo in vista di uno scopo, ci si pone sempre in un tempo futuro, in un fare che può diventare sforzo, nella ricerca “della versione migliore di te stesso” senza sapere chi è codesto te stesso. Sempre tesi al risultato, senza godere della bellezza di quello che incontriamo sul percorso. Queste tecniche, così come sono nate, non mirano al fine, ma al cammino, al percorso. Sono un allenamento allo stare, alla frequentazione di quel vuoto, di quel silenzio, in cui abita il nostro senso più profondo. Da questo punto di vista il coaching può essere un metodo- ponte. Nato nella nostra cultura ed espressione di un metodo e di una pratica per scoprire le potenzialità, agirle e raggiungere l’eccellenza, in una visione di life coaching e Coaching Evolutivo, lascia lo spazio sia al coach che al coachee per una crescita di consapevolezza personale che va oltre gli obiettivi di percorso e le richieste di prestazione, verso l’eudaimonia, connessi con il proprio scopo, in una ricerca della felicità che va praticata manifestando il proprio sé nel mondo. Il coach, che si pone per primo in un’ottica di crescita personale, può utilizzare con il coachee le tecniche che ha appreso e sperimentato su di sé, soprattutto nel work- out, esercizi di allenamento proposti dal coach al di fuori della sessione, che il coachee potrà svolgere in autonomia”. Un work out può avere come finalità la crescita di consapevolezza interna ed esterna del Coachee, la presa di coscienza del proprio potenziale, di ciò che lo blocca, la cura di sé…tutto in un’ottica di allenamento consapevole, intenzionale e ripetuto. Consapevolezza, Autodeterminazione, Responsabilità ed Eudaimonia. Il Metapotenziale da allenare, quattro facoltà attraverso cui far crescere ed esprimere il nostro potenziale, unico ed irripetibile in ogni essere umano. Ed unico diventa anche il cammino verso noi stessi, le strade che sceglieremo, i passi da iniziare. La consapevolezza parla il linguaggio della storia dell’uomo: tutti i sentieri evolutivi cominciano da lì. E se il fine ultimo della ricerca del sé è la Gioia (coniugata in tutte le sue possibili interpretazioni), il cammino non è assolutamente facile, perché implica l’incontro con i propri demoni: credenze, frustrazioni, convinzioni limitanti, noia. Possiamo percorrere due strade, una consapevolezza cognitiva, mentale ed una di tipo esperienziale, corporea. Se rimaniamo nella mente, corriamo il rischio di rimanere limitati dalle nostre convinzioni, se andiamo verso il corpo andiamo verso l’esperienza, verso la sperimentazione del qui ed ora, perché rimanendo nell’esperienza, ascoltando le modificazioni che provoca in noi, senza aver fretta di correre subito ad una concettualizzazione, riusciamo a rimanere in contatto con noi stessi, non con l’idea che abbiamo di noi stessi. Naturalmente non possiamo scindere corpo e mente, ci aveva già provato Cartesio e ci abbiamo messo quattro secoli a riprenderci dalle conseguenze, ma possiamo allenarci a rimanere in contatto con quello che c’è, al sentire, al sé. Nel “Cammino della purezza”, uno dei testi base del Buddismo Theravada vengono descritti quattro oggetti a cui rivolgere l’attenzione consapevole: il corpo, i sentimenti, la mente ed i prodotti della mente (pensieri). “La consapevolezza corporea accende il sentire e le sensazioni si organizzano in sentimenti. È questo il duplice livello delle senti-zioni. Quando le senti-zioni si organizzano, nasce l’impulso interiore a penetrare il mondo: è questo il livello delle emozioni, la cui forza riaccende la mente ed organizza l’agire”. La consapevolezza del sentire e la consapevolezza del respiro sono quindi l’unica premessa possibile alla consapevolezza del pensare e dell’agire. rimanere nel sentire. O, per dirla più all’occidentale: prima di agire, senti! Abbiamo un enorme bagaglio di tecniche di coaching a cui attingere, antiche o moderne, più pratiche o più spirituali. Ho già citato la mindfulness e le tecniche di respirazione, ma ogni proposta che passi attraverso il sentirsi, chiarendo a noi stessi cosa stiamo sentendo, che emozione questo ci susciti e che reazione ci venga spontanea può portarci alla consapevolezza di noi, del nostro confrontarci con il mondo. Se diventiamo consci di alcune nostre reazioni automatiche, potremmo provare strategie diverse per evitare di reagire ed invece agire. Cambiare una risposta abituale dannosa per noi e sostituirla con una che sentiamo veramente nostra, ci porta ogni volta a praticare chi sentiamo di essere veramente, al di là dei nostri condizionamenti. Nel piacere di vivere una vita in cui ci riconosciamo, senza paura di agire la nostra autenticità…
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