Elezioni 2023: prevedibile una ulteriore grande astensione e ulteriori dubbi sull’ascesa della generazione “X” al potere… Chi sono costoro?

seconda parte…

Per Generazione X si intendono i nati tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta. Sono, cioè, uomini e donne che nel 2020 avevano tra i 40 e i 55 anni. Ancora per lo più protagonisti del mondo del lavoro, hanno un forte potere d’acquisto e, per questo, appaiono interessanti agli occhi dei marketer. Come sempre, quando si tratta di tracciare confini tra una generazione e l’altra, i limiti sono tutt’altro che netti e le incongruenze tra i diversi studi che provano a farlo possono essere anche significative. Per comodità e per rilevanza vale la pena così adottare la definizione di Gen X fornita dal Pew Research Center: si tratta dei nati, appunto, tra il 1965 e il 1980. La discriminante ha a che vedere, per questa generazione più che per tutte le altre, con pattern demografici e di fertilità della popolazione mondiale: se la generazione precedente, quella dei baby boomers, è figlia infatti del boom demografico seguito alla Seconda Guerra Mondiale, la Generazione X è figlia invece di una nuova, successiva, contrazione delle nascite. Gen X e Baby Boomers: un legame – e un gap – generazionale. Nonostante non si tratti certo della definizione oggi più accreditata e condivisa di Generazione X, vale la pena accennare a come – e dove – ‘MetLife’ individui le origini dei quaranta-cinquantenni di oggi. Secondo molti studi demografici la Gen X non sarebbe che un sottoinsieme della generazione precedente: riprendendo questi stessi studi, e a patto di estendere il range di riferimento quanto ai possibili anni di nascita dei Baby Boomers, MetLife bolla quindi i membri della Generazione X come «younger boomers», già incapaci di riconoscersi in – e in non pochi casi addirittura insofferenti verso – valori e abitudini dei boomers più anziani. Un’ipotesi come questa, insomma, spiega una delle caratteristiche più segnanti per la Gen X: un gap generazionale molto accentuato. Gap generazionale dalla famiglia al lavoro. Quella di chi ha oggi tra i quaranta e i cinquant’anni, insomma, è stata la prima generazione a cercare, con forza, di distinguersi dai genitori e farlo in maniera evidente e in molti campi diversi, dall’istruzione alla carriera, passando inevitabilmente per i consumi anche culturali. La musica è, in questo senso, una buona cartina di tornasole (proprio per l’importanza che la musica ha avuto nel loro percorso di crescita, tra l’altro, c’è chi si riferisce alla Gen X anche come generazione MTV). Chi era adolescente tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta è stato protagonista, infatti, di una rivoluzione musicale segnata dal punk, dal grunge, dall’hip hop, generi musicali certamente di rottura rispetto al panorama che esisteva fin lì. C’è un fattore demografico importante, però, che non si può non considerare: i bambini della Generazione X sono i primi cresciuti, in non pochi casi, con genitori separati. Il tasso di divorzi era già cominciato a duplicare, infatti, nella seconda metà degli anni Sessanta prima di arrivare al suo picco negli anni Ottanta. Ciò non poté non tradursi in valori come l’indipendenza e la realizzazione di sé che assunsero una netta priorità rispetto a quelli, tradizionali, della famiglia. Semplificando, così, molti studiosi ricollegano proprio queste contingenze a una maggiore mentalità imprenditoriale dei membri della Generazione X. Questo significa che la maggior parte dei membri della Generazione X sono, oggi, degli imprenditori? Probabilmente, la tanto decantata propensione all’imprenditorialità di questa generazione andrebbe letta più in senso figurato, come la capacità di inventarsi pattern di carriera nuovi, versatili e inediti, in parte legata tra l’altro a un mercato del lavoro in profonda trasformazione e nettamente diverso da quello con cui si confrontavano invece le generazioni precedenti. Ci sono, però, anche studi come quello di Sage Group secondo cui oggi il 55% delle nuove attività di business sono condotte da un quaranta-cinquantenne appartenente alla Gen X. Sono dati incoraggianti, che cozzano però con quelli, altrettanto numerosi, secondo cui un membro della Gen X guadagna oggi oltre il 12% in meno di quanto non facesse suo padre alla stessa età e il corollario è, com’è semplice capire, una flessione negativa del reddito annuale che peggiora per le generazioni più giovani. Oggi nella maggior parte dei casi nel pieno della sua mezza età, la generazione X è descritta comunque come tra le più competenti, efficienti e con un’etica forte, quando si guarda al mondo del lavoro. I suoi membri, però, sarebbero i primi lavoratori e dipendenti sensibili davvero al tema della work life balance. Al di fuori del mondo del lavoro, infine, la Generazione X condurrebbe una vita bilanciata, attiva e nella maggior parte dei casi felice: degli studi longitudinali, infatti, avrebbero fissato a 8.5-9, su una scala da 1 a 10, il livello medio di felicità percepita dai membri della Gen X. E così anche la generazione inutile, quella nata troppo tardi per godersi le vacche grasse dei baby boomers, e troppo presto per sfruttare appieno i vantaggi dell’era digitale, si avvia verso la pensione quasi senza accorgersene. Ancora una volta perduta, perché da una parte non avrà le certezze previdenziali dei suoi predecessori, ma dall’altra non ha la lungimiranza o la spregiudicatezza dei successori per assicurarsi gli anni dorati con le soluzioni più moderne. Parliamo dela Generation X, che ha iniziato a compiere cinquant’anni nel 2015 e quindi ormai è già in zona da “early retirement”, almeno per gli americani, o comunque a meno di dieci anni di distanza dalla soglia in cui si raccolgono i pieni frutti della social security. È pronta a fare questo salto? E la nostra società è in grado di assorbire la sua progressiva uscita dalla scena lavorativa? La risposta prevalente tra gli analisti sembra negativa, alla prima domanda più che alla seconda, ma forse c’è ancora un margine di tempo sufficiente a rimediare. Correva l’anno 1987 quando lo scrittore canadese Douglas Coupland, non sapendo bene come classificare il gruppo di persone venute al mondo dopo l’ottimistica esplosione delle nascite seguita alla fine della Seconda Guerra Mondiale, coniò il termine “Generation X”. Duglas Coupland, poi confessò di aver rubato la X, dal libro di Paul Fussell: “Class: A Guide Through the American Status System”, che nel 1983 aveva usato la lettera X per identificare le persone determinate a non farsi vittime delle pressioni sociali, lo status, e i soldi che inevitabilmente lo determinano. Già questo non depone bene, per la loro saggezza finanziaria, ma comunque da qui era nato il romanzo che li avrebbe catalogati per il resto della loro esistenza. Nati quando già si era esaurita la spinta della formidabile generazione visionaria dei baby boomers, che aveva scosso la statica società conservatrice da Woodstock al Vietnam, e quando avevano iniziato a venire al mondo i millennials, sfrontati, narcisisti, spudoratamente sicuri di se stessi e cresciuti col computer in mano, se non ancora con gli smartphone dei veri digital native. In mezzo ci sono loro, quelli della Generation X, arrivati troppo tardi per godersi gli anni inebrianti della contestazione, e troppo presto per maneggiare un cellulare come il ciuccio. Sul piano previdenziale e sociale ciò si traduce in diversi svantaggi, se non altro per una questione di numeri… La Generation X ha avuto anche la sfortuna di ritrovarsi davanti a diversi cigni neri finanziari, come l’esplosione della bolla dei titoli dot-com nel 2000, gli attentati dell’11 settembre 2001, la crisi dei mutui subprime nel 2008, e adesso anche il Covid e la scellerata guerra di Putin in Ucraina. Così se erano stati abbastanza furbi da investire, e scommettere il loro futuro su Wall Street, si sono ritrovati in molti casi a soffrire le montagne russe della borsa. Il risultato è che l’80% dei membri della Generation X è convinto di avere una buona conoscenza dei fondamentali delle finanze personali, e quindi di sapersi orientare bene anche nel campo previdenziale, ma solo il 55% si aspetta di poter andare prima o poi in pensione. Gli altri, ossia quasi la metà, temono di dover lavorare fino all’ultimo dei loro giorni, solo per poter sopravvivere. Essendo poi un numero inferiore rispetto ai boomers e ai millennials, hanno anche un potere di leva inferiore, perché non portano abbastanza voti per condizionare le scelte dei politici e le eventuali riforme necessarie ad accontentarli. Non tutto è perduto, però, visto che da qui alla piena e generale crisi previdenziale manca ancora una decina di anni. Pochi, per costruirsi un futuro sereno, ma forse abbastanza per iniziare a porsi il problema e cercare qualche soluzione, con l’originalità e l’anticonformismo che in fondo li ha sempre contraddistinti. L’Italia (ma non solo… direi l’Europa e d’intorni) corre verso appuntamenti che nessun esponente della vecchia politica pare in grado di gestire… Guerra, Pace, l’ennesima crisi economica e voglia di più Ue con i nostri Partiti in crisi… ci si interroga sul Governo Draghi e la sua durata e su chi dopo di Lui sarà al vertice del potere de Paese. Servirà ancora Draghi dopo il 2023? Uno. Nessuno, in questa fase, sa come andrà a finire né quanto durerà la guerra di Putin. Gli analisti oscillano tra date vicinissime e ipotesi decennali. Supposizioni che prescindono dai fatti il cui svolgimento nessuno è in grado di prevedere e garantire perché nessuno controlla per intero gli avvenimenti che stiamo vivendo. Non a caso c’è chi teme perfino una guerra nucleare. Piaccia o no siamo entrati in una fase in cui non abbiamo più le antiche certezze che ci garantiva la guerra fredda. La guerra calda innescata dall’aggressione russa all’Ucraina provoca rapidi e violenti scenari inaspettati per gli stessi protagonisti del conflitto armato. È in questo contesto mondiale che l’Italia corre verso appuntamenti che nessun esponente delle vecchie nomenclature politiche pare in grado di gestire e affrontare. Del resto, è ormai da tempo e non per caso che alla direzione del governo italiano si trova Mario Draghi, personalità ampiamente nota nell’Ue ( e non solo) ma cittadino italiano che nessuno sa come abbia votato alle ultime elezioni politiche in Italia. Draghi non è stato mai proposto alla carica che oggi ricopre da nessun leader o partito del nostro paese. Nessuno l’ha mai indicato come ministro e tantomeno per la guida del governo italiano. È toccato a lui, su ispirazione e indicazione personale e solitaria del Presidente Mattarella, tirar fuori l’Italia da sott’acqua dove stava annegando dopo due governi, uno di orientamento politico opposto all’altro (ma entrambi diretti dalla stessa persona, l’indipendente Conte poi confluito nel M5S e ora in attesa di capire come finirà). Un inedito nella storia repubblicana che lascia intuire il fallimento di un’intera generazione politica (quella X per l’appunto) e dell’intero schieramento del nostro paese. Due. Il primo appuntamento italiano importante in tempo di guerra è stato l’election day dello scorso 12 giugno. Si votava per i referendum e per un bel po’ di Comuni. Come previsto dai sondaggisti ed esperti i referendum hanno visto la più bassa affluenza ai seggi di tutta la storia repubblicana e il quorum anche se abbinato alle Amministrative in quasi mille Comuni (con alcuni importanti capoluoghi di provincia), non è stato raggiunto. A metà giugno in Italia si va già al mare e l’esclusione di due intriganti referendum (fine vita e droghe leggere) non ha aiutato a spostare gli italiani dal mare ai seggi. E dentro questa prima cattiva notizia ce n’è un’altra: la soluzione di questioni importanti della vita civile e del funzionamento della giustizia ( i referendum ammessi) verranno rinviati a data da destinarsi. Sarà un altro lascito di chi è incapace di produrre in parlamento soluzioni su problemi di fondo che affliggono il paese. La guerra, in ogni caso, al momento ha pesato ancora poco sull’election day. Al di là delle indicazioni dei partiti, che sono condizionati dagli sviluppi guerreschi, le alleanze per le Amministrative nella fase dei ballottaggi saranno (sono già) fortemente influenzate da quel che accadrà e verrà deciso sui territori, secondo una tendenza alla separatezza sempre più solida tra partiti nazionali e territorio. Il momento della verità non potrà però essere per sempre evitato. E ci cadrà addosso per intero tra nove mesi quando arriveremo alle elezioni politiche (marzo 2023). Prima, e è problema da affrontare subito, bisognerà decidere se votare con l’attuale sistema ibrido-maggioritario o passare al proporzionale, secondo l’orientamento sempre più diffuso nel dibattito, ma di non facile realizzazione. Nel primo caso si confronteranno i leader di centrodestra e centrosinistra. Per il centrodestra i candidati possibili sono tre. Berlusconi, che oltre ad essere divisivo è troppo avanti negli anni. Salvini che, assieme al suo cerchio magico, è troppo compromesso col partito di Putin. Meloni, nei sondaggi primo partito italiano, è ormai quasi sola a difendere il maggioritario, malvisto dagli elettori moderati e di centro del centrodestra, che in passato ha sempre vinto grazie alla posizione centrista di Berlusconi che s’è tirato dietro destra e Lega. Un quadro che non esclude che Fi e Lega possano convincersi al proporzionale. Nel centrosinistra la situazione è forse ancora più complessa che nel centrodestra. Letta per vocazione è per il maggioritario, ma il “campo largo” che sogna è pieno di contraddizioni che verranno acuite nei prossimi mesi. I partiti minori di centro-sinistra sono restii ad allearsi con il M5S. I 5S dovranno anche fare i conti con la dispersione di gran parte dei voti presi alle ultime politiche quando risucchiarono una parte consistente dei voti Pd. Conte, già sovranista ma estraneo ai 5S di cui ora è presidente, sta tentando d’agganciare gli elettori che immagina avranno maggiore sofferenza per le conseguenze in Italia della guerra di Putin. Per questo si sta orientando sul proporzionale. Non può rischiare di candidarsi in un collegio (la riduzione dei parlamentari provocherà una drastica contrazione delle pluricandidature) e non venire eletto. Ma per il centronistra (senza trattino) il problema è ancora più complesso perché la radicalità della guerra rimescola le appartenenze provocando nuove e inedite aggregazioni. Tre. E Mario Draghi? Che scenda in campo (una specie di Monti due) capeggiando un partito è da escludere. Le sue risposte alla guerra di Putin suggeriscono altro. Tra tutti i capi di Stato europei è stato il primo e il più determinato a immaginare una risposta strategica e strutturale al dittatore russo. Il cuore della risposta è l’Europa, più Europa, un’accelerazione verso gli Stati Uniti d’Europa. Tutti gli interventi e le mosse di Draghi dopo l’aggressione dell’Ucraina hanno teso a rafforzare questo progetto. È possibile far mancare alle prossime elezioni italiane (specie dopo le elezioni francesi con un segno di favore europeo) uno spazio politico in cui far crescere anche da noi la voglia d’Europa? Il Covid prima e la guerra dopo hanno aperto e dato concretezza a questa prospettiva. Non si può aspettare che tutti in Europa si convincano della sua bontà. Ci sono le condizioni perché un bel gruppo di Stati europei prendano intanto e subito l’iniziativa per una difesa comune iniziando a dare concretezza a una realtà unitaria. Draghi non si sa ancora come ci lavorerà sopra e da quale postazione ma questo appare in fieri il suo progetto… Ultima chiamata per la nostra Gen X? Lo vedremo vivendo…
(fine)

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