Elezioni: Il paradosso Salvini: perché la maggioranza è in ostaggio del politico più perdente della destra?

Uno stillicidio. Così Salvini tenta d’incastrare Meloni. Questa eterna trattativa per il Viminale già cancella l’idea di una coalizione laboriosa che non festeggia. Meloni ha bisogno dei tecnici, ma anche dei voti della Lega. Se Salvini resta dentro è una mina sul Governo, se resta fuori è una mina vagante. Come in un gioco dell’oca, si torna sempre alla casella di partenza, il Viminale, a pochi giorni dall’insediamento delle Camere e poco più dall’inizio delle consultazioni. Richiesto, per l’ennesima volta, da Salvini che, per tenere alta la trattativa, ha schierato a sostegno il suo Consiglio federale. E forse questo stillicidio quotidiano su nomi e caselle, destinato a trovare una forma solo a ridosso delle prime scadenze istituzionali, già rivela un difetto di impostazione. Tanto valeva prendersi qualche giorno di pausa per smaltire le fatiche elettorali e l’euforia da post voto. L’idea di rinunciare ai festeggiamenti per la vittoria, al fine di trasmettere l’immagine di una classe dirigente operosa rispetto alle esigenze del paese, si sta già rovesciando nell’opposto: un gioco tattico, che non è ancora una compiuta trattativa, ma che già presenta delle sgrammaticature istituzionali. Intanto, in attesa di capire dove andrà Salvini, se cioè Giorgia Meloni, come dice la logica, avrà la forza per mantenere quello schema di “credibilità” internazionale che ha in mente (figure affidabili nei ministeri chiave) ribadita anche attraverso il colloquio con Zelensky, e in attesa di capire quanti tecnici e quanti politici ci saranno nel governo, è del tutto espunto dalla discussione, un tema per nulla irrilevante come le cariche istituzionali che, peraltro, rappresentano la scadenza più ravvicinata. Tra l’altro, Giorgia Meloni avrebbe voluto dare una Camera all’opposizione. E’ già tramontato questo timido desiderio e la questione è stata derubricata: i presidenti di Camera e Senato (che poi sarebbe il facente funzione di Mattarella in caso di impedimento) sembrano essere diventate caselle compensative per gli esclusi dal piatto ricco del governo. Insomma, cariche di risulta pur essendo, anch’esse, dei biglietti da visita della maggioranza che si è appena insediata, come postura istituzionale e internazionale. E ci risiamo col Ministero dell’Interno. Sul quale, non è dato sapere se le parole pronunciate da Giancarlo Giorgetti al termine della riunione leghista (“Salvini è il candidato naturale al Viminale”) siano un atto di fedeltà, da parte di chi viene vissuto come un cospiratore oppure un atto di astuzia, o entrambi (un cospiratore che fa finta di sostenere il capo in attesa che si schianti e sapendo che si schianterà), sia come sia è chiaro che, finché non si scioglie questo nodo – e non sarà cosa breve – è destinato a rimanere tutto arenato. Perché è “la” casella in grado di condizionare tutto lo schema: un politico, chiunque sia, al Viminale ha come effetto a cascata la politicizzazione di tutte le altre cariche (tranne l’Economia, ma certamente Esteri e Difesa), mentre una figura tecnica preserverebbe di fatto il criterio per gli altri Ministeri chiave. Ora, sarebbe davvero clamoroso un cedimento di Giorgia Meloni che, in un sol colpo, disperderebbe i benefici di un clima post voto all’insegna della più assoluta normalità: la tempesta antifascista che non c’è stata, il collasso in borsa nemmeno, lo spread sotto controllo, gli osservatori internazionali in prudente attesa. A maggior ragione in un momento in cui Salvini appare come una “tigre di carta”, mal sopportato dai suoi e bombardato, ancor prima della nascita del governo, dal presidente di Confindustria, ben attento agli umori del Nord. È il primo a sapere che non può far saltare tutto per una poltrona perché se, in nome della sua personale crociata su sé stesso, non facesse nascere un Governo di centrodestra scelto dagli elettori dopo dieci anni di astinenza, verrebbe rincorso con i forconi. Tutto ciò premesso, da ieri è ufficiale che Salvini vuole il Viminale. Questo è quello che emerge dalla richiesta esplicita della Lega. Quattro ministeri (Interno, Agricoltura, Infrastrutture, Affari regionali) più la presidenza del Senato questa la lista che sarà presentata a Giorgia Meloni. La richiesta di fare tornare il segretario al Viminale è stata come già detto, confermata anche da Giorgetti: “È il candidato naturale”. E Salvini – viene riferito – non intende proprio retrocedere sul ministero dell’Interno. Eppure, ha bruciato il 25% dei consensi in tre anni. Il partito lo sopporta come male inevitabile. La Confindustria lo ha bocciato. Ma Meloni dovrà trovare il modo per accontentarlo, forse con il Ministero delle Infrastrutture. Così il Capitano sta dimostrando che una sconfitta può valere più di una vittoria… La legislatura passa ancora da lui. Per un paradosso più unico che raro, Matteo Salvini è diventato l’epicentro dell’azione politica. Ha perso, anzi, straperso le elezioni. Ha fallito nel progetto di Lega nazionale. La vecchia guardia leghista, e parte della nuova, lo detesta pur sapendo di non avere alternative. La Confindustria ha appena sparato a zero sui suoi cavalli di battaglia, flat tax e pensioni. Il quadro delle regioni alpine a prevalenza di governi leghisti (Lombardia, Friuli Venezia-Giulia, Veneto) non è più sostenibile per i pesi del voto del 25 settembre e il punto debole è diventato proprio la Lombardia che vota a marzo e che Letizia Moratti vuole togliere ad Attilio Fontana, peraltro Fontana è un bossiano di ferro, che al di là delle apparenze e delle reciproche convenienze nella realtà è senza ‘simpatie’ per il Capitano. E questo è quello che si vede. Mentre sotto la superficie ci sono i 49 milioni di euro spariti, le manovre dell’hotel Metropol di Mosca, i ricatti incrociati, il filo putinismo a corrente alternata, le rinnovate spinte autonomiste destinate a cozzare con la stessa ragione sociale del partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia (che c’entrano le AUTONOMIE FUNZIONALI E una TRASFORMAZIONE FEDERALISTA dello Stato, con le istanze nazionaliste e il “presidenzialismo”). Il Consiglio federale della Lega di ieri 4 ottobre avrebbe dovuto chiarire molte cose. Ma, non è stato così e l’impasse sulla formazione del prossimo Governo Meloni continua. Eppure, dopo essersi giocato definitivamente il Viminale anche grazie a una regola di sapore grillino introdotta da Giorgia Meloni per cui nessuno andrà in un dicastero già occupato, Salvini ha ormai poche chance di prendersi la poltrona degli Interni. In più la poltrona che era un suo obiettivo (nascosto) il Lavoro, dopo che gli industriali hanno manifestato ostilità al programma leghista è anch’essa sfumata. Niente però non gli si può dare. Il fantasma dell’appoggio esterno leghista è sparito subito dopo essere stato evocato, ma ci vuole più di un contentino per Salvini per scongiurare l’ipotesi che il nuovo governo vada sotto al primo voto segreto, questo è chiaro a tutti. Le infrastrutture, che vedono fra i candidati anche il leghista genovese Edoardo Rixi, possono essere la soluzione ideale per il Capitano?! Il ministero di Porta Pia è sempre più carico di miliardi da spendere e consente un affaccio privilegiato sulla maggiore stazione appaltante d’Italia, il gruppo Ferrovie dello Stato. Ma è altrettanto chiaro che è difficile presentare i ministri a Sergio Mattarella senza avere prima risolto la questione della Lombardia dove ormai sta andando in onda “Casa Vianello”, con dispetti continui tra Fontana e la sua vice Moratti. Un ministero? “Che noia, che barba, che barba, che noia”. Il tormentone di Sandra Mondaini si applica bene ai tentativi di distogliere la numero due di palazzo Lombardia dal suo obiettivo: candidarsi alle regionali del marzo 2023 in sostituzione o addirittura contro l’altra metà del letto politico-matrimoniale. Meloni e soprattutto il suo colonnello siculo-milanese, Ignazio Larussa, sanno che quando Lady Moratti si mette una cosa in testa è irremovibile. E sanno anche che la Lombardia vale molti ministeri. Su questo fronte, Salvini sa di potere contare sull’unità del partito che è diventato una realtà nazionale solo fra Varese e Bergamo dopo avere eliminato l’avventurismo separatista del Veneto. Alla fine, qualcuno dovrà cedere per garantire quanto meno un inizio senza scosse al nuovo governo. Stranamente potrebbe non essere Matteo Salvini, eppure è il più debole di tutti…

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