Elezioni: “Meloni, la tua democrazia è quella di Orbán?”

Ci prova Ezio Mauro intervistato da Alessandro De Angeli a rispondere alla domanda. L’ex direttore di Stampa e Repubblica parla a Huffpost a pochi giorni dal voto: “Ci sono due concezioni della democrazia, quella classica e liberale e la democratura di Mosca e Budapest che nega lo stato di diritto. Con quale sta Giorgia Meloni? “Indubbiamente, la suggestione dei pieni poteri, come si vede in Svezia, è ancora forte. E c’è in più che il disprezzo per la democrazia, con la guerra, si è manifestato purtroppo anche a sinistra”. Esordisce così Ezio Mauro. Diamo un titolo a quel che sta accadendo e può accadere tra poco più di una settimana: “la campana svedese suona anche per noi”. In molti, pensavamo di essere la cavia europea di questo nuovo esperimento, ovvero, nel caso vincesse Giorgia Meloni (e ancora non è dato per scontato), il paese occidentale che portava per la prima volta l’estremismo di destra alla guida del governo. E invece ciò che è successo in Svezia indica una tendenza, un clima, uno slittamento dell’opinione pubblica che va in questa direzione. Con una novità, come emerge dalla discussione sulla formazione del governo: la destra moderata sta perdendo l’obbligo di separarsi dalla destra estrema e di alzare una sorta di muro. Chiosa De Angeli: “Una sorta di fine della pregiudiziale antifascista. Che ci interroga anche sulla parola “moderati”, e non solo in Svezia. Non sarà che il moderatismo politico è finito perché il moderatismo sociale è diventato rabbia?” Risponde Mauro: “La rabbia c’è, ma i moderati dovrebbero distinguersi per non cedere all’egemonia del populismo, per ricondurlo a velleitarismo, che aveva uno spazio nella propaganda, ma non riusciva a tradursi in politica concreta. Questa situazione, in Italia, è cambiata con il “Conte 1”. E, da allora, si è dimostrato qualcosa di importante nella natura della destra estrema. Che sono il Papeete e l’invocazione dei pieni poteri! L’idea che il potere legittimamente conquistato non basta, e si vuole una quota maggiore di potere che esce dalle regole. Però poi ci è rientrato, perché la spallata è fallita, e poi c’è stata l’implosione”. Personalmente allora mi ero chiesto, se ciò non fosse il segno che comunque qui da noi gli anticorpi democratici funzionano? Ma poi esce questo: Io sono sovranista, come l’argomento principale di Giorgia Meloni a difesa di Orbán che dimostra come facciamo bene a continuare a preoccuparci. Eccome se dobbiamo preoccuparci. Se per la leader di Fratelli d’Italia la «democrazia illiberale» ungherese è una democrazia a tutti gli effetti, è lecito domandarsi se ritenga dunque quel modello valido anche per l’Italia. Difficile dire se l’argomento usato da Giorgia Meloni per giustificare il voto di Fratelli d’Italia in difesa di Viktor Orbán nel Parlamento europeo sia più risibile o più inquietante. In un’intervista a Radio Uno, Meloni infatti ha detto testualmente: «Orban è un signore che secondo le regole della sua Costituzione ha vinto le elezioni più volte, anche con un ampio margine, con tutto il resto dell’arco costituzionale schierato contro di lui. Quindi è comunque un sistema democratico». Ovviamente, se il criterio con cui misurare il carattere democratico di una leadership fosse il rispetto della «sua Costituzione», dovremmo considerare democratici più o meno tutti i dittatori e gli autocrati della terra, da Vladimir Putin a Xi Jinping, che anche grazie a una modifica costituzionale regolarmente approvata nel 2018 è praticamente leader a vita. E questo è l’aspetto risibile dell’argomento. L’aspetto inquietante è una semplice questione di proprietà transitiva: se per Meloni la «democrazia illiberale» ungherese è una democrazia a tutti gli effetti, è lecito domandarsi se ritenga dunque quel modello valido anche per l’Italia. E più in generale se oggi, quando rivendica il carattere pienamente democratico del suo partito e di un suo eventuale governo, intenda quel genere di democrazia lì. Certo non rassicura sentirle usare l’argomento secondo cui Orbán sarebbe un fior di democratico perché rispetta la «sua Costituzione», cioè quella modificata da lui, a suo vantaggio, e sentirlo dire da una leader che in campagna elettorale ha lanciato proprio il tema della riforma costituzionale. L’aspetto più preoccupante del modello Orbán, denunciato nel rapporto europeo contro cui hanno votato Fratelli d’Italia e Lega, sta proprio nella capacità di piegare leggi elettorali e norme costituzionali a proprio favore, così da trasformare gradualmente una democrazia in un regime, senza violare formalmente alcuna regola. Se disponi di una maggioranza sufficiente, grazie al meccanismo elettorale che hai appositamente ridisegnato a tuo vantaggio e soprattutto a danno dell’opposizione (come denuncia puntualmente il rapporto europeo), non hai bisogno di violare le leggi: ti basta cambiarle. Non ti serve nient’altro. Che bisogno c’è di corrompere i giudici, ad esempio, se sei tu a nominarli? Nel rapporto europeo, peraltro, ci sono ampi dettagli anche sui mille metodi adottati per influenzare direttamente carriere, stipendi e benefit dei magistrati, così da evitare pure il rischio che qualcuno faccia l’ingrato. Una volta conquistata la maggioranza necessaria a cambiare la Costituzione a proprio piacimento, come è accaduto in Ungheria, si capisce che è tutta discesa. In questo senso, dire come fa la leader di Fratelli d’Italia che Orbán rispetta «la sua Costituzione» è esattissimo: la rispetta perché è proprio la sua. Se questo è il modello cui Meloni si ispira quando parla di presidenzialismo, abbiamo dunque molte buone ragioni per preoccuparci. D’altra parte, è esattamente la ragione per cui da quando col taglio populista dei parlamentari si è sferrato il primo irresponsabile colpo all’equilibrio dei poteri, che si è ritenuto occorresse subito una nuova legge elettorale proporzionale: per evitare che il vincitore di domani potesse avere la tentazione di seguire l’esempio di Orbán. Ma chi oggi grida al pericolo, come fa Enrico Letta, fino a un attimo fa preferiva offrire sponda proprio a Meloni contro il proporzionale, gridando basta con «gli inciuci» e ripetendo che chi vince deve poter governare cinque anni… Che facciamo? Non ci resta che sperare che almeno siano solo cinque… E la vicenda dei dossier americani come va interpretata? Sintetizzo: è un warning, un avvertimento al governo che verrà? Neanche in Polonia c’è un governo campione della democrazia, ma è iper-atlantista, anzi ha un ruolo cruciale nella Nato. E quello è l’importante? C’è una differenza di sensibilità tra l’establishment politico americano e quello europeo. In Europa si avverte molta preoccupazione e molto interesse a capire come, a cent’anni dalla marcia su Roma, un paese di antica democrazia si possa consegnare a una leader che ha un riferimento ideale in un deposito di credenze e memorie provenienti da quella storia. Mentre l’America, essendo un paese non ideologico, si accontenta di rassicurazioni su due punti: il primo è l’appartenenza atlantica, e su questo Giorgia Meloni credo sia sincera anche perché le conviene; il secondo è una continuità in politica economica, e anche su questo Giorgia Meloni compra legittimazione, chiedendo consigli e offrendo garanzie come raccontano le voci di continuità al Tesoro con Panetta o Franco. Ombrello della Nato e vincoli di bilancio. Sarà scolastico, ma sono i compiti classici che svolge chi si avvicina al governo. Sì, però, qui nasce una domanda capitale: sei atlantica, bene, ma sei anche occidentale? È il punto: l’identità occidentale non si esaurisce in una dimensione esclusivamente militare. C’è la Nato, ma c’è molto di più. Il nostro patto con gli Stati Uniti non nasce da una intesa militare, ma la coscienza di far parte di una comunità di destino, dalla condivisione di valori democratici che stanno alla base delle nostre costituzioni e delle nostre istituzioni. E questo punto va ancora chiarito. La domanda a Giorgia Meloni è: che cosa hai da dire sui valori occidentali e liberali? Potrebbe rispondere che, dentro l’Occidente, anzi dentro la democrazia americana c’è stato e c’è Trump, compresi quei giudici della Corte suprema che la pensano sull’aborto come i suoi candidati. E nessuno si sogna di dire che l’America non è una democrazia. Dopo di che Trump è colui che ha incoraggiato la rivolta “para-golpista” dei sui sostenitori. E la domanda è: cosa ha pensato Giorgia Meloni quel giorno, quando ha visto l’insurrezione al Campidoglio contro le libere elezioni americane? Anche questo punto è fondamentale perché come già accennato oggi si stanno facendo strada due diverse concezioni della democrazia: una classica, liberale, che si è trasfusa nelle Costituzioni, e ha segnato l’epoca dal dopoguerra a oggi, garantendo, con tutte le nostre infedeltà i nostri limiti, la libertà. E la democratura. Esattamente: la convinzione, spiegata da Putin in un’intervista al Financial Times e praticata da Orbán che esiste anche un modello di democrazia che nega lo Stato di diritto. Traduciamo: lo Stato di diritto prevede il controllo di legalità da parte della magistratura sugli atti del potere legittimamente eletto, il controllo di legittimità da parte della Corte Costituzionale, il controllo del Parlamento sul governo, il controllo sociale da parte di una libera informazione. Tutto questo è messo in crisi in Russia e in Ungheria. Mauro nell’intervista a De Angeli dice che: “il voto di ieri in Europa di Lega e Fratelli d’Italia contro la condanna a Orbán è icastico. A dire il vero mi sembra che il momento più icastico sia stato quando Giorgia Meloni si è schierata con Orbán, nel braccio di ferro tra il leader ungherese e la Ue sul vincolo tra Pnrr e rispetto dello Stato di diritto. È chiaro che, nel momento in cui chiedi un aiuto, in questo caso economico, devi rispettare le regole del club cui chiedi aiuto, cioè le condizioni formali della democrazia-liberal democratica, che Orban non rispetta perché pratica una strada diversa verso Corte costituzionale, magistratura, informazione. Orbene, dice oggi Giorgia Meloni: “Orbán è un governo legittimo, perché ha vinto le elezioni”. Nel non detto c’è un manifesto politico, però se il tema è quello che stiamo dicendo, la domanda conseguente è perché il paese non percepisce tutto ciò come pericolo ma anche, potenzialmente, come un vettore di cambiamento? E qui dobbiamo fermarci un momento. Il rischio è che questa critica alla democrazia classica e l’offerta di una democrazia diversa fondata sulla totale assenza di check and balance da parte di chi ha vinto le elezioni – l’unzione berlusconiana – abbia presa sui cittadini all’interno della crisi. Perché la democrazia non sta molto bene. La democrazia non è una risorsa naturale, ma una costruzione umana e, come tutte le costruzioni umane, ha bisogno di manutenzione. I problemi più grandi li ha nei confronti dei ceti più deboli, piegati da un accumulo di crisi, dalla peggiore crisi finanziaria del dopoguerra al Covid, che hanno aumentato le disuguaglianze. E torniamo alla Svezia, al nesso tra patto sociale (chiamiamolo anche socialdemocratico) e la democrazia. Certo, alla democrazia le disuguaglianze non piacciono. La politica democratica, che sa che deve convivere con l’ingiustizia, ha fatto molto: il welfare, la scuola, gli ascensori sociali. Ma, quando la crisi trasforma le disuguaglianze in esclusioni, è lì che per le democrazie nascono problemi. Che cosa dicono gli autocrati? La democrazia è una creatura del Novecento, che funzionava nel secolo della re-distribuzione, non serve per governare la crisi; dunque, date il potere all’eletto dal popolo, liberatelo di lacci e lacciuoli e aiutatelo ad avere i pieni poteri, contro la regola democratica che viene confusa con Bruxelles… Certamente e infatti, diciamolo in positivo, bisognerebbe avere la forza di dire che nella fatica della democrazia c’è la sua grandezza, che ogni volta ricomincia da capo, rimette in discussione tutto, e questa fatica è una impresa umana grandiosa. Ora però, mi chiedo: non è troppo automatico questo nesso tra destra italiana e Orbán, quando invece il mix di elementi di legittimazione e contraddizioni è più composito? C’è il voto in Parlamento europeo, ma Giorgia Meloni propone una Bicamerale, non una spallata e ricicla Tremonti che non è un pericoloso sovranista. Escludiamo quindi, che alla prova del governo, ci possa essere una evoluzione positiva? Qual è il punto di maggiore debolezza del centrodestra? Il Viminale? Se la Meloni non riesce a impedirlo a Salvini, rischia di contizzarsi, nel senso del governo Conte I. Già Salvini rischia di essere l’anello debole del sistema, su cui si concentrano le attenzioni di Ue e Stati Uniti. La sua esposizione verso Putin ha bisogno di risposte. Al Metropol non era un semplice parlare di tangenti da parte di faccendieri, ma c’era un riferimento al livello politico dei vertici della Lega, che metteva a disposizione pezzi di politica estera italiana. Dal “prima gli italiani” al “prima i russi”. Ed è chiaro (da qui un mal di testa per la Meloni) che c’è una pressione perché Salvini non abbia ministeri sensibili. Molto dipenderà dai rapporti di forza che usciranno dalle urne, anche perché il ruolo di Berlusconi, che ha fatto una dichiarazione europeista, è cambiato in un punto decisivo: era portatore del potere di coalizione, ora non lo è più. È lui che rincorre la coalizione di cui vuole far parte. Anche ascoltando ieri la conferenza stampa di Draghi, viene spontanea una considerazione, che può apparire paradossale. Proprio nel momento in cui dovrebbe apparire più insensato averlo buttato giù (bollette, crisi, eccetera), invece che punirli il popolo vota i partiti anti-establishment, l’opposizione e i Cinque stelle. Come lo spieghiamo a noi stessi? Perché il populismo, nell’ambito delle tendenze di fondo che ci stiamo raccontando, si è concentrato nella sua battaglia contro élite, competenza ed establishment presentando Draghi come l’affamatore dei ceti popolari e l’agente dei presunti poteri esterni. È stata creata una demonizzazione artificiale nei suoi confronti trasformandolo in soggetto politico, non tecnico. E c’è un pezzo di opinione pubblica che di destra e di sinistra, si è radicalizzata, vedi la guerra. Vediamo la guerra: “proprio nel momento in cui la controffensiva ucraina mostra le ragioni del sostegno alla resistenza, c’è una sostanziale indifferenza”, osserva sempre Mauro. È un chissenefrega chi vince, l’importante è quanto pago di bollette. Infatti, con la guerra si è manifestato, anche a sinistra, un disprezzo per la democrazia, come se la democrazia, non fosse un tema costitutivo dell’identità della sinistra e ci fossimo dimenticati di quei valori che vengono dalla sconfitta del nazismo e poi abbiamo ritenuto che, dopo la caduta del Muro, diventassero universali. È come se, durante la guerra, le colpe dell’uno e le ragioni dell’altro fossero sullo stesso piano, e non ci si è resi conto che oltre alla sovranità e alla libertà dell’Ucraina erano in gioco i nostri valori. Questo si intreccia con le specificità del caso italiano e la sua crisi del sistema politico, segnato dalla rottura decennale tra governo e sovranità popolare. Si può dire che la forza della Meloni è anche nella crisi altrui e nel trionfo del trasformismo che alimenta la suggestione dei pieni poteri… Io da Giorgia Meloni aspetto ancora un giudizio compiuto sulla democrazia. E anche un giudizio, anch’esso compiuto, sul fascismo che non ha mai dato, trincerandosi dietro l’età che non è una scelta, ma un dato di fatto, come un dato di fatto è che aveva l’età della ragione quando si iscrisse movimenti neofascisti. Cosa vuol dire “lo abbiamo consegnato alla storia?”. Nulla. Condannare le leggi razziali è indispensabile, vorrei vedere, ma non basta. Bisogna dare un giudizio complessivo sulla democrazia. E non capisco la fatica nel pronunciare la frase “noi crediamo nella democrazia” nel momento in cui, come sembra, si apprestano ad andare al governo ed esistono due ipotesi di democrazia. Io vorrei francamente che l’Italia restasse nel campo della democrazia liberale… Perché il rispetto della libertà e dell’autonomia dei popoli è un valore democratico e il fatto che la guerra attacchi questi valori interpella anche noi. Anche in questo caso c’entra la crisi, nell’ambito della quale la sinistra si è chiusa nelle famose Ztl, e chi sta nelle Ztl regge anche il costo delle bollette. C’è stato uno spostamento delle classi di riferimento, si sono abbandonati i ceti che non si sentono protetti. Angelo Tasca, li chiamava nel 1921 i “fuori classe”. Quelli che dicono: “Alle mie condizioni di vita tu non arrivi, non sento i benefici delle tue parole. Io ho creduto negli anni del lavoro e del benessere. Ora vali solo per i garantiti e non per me”. E questo mette in mora la democrazia. Anche perché, diciamocelo, si è smesso di criticare il capitalismo. “La sinistra oggi è globalismo e diritti civili. Dove è finito il conflitto tra capitale e lavoro, tra bisogno e privilegio?” Chiede De Angeli, concludendo l’intervista a Mauro: “Sono molto colpito che dopo la crisi più lunga del secolo – risponde Mauro –  il pensiero liberista che è entrato egemone dentro la crisi ne sia uscito egemone, senza un’obiezione culturale, senza un pensiero concorrente. Eppure, anche il Covid dovrebbe aver insegnato qualcosa. In alcune situazioni la destra ha messo al centro il lavoro, intendendolo come piena libertà del capitale, svincolato da qualsiasi vincolo, anche sanitario come ai tempi della richiesta di aperture indiscriminate: a un passo dalla Thatcher.  Ricordi? “La società non esiste”. Mentre bisogna prendere atto che è stato il lavoro il vero antidoto al Covid. Anzi, il lavoro, diciamo così, di servizio: mentre noi eravamo a casa proteggendoci perché non c’erano i vaccini, qualcuno teneva aperti i supermercati, le autostrade reali e quelle elettroniche, il lavoro degli altri. E si è manifestata una potenzialità sociale e quasi inconsapevole di solidarietà che sembrava non esserci più prima. Ma purtroppo sembra una lezione che è stata definitivamente dimenticata”.

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