Giovani e la mancanza del lavoro… c’è un perché?

Un lavoro a termine su due non supera i 6 mesi.  Nel 75% dei casi il part time non è una scelta.  Scese al 20% le assunzioni stabili nei primi due mesi del 2018.

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L’Italia è una delle economie avanzate che in questo secolo maggiormente hanno preteso di creare sviluppo e benessere senza le nuove generazioni. La riduzione demografica dei giovani e il deterioramento delle loro prospettive occupazionali non ha, infatti, quasi eguali in Europa. Siamo convinti che il problema del lavoro dei giovani sia la nostra bassa crescita economica, mentre già oggi si evidenzia il contrario: ovvero nei prossimi anni ci troveremo con lo sviluppo competitivo del Paese frenato soprattutto dalla carenza di un contributo solido e qualificato delle nuove generazioni… Un Paese cresce e prospera se mette i membri delle nuove generazioni nelle condizioni di essere ben preparati, efficacemente inseriti nel mondo del lavoro, adeguatamente valorizzati all’interno del sistema produttivo. Purtroppo su tutti questi punti l’Italia presenta molti ritardi e persistenti debolezze, tanto che oggi una persona su tre nella fase giovane-adulta (25-29 anni) risulta del tutto inattiva (l’Italia ancora bandiera nera europea per il numero di Neet – “not (engaged) in education, employment or training”), ovvero non studia e non ha né cerca una vera e propria occupazione. In Spagna il valore corrispondente è inferiore al 25%, in Francia è sotto il 20%, nel Regno Unito e in Germania non si arriva al 15%. Il tasso di occupazione, nella stessa fascia d’età, arriva a malapena al 55% ed è il più basso in Europa, con un divario di ben 20 punti percentuali rispetto alla media dell’Unione. Nella fascia 30-34, assieme alla Grecia non arriviamo al 70%, mentre in gran parte d’Europa i valori sono superiori all’80 percento. Il dibattito pubblico su questi temi è dominato dalla curiosa idea che la giovinezza sia come una “malattia” dalla quale si guarisce con l’età, ovvero che i problemi si risolvano semplicemente invecchiando. Mentre entrare male e tardi nel mondo del lavoro, come molti studi documentano, produce invece conseguenze negative persistenti sulle carriere professionali, sulla storia retributiva, sulle scelte familiari e sui livelli di previdenza nel presente come ancor più nel fututo, oltre che chiaramente incentivare uno scadimento di fiducia nelle istituzioni e un atteggiamento di difesa verso i processi di cambiamento. I dati del “Rapporto giovani 2018” dell’Istituto Toniolo, pubblicato recentemente (in libreria dall’Aprile scorso), evidenziano un desiderio nei giovani italiani di sentirsi riconosciuti positivamente come forza di sviluppo del paese non certo inferiore rispetto ai coetanei europei. Si sentono però dotati di minori strumenti utili a superare le proprie fragilità e a far emergere le proprie potenzialità, fuori dall’ambiente protettivo della famiglia di origine. Secondo tale ricerca, gli under 35 italiani esprimono un giudizio generale favorevole sulla scuola, ma, nel confronto con i coetanei europei, la vedono meno utile per affrontare il mondo del lavoro. Alla domanda sulla sua utilità nell’aumentare conoscenze generali, nell’imparare a ragionare, nel formare cittadini consapevoli, le risposte dei giovani del nostro paese non si differenziano molto dai coetanei tedeschi, inglesi, francesi e spagnoli. Sul riconoscimento del beneficio, invece, rispetto a trovare impiego di qualità (non un lavoretto poco pagato)e a capire come funziona il mercato del lavoro, le percentuali risultano sensibilmente inferiori. Fatta salva la funzione culturale più generale dell’istruzione, questi punti dovrebbero essere urgentemente potenziati al fine di rafforzare tutto il processo di transizione scuola-lavoro. Per il successo di tale transizione è, inoltre, cruciale il ruolo delle politiche attive. Anche su questo strumento (nonostante gli annunci in campagna elettorale – e il neo-governo)  i giovani italiani sono molto critici: solo l’8,2 percento degli intervistati ritiene i centri per l’impiego oggi utili per informare sulle opportunità occupazionali e il 7,5 percento per fornire strategie per la ricerca attiva del lavoro, contro valori del 50% più alti in Spagna e più che doppi in Germania. Rispetto, infine, all’utilità dei sindacati, la richiesta è di un forte e credibile loro rinnovamento per rispondere meglio alle nuove esigenze di rappresentanza di un mondo del lavoro in continua evoluzione. L’Italia ha un grande bisogno di una vera politica di sviluppo in grado di espandere la domanda di lavoro di qualità. Ma allo stesso tempo vanno migliorate la qualità dell’offerta di lavoro e l’efficienza dei canali di incontro di questa con la domanda, se vogliamo che le aziende più virtuose in crescita, siano disposte ad investire sul capitale umano e possano allineare l’offerta occupazionale a ciò che di meglio le nuove generazioni possono qualitativamente dare. A proposito di giovani e della loro occupazione che sta facendo questo “nuovo governo del cambiamento?”  Cosa sta effettivamente cambiando? Parlando come sta facendo solo d’immigrati e Rom… già ora, ma sempre di più i giovani italiani, saranno anche loro degli immigrati, in cerca di fortuna e lavoro all’estero o costretti a nomadare, vivendo in tuguri e baraccopoli temporanee ai margini delle periferie cittadine.

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