Governo: Conte è circondato. Il Quirinale è costretto a intervenire perché nella politica italiana si continua a navigare a vista…

Giuseppe Conte è circondato. Da ogni lato. Da sopra dal Quirinale, frontalmente dai partiti della maggioranza, da sotto dalle Regioni. L’avvocato che in primavera aveva l’Italia in mano adesso è un uomo guardato a vista, come si muove lo fulminano, lo mettono sotto tutela, soprattutto non si sopporta più il suo egocentrismo. Non è certo un’opposizione priva di idee a impensierirlo. La scelta della tripartizione del Paese a seconda della gravità delle situazioni ha scatenato un vero e proprio mega-incidente istituzionale, sin qui sempre nell’aria ma mai esploso davvero, che ha richiesto addirittura la mediazione del Quirinale. Il Paese è stato diviso tra zone gialle, arancioni e rosse. Ma molti governatori contestano la fascia di assegnazione. Torna l’autocertificazione per uscire. Oggi vertice di maggioranza sul decreto ristori bis Le nuove misure anti Covid previste dall’ultimo dpcm del governo partiranno da domani, e non da oggi.  Tre aree: gialla, arancione e rossa, a seconda della gravità del contagio. Più alti sono i rischi, maggiori le restrizioni. Fino al lockdown, molto simile a quello di marzo, per Lombardia, Piemonte, Calabria e Valle D’Aosta. Puglia e Sicilia restano invece nella zona “intermedia”. Il braccio di ferro tra governo e Regioni non si placa neanche a decreto approvato. Restano i dubbi sui criteri che hanno portato alla valutazione. «Dati vecchi», secondo il governatore lombardo Attilio Fontana, che non tengono conto degli effetti del dpcm del 24 ottobre. «È uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi», dice. Anche il veneto Luca Zaia contesta i dati su cui si basano le fasce di rischio. A ribellarsi pure la Calabria. I consiglieri di maggioranza scrivono una lettera al presidente della Repubblica per dire che la zona rossa, unita al commissariamento della sanità deciso ieri dal consiglio dei ministri, «metterebbe a rischio la tenuta economica e sociale, la democrazia e la speranza del popolo calabrese». Se dopo circa due settimane una regione dovesse invertire il trend, potrebbe uscire dalla zona rossa o arancione, tramite una ordinanza del ministero della Salute. Le ordinanze, ha detto ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, «non saranno arbitrarie e discrezionali. Ma saranno fatte alla luce del monitoraggio periodico». Nessuna valutazione politica condizionerà le scelte del Ministro Speranza, ma solo i numeri, sulla base dei 21 criteri individuati dall’Istituto superiore di sanità per la valutazione dei livelli di rischio della pandemia. Non è escluso che altre regioni siano trasferite in una fascia più a rischio. E gli occhi sono puntati soprattutto sulla Campania di Vincenzo De Luca, dopo giorni in cui sembrava certa la chiusura della città di Napoli. In più il premier deve fare i conti con il malcontento del Partito democratico e la fronda delle opposizioni. La verità è che i problemi vengono tutti dai suoi alleati, anche da quelli che lo avevano innalzato al livello di “fortissimo punto di riferimento delle forze progressiste” (Nicola Zingaretti al Corriere della Sera, 20 dicembre 2019). Undici mesi dopo, il Pd Conte lo tollera appena, non essendoci alternative, almeno per ora. Ma quel lontano entusiasmo è via via andato spegnendosi – malgrado il residuo afflato di Goffredo Bettini – complice la debolezza dimostrata nella guerra alla pandemia durante questa tremenda seconda ondata. Nella quale il premier si sta dimostrando incapace di unire il Paese, inviando di continuo direttive che si sovrappongono, si smentiscono a vicenda, vengono contestate. Talmente contestate (dalle Regioni) che l’urgentissimo dpcm entrerà in vigore solo domani – non ci voleva un genio per capire che occorre un minimo di tempo per organizzarsi. Le Regioni sentono scaricare su di loro la responsabilità di dettare ai cittadini i comportamenti delle loro vite. Il Ministro Roberto Speranza, che è sempre più quello che porta la croce, ha cercato di calmare le acque, tutte le decisioni saranno condivise, anche se non si capisce bene se gli automatismi previsti dal dpcm in base ai quali una regione deve entrare o uscire da una determinata fascia funzioneranno a dovere e senza innescare conflitti. E infatti ieri si è litigato per ore per capire quale regione stesse in quale fascia, con gli scienziati presi in mezzo fra governo e regioni, in un bailamme italiano ben più greve e pecione di quello americano. Alla fine, nell’area rossa figurano Lombardia, Piemonte, Calabria e Valle d’Aosta: qui il lockdown è pressoché totale. Poi l’area arancione che riguarda Puglia e Sicilia ha restrizioni maggiori di quella gialla che concerne dunque la maggior parte del Paese. Nella ennesima conferenza stampa, Conte si è sostanzialmente limitato a dar conto di queste notizie: «Non abbiamo alternative». Poi Conte, a parte l’assedio delle Regioni, è costretto a subire altre due iniziative. La prima è la verifica di governo che non si chiama così ma più blandamente “tavolo di maggioranza”, quello chiesto da Renzi e dallo stesso Zingaretti che sinora il premier era riuscito a far slittare anche grazia all’abulia degli amici grillini spariti dal dibattito pubblico e immersi nelle loro lotte interne pre-Stati generali. Ebbene stasera – sempre col favore delle tenebre – si terrà questa riunione dei leader dei partiti della maggioranza con il presidente del Consiglio per dirsi un po’ di cose in faccia. Gli spin dicono che sarà una riunione solo sul Covid – che comunque è il 99% dell’attività del governo – ma è probabile che Renzi faccia qualcosa in più: qual è la linea generale, a parte incedere di dpcm in dpcm ogni 10 giorni? E sul Mes che si fa, si continua a tergiversare in attesa che Di Maio molli la presa? O il fatto che anche il ministro dell’Economia Gualtieri sia convenuto sull’opportunità di prenderli, quei benedetti 37 miliardi per la sanità, può sbloccare l’impasse? Sul rimpasto Conte ha tagliato corto dicendo che nessun partito ha posto il tema. Sarà. Ma c’è un secondo “tavolo” che Conte dovrà accettare. È quello imposto con una certa fermezza da Sergio Mattarella che ha chiesto ai presidenti delle Camere di inventarsi uno strumento di colloquio permanente fra governo e opposizione, un colloquio che il premier amerebbe non avere dati i suoi pessimi rapporti personali con Salvini e sospettoso di un possibile clima da unità nazionale che inevitabilmente ridurrebbe il suo ruolo. Ma il Capo dello Stato ormai sa che deve intervenire personalmente per sciogliere nodi politici che Conte non sa sbrogliare da solo. Così è intervenuto prima su Bonaccini e Toti cercando di svelenire il clima fra Regioni e Palazzo Chigi e poi su Fico e Casellati per aprire un tavolo con la destra. Una supplenza politica bell’e buona. Era dai tempi di Giorgio Napolitano che non si assisteva a una cosa del genere, quando la politica era debole. Come adesso, a quanto pare…

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