Governo: sette disastrosi giorni. Decreto Piantedosi, ma siamo sicuri che sia necessario? A leggerlo attentamente, introduce surrettiziamente anche il divieto di sciopero che è garantito dalla Costituzione…

I sette disastrosi giorni di Piantedosi. Dai manganelli della Sapienza al decreto anti rave, si palesa chiaramente l’inadeguatezza del Ministro… Chissà se qualcuno, tra chi ha alte sensibilità istituzionali, ha spiegato, magari in via riservata, al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi autoproclamatosi, a distanza di due righe nella stessaintervista al Corriere, “servitore dello Stato” e “amico di Salvini, grato a Salvini”, che le due cose non stanno assieme, perché chi “serve lo Stato” non ha amici da compiacere e pegni da pagare. E siamo già al cuore della questione di questo “Romanzo Viminale” che ha tinte fosche, iniziato con i manganelli dalla Sapienza, proseguito con un’incerta battaglia navale sulle Ong, culminato con la “norma bandiera” contro i rave, il cui tasso di ideologismo è pari solo al tasso di discrezionalità che introduce nel giudicare ciò che “pericoloso” per “l’incolumità e la salute pubblica”. Allargando pericolosamente l’area della punibilità, teoricamente, ad ogni forma di manifestazione pubblica… e a leggerlo bene sembra introdurre surrettiziamente anche il divieto di sciopero. A questo punto la questione va ben oltre il virus della vanità, altamente contagioso in posti così elevati, di cui fa parte l’ansia dichiaratoria, il presenzialismo nei salotti tv, la rincorsa degli eventi, insomma un certo salvinismo mediatico, che inevitabilmente espone il ministro dell’Interno all’incongruenza di una precisazione (sulla fattispecie di reato) il martedì pomeriggio e poi di un’intervista il mercoledì mattina per precisare la precisazione, sostenendo che la legge riguarda solo i rave – anche se non c’è scritto – e aprendo a modifiche (senza dire quali). Col dettaglio che quel decreto, di cui sfuggono i requisiti costituzionali di necessità e urgenza, è vigente così come è stato approvato dal cdm. E dunque già consentirebbe di intervenire, secondo le norme approvate, di fronte ad “adunate” ritenute pericolose dal poliziotto zelante – non solo i rave – ma anche di non intervenire al poliziotto dubbioso secondo le “disposizioni” date dal ministro a mezzo stampa. Quantomeno, ed è già un cortocircuito, siamo di fronte al trionfo della confusione e della discrezionalità in termini di chiarezza di perimetro di azione, insomma l’opposto di ciò che è richiesto a una catena di comando preposta alla pubblica sicurezza, mentre, nell’euforia degli animal spirits della maggioranza, ognuno fornisce già le sue istruzioni per l’uso del manganello da sgombero, come il deputato Mollicone: le occupazioni sì, ma le scuole no. E dove sta scritto? Andiamo al dunque. Il ministero dell’Interno, lì dove è stato piazzato un “tecnico” per temperare Salvini, è un problema nel problema, proprio per la sua natura tecnica e non politica. Che lo rende esposto, come vaso di coccio tra vasi di ferro, alle attenzioni dei due protagonisti della maggioranza – Salvini che ne rivendica una gestione ombra, Meloni che lo ha nominato per arginare Salvini – minandone la forza, nel governo e nella capacità di parlare al paese, essendo privo dell’unzione popolare in un governo dalle forti appartenenze e dal forte mandato. È un altro capitolo della fallimentare dottrina, del “è meglio un tecnico al Viminale”, luogo istituzionale e politico par exellence, proprio perché si occupa di una materia delicata come la libertà e i diritti di tutti quanti. Che quindi al dell’ha del “tecnico” deve essere in grado di assumersi una responsabilità politica, e non è questo caso, come non lo era il predecessore, altro prefetto messo lì proprio per non scegliere: non avendo una linea tra Minniti e chi saliva a bordo delle Ong, si nominò Luciana Lamorgese, espressione perfetta di una non linea. E qui, l’offensiva ideologica della destra disvela anche un vuoto di alternativa, tra il sindaco di Modena che ringrazia Piantedosi, il segretario (dimesso a metà) del Pd che chiede di ritirare il decreto, il segretario in pectore senza congresso (Bonaccini) che parla di lotta all’illegalità, e le vibranti denunce dell’allora premier che si fece fotografare sbandierando l’approvazione dei decreti sicurezza. Vale la pena prendere a prestito da Marco Minniti il titolo del suo volume Sicurezza è libertà, perché la questione generale, su sicurezza e immigrazione, si ripropone oggi come allora: da un lato la destra, come impresa della paura, reale e sapientemente alimentata perché la paura è un sentimento non un dato statistico, che alla paura “tiene incatenata la gente”, cui dà in pasto misure simbolo non avendo quattrini sulla crisi. E offre un baratto tra più sicurezza e meno libertà. Dall’altro la sfida che si pone coniugandole, e non con un baratto contrario, perché, e ci risiamo con le periferie, la libertà a costo della sicurezza vale solo nella Ztl e non consente di farsi carico di quei ceti che la sinistra deve rappresentare… Ma c’è di più, molto di più. Per dirla con Giuliano Cazzola… ex sindacalista socialista della CGIL e parlamentare di lungo corso prima nel Partito delle Libertà, poi in Scelta Civica con Monti e oggi, esponente di +Europa non rieletto lo scorso 25 settembre: “Nella mia vita sindacale ho partecipato a occupazioni e picchetti, che oggi con il provvedimento contro i rave party possono essere puniti più severamente di una rapina a mano armata. La prima legge del governo Meloni è inutile e pericolosa!”. Ebbene sì, lo confesso: anch’io conosco la materia. Nella mia lunga attività di sindacalista (22 anni) è capitato, nell’ambito di vertenze difficili che ho gestito, di recarmi con i lavoratori a occupare e manifestare in luoghi produttivi e/o in piazze e strade cittadine. Mi ricordo anche dei turni di presenza fatti ai picchetti dei cancelli della Fiat di Mirafiori. Non me ne vantai allora, come non me ne vanto adesso, dopo tanti anni (anzi decenni). Ma non mi sono mai pentito di quelle azioni di protesta. Quei lavoratori esasperati per molti buoni motivi, avevano occupato, le loro fabbriche. In altre occasioni mi trovai in mezzo all’occupazione di snodi autostradali; o a partecipare a altri picchetti, poi sgombrati dai carabinieri. Ma ho sempre ritenuto preciso dovere come dirigente sindacale, ancorché di indole pacifica e legalitaria, non lasciare soli i lavoratori in una situazione di estrema difficoltà. Purtroppo, queste iniziative, nella durezza del conflitto sociale che caratterizza il nostro Paese, sono state effettuate e ancora lo sono, con una frequenza pressoché quotidiana. E non sono soltanto i lavoratori che promuovono forme estreme di protesta (che finiscono per disagiare e/o far danno ad altre persone che non c’entrano nulla), ma anche cittadini magari in agitazione per motivi discutibili (come quando intere comunità bloccavano le strade di accesso per impedire l’arrivo di migranti destinati al loro territorio). E che dire del blocco dei Tir provenienti dall’estero organizzato, con la partecipazione dell’allora titolare delle Risorse agricole, dalle associazioni di coltivatori? O il latte dei pastori sardi sparso per le strade? O ancora chi non ricorda le proteste leghiste contro l’Europa maligna delle quote latte? Queste forme di lotta costituiscono alcune fattispecie di reati, ma il più delle volte non sono state ne vengono perseguiti in nome di una tolleranza giustificata dal disagio sociale. Orbene, il neo-decreto Piantedosi, si può applicare a tutti questi profili di ‘illegalità’. Non basta scrivere nella relazione illustrativa allegata alla nuova norma: “L’intervento normativo mira a rafforzare il sistema di prevenzione e di contrasto del fenomeno dei grandi raduni musicali, organizzati clandestinamente (c.d. rave party)”. I casi che si sono finora presentati hanno riguardato meeting, organizzati mediante un “passaparola” clandestino, realizzato attraverso il web e soprattutto attraverso i social network, che si sono tenuti in aree di proprietà pubblica o privata invase dai partecipanti. Se leggiamo bene la norma (che deve avere necessariamente un contenuto di carattere generale) ci accorgiamo che il presunto contrasto dei c.d. rave party “selvaggi’’ potrebbe diventare uno specchio per allodole. Ma chi lo ha suggerito a Matteo Piantedosi e al Governo guidato da Giorgia Meloni – osservati speciali di temuto autoritarismo – di varare una norma inutile e pericolosa? Inutile perché la crisi del rave party di Modena Nord si è risolta senza dover applicare un decreto che non era ancora in vigore. Inutile, perché, sul piano dell’immagine, le autorità erano state in grado – a differenza di altre volte – di risolvere un problema, con fermezza e rigore, senza che nessuno si facesse male. Pericolosa, per come è formulata, la norma – che peraltro prevede pene esagerate – perché può essere usata per reprimere forme comuni di protesta sociale. È appena il caso di ricordare che le pene previste sono più pesanti (per quanto riguarda soprattutto la pena minima) di quelle stabilite per reati – tanto per fare qualche esempio – come l’omicidio colposo (da 6 mesi a 5 anni), le lesioni gravissime (da 3 mesi a 2 anni), la truffa aggravata (da 1 a 5 anni), il furto in abitazione e lo scippo (da 1 a 6 anni), la rapina a mano armata (da 4 a 10 anni). Leggiamo, allora, il testo che peraltro tipizza un nuovo specifico reato di cui fornisce la definizione: “L’invasione per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica’’. Potremmo fare un elenco interminabile dei comportamenti e delle iniziative che vengono unificate come unica fattispecie di reato nel decreto Piantedosi. Invadere un’autostrada o una stazione ferroviaria (beni di proprietà pubblica) non costituisce un raduno pericoloso per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica? E che dire dell’occupazione abusiva di un immobile pubblico – come l’ex sede dell’Inpdap in via Gerusalemme a Roma – dove addirittura si recò un alto prelato a riattaccare la corrente elettrica, che era stata chiusa perché non si pagavano le bollette? O dell’invasione del porto di Trieste per protesta contro il green pass? In taluni di questi casi sono state aperte delle indagini e avviati dei processi, è la prova che le regole esistono già. In conclusione: il governo dica chiaramente se intende dare un giro di vite su tutte le ‘illegalità tollerate’, con la previsione di pene severe per gli organizzatori e i partecipanti. Ma il ministro non trovi il pretesto dei rave party (che, sia ben inteso, non penso che debbano essere tollerati); ma guai però a gettare il “bambino (i diritti di libertà di espressione del disagio sociale e delle condizione di indigenza determinate dalle diseguaglianze sempre più ampie se non addirittura dalla crescente povertà per milioni di cittadini) con l’acqua sporca”…

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