Governo: sovranisti da Marte. L’esordio maldestro del governo Meloni apre un campo larghissimo all’opposizione (se solo ci fosse)…

Tra provocazioni no vax e mezze marce indietro sulla norma anti-rave, la nuova destra si rivela assai più fragile del previsto. Ma serve un’alternativa, e serve adesso, non tra cinque o sei mesi (o quanti ne impiegherà il Pd a montare i gazebo)… La nuova norma «anti-rave», la prima decisione con cui il governo voleva dare subito di sé un’immagine di fermezza, si è già trasformata in una maldestra marcia indietro, che ora la maggioranza tenta di nascondere sotto il velo della disponibilità a «miglioramenti» da parte del parlamento. Al riguardo, però, la lingua italiana è chiara: se vado a sbattere con l’auto, non pago qualcuno per apportare dei miglioramenti alla carrozzeria, ma per aggiustarla. Avevano previsto sei anni di carcere, aprendo la strada all’ipotesi inquietante di ragazzini (e relative famiglie) intercettati in massa per il sospetto di raduno premeditato, tra varie altre distopiche assurdità degne di uno sketch di Corrado Guzzanti (titolo: Sovranisti da Marte). Ora fanno a gara nel prenderne le distanze, promettendo di abbassare le pene e togliere di mezzo simili scenari. Non è un miglioramento, è una ritirata. Carlo Nordio, il ministro della Giustizia accreditato da giornali e avversari troppo compiacenti come un fior di garantista, assicura che la norma «non incide, né potrebbe incidere minimamente sui sacrosanti diritti della libera espressione del pensiero e della libera riunione, quale che sia il numero dei partecipanti», ma prontamente aggiunge che «la sua formulazione complessa è sottoposta al vaglio del Parlamento, al quale è devoluta la funzione di approvarla o modificarla secondo le sue intenzioni sovrane». Traduce giustamente il giurista, ed ex parlamentare del Partito democratico, Stefano Ceccanti: «Si sono sbagliati ma per fortuna il parlamento correggerà». La posa inflessibile con cui Giorgia Meloni insiste a dichiararsi «fiera» della nuova norma, nel momento stesso in cui si appresta a smontarla pezzo per pezzo, aggiunge al tutto una nota di colore, ma anche una chiave di lettura politica e psicologica che non vale solo per il caso in questione. Vale anche per l’assurda proposta di portare a diecimila euro il tetto al contante (già precipitato a quota cinquemila). Vale a maggior ragione per la scelta più grave e più ideologica, questa sì, compiuta finora dal governo, e cioè il via libera ai medici no vax. Scelta resa ancora più imbarazzante, anzitutto per l’attuale ministro della Sanità, Orazio Schillaci, dalle parole di Meloni sull’approccio «ideologico» e non sostenuto da «evidenze scientifiche» tenuto sulla pandemia dai governi precedenti e dai relativi tecnici, tra i quali l’attuale ministro, membro del comitato scientifico dell’Istituto superiore di Sanità. Al riguardo, l’audace Schillaci ha così spiegato la sua posizione al Corriere della sera: «Il mio coinvolgimento in questi anni di pandemia è stato solo a livello di ricerca e non nelle scelte che sono state prese dal Comitato tecnico scientifico per la gestione della pandemia». Alla successiva domanda su quali sarebbero state a suo giudizio le decisioni ideologiche, non sostenute da evidenze scientifiche, l’inflessibile ministro ha quindi stentoreamente replicato che se ne occuperà una commissione parlamentare e che «adesso dobbiamo guardare alla sanità del terzo millennio». L’elenco potrebbe continuare e approfondirsi, tanto sul merito dei singoli provvedimenti quanto sul metodo con cui ministri ed esponenti della maggioranza provano a scaricarne la responsabilità, ma non c’è alcun bisogno di infierire. Da questi primi passi – direi dalla scelta dei presidenti delle Camere in poi – è evidente il carattere minoritario, l’atteggiamento fazioso e spesso gratuitamente provocatorio, quasi vendicativo, con cui la maggioranza ha già messo in crisi la sua stessa propaganda. Li aspettava una luna di miele coi fiocchi, con la narrazione di un rinnovamento rassicurante e responsabile, incarnato dalla prima donna presidente del Consiglio, che Meloni aveva sapientemente alimentato in campagna elettorale e all’indomani dei risultati elettorali. E invece eccoci qua. La Premier Meloni già mostra al secondo Cdm stanchezze e amnesie in conferenza stampa. Dalla gaffe sul gas al nervosismo sui rave: “Non siamo più la Repubblica delle banane”. Commenta Emanuele Lauria sulla Repubblica di oggi: “La premier finisce per incespicare in una serie di inesattezze nel punto con i giornalisti dopo il cdm. Sarà la tarda ora, sarà la fatica del viaggio a Bruxelles, o lo stress di questo primo scorcio di governo. Fatto sta che Giorgia Meloni finisce per incespicare in una serie di inesattezze, durante la conferenza stampa al ternine del consiglio dei ministri. All’inizio appare stanca, un po’ contrariata. Elenca i principali interventi decisi dal governo. E l’incubo si materializza al momento di parlare del provvedimento sulle trivellazioni…”. Al sempre più evidente paradosso di una maggioranza incapace di liberarsi da un atteggiamento psicologicamente e culturalmente minoritario che offre all’opposizione un campo larghissimo d’intervento, se solo ci fosse qualcuno in grado di prenderne la guida con intelligenza, e cioè senza rispondere a Meloni con un atteggiamento altrettanto specularmente minoritario e fazioso… Il guaio è che l’opposizione appare irrimediabilmente divisa. C’è la corrente populista guidata da Giuseppe Conte, che non si fa scrupolo alcuno di strumentalizzare un tema come ‘guerra e pace’, pur di strappare al Partito democratico la guida dei movimenti di piazza; c’è la corrente immobilista (non certo) guidata da Enrico Letta (il quale ancora ieri, sul Corriere della sera, dopo aver spiegato che i tempi del congresso dipendono dallo statuto, continuava incredibilmente a parlarne al futuro: «Farò un appello… apriremo una consultazione… avremo una carta dei valori…») ma come non ha già detto che non si ricandida Segretario? L’indeciso, perfetto segretario del partito che non decide. Ma forse questa volta una decisione l’ha presa: nessun addio alla politica né ritorno in Francia nella sua cara Sciences-Po, l’Institut d’Etudes politiques de Paris. Enrico Letta non ha intenzione di replicare la scena del 2014 con Matteo Renzi che gli “toglie” la campanella di Palazzo Chigi e la sua conseguente fuga silenziosa Oltralpe: ma vuole restare saldo nei ruoli di vertice del Partito democratico e medita di sostenere una sua candidatura alla corsa alla segreteria del forse futuro Pd o della sua fase liquidatoria. Il nome sul tavolo è quello del sindaco di Firenze, Dario Nardella, ma la carta a sorpresa si chiama Anna Ascani. Carta che sulla scrivania di Letta ha messo il suo braccio destro Marco Meloni. Peccato però questa sua decisione di non prendere una chiara via per i dem rischia di ingessare ancora di più non solo il partito ma anche l’intera opposizione. Infatti: il gruppo dirigente sconfitto a queste elezioni — e più ampiamente, il gruppo dirigente che ha costruito il Partito democratico e ha fallito nella maggior parte dei suoi obiettivi politici per tutti gli anni Duemila — non ha nessuna intenzione di uscire dal Nazareno e di rinunciare al potere che ha. E le dimissioni di Letta promesse per un tempo che ormai sembra lunghissimo (e non si capisce come non sembri lunghissimo soprattutto a lui, adesso) stanno diventando paradossali. Il distopico congresso virtuale che dura mesi e di cui nessun essere umano può essere a conoscenza, non si sa cos’è, dov’è e in cosa consiste. Un congresso che si terrà tra cinque o sei mesi e che lo stesso Letta sta rendendo un rompicapo con cavilli burocratici e passaggi vari. Cinque o sei mesi in questi tempi veloci sono un’era geologica che potrebbe far davvero chiudere via del Nazareno o ridurla a un condominio per pochi intimi, mentre l’elettorato va di corsa verso le altre ali dell’opposizione, Movimento 5 stelle e Terzo Polo (Calenda più che Renzi). C’è infine un con-corrente anche troppo mobile come Matteo Renzi, coadiuvato da Calenda che si crede lui il capo di un Terzo polo – sempre più ‘oggetto misterioso’, di un sempre più striminzito centrismo, che si contende le spoglie con la destra Meloniana e Salviniana di ciò che resta di Forza Italia e del Berlusconismo; mentre nel frattempo Renzi non si fa scrupolo di fare da presentatore alle iniziative internazionali di Bin Salman. Ma è evidente che tra i sauditi di Renzi e la saudade di Letta sarà difficile costruire un’alternativa al governo Meloni minimamente credibile. Eppure, di questa alternativa c’è bisogno, e subito, non tra cinque o sei mesi o quando mai il Partito democratico avrà finito di montare i gazebo congressuali. In questo momento, un’opposizione di fatto egemonizzata dal populismo grillino è il più bel regalo di Natale che la destra possa augurarsi, e anche il più immeritato… tutto ciò accade mentre crescono i commenti dei giornali anche quelli esteri sull’avvento di Giorgia Meloni alla Premiership italiana. A guardar bene, sono tutti simpatetici, a dimostrazione del fatto che pochi hanno la lucidità di capire la storia mentre avviene… forse perché anche la maggioranza degli osservatori per definizione “indipendenti” è confusa e offuscata (come d’altronde tutti quanti) dai propri interessi particolari…

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