Il lavoro che manca non è un destino*

Seppur un po’ datato, un interessante articolo sul Job Acts, di un sindacalista degli anni 80 che ci parla del: “…problema della disoccupazione, della mancanza di lavoro, è diventato il più acuto e drammatico dal punto di vista politico e sociale. Ciò che preoccupa è che per ora non si intravede alcuna concreta soluzione. Nell’antichità il lavoro era riservato agli schiavi. Riservando ai cittadini liberi la possibilità di privilegiare l’azione. Cioè la capacità di intraprendere in comune avventure degne di restare nella memoria degli uomini. In Europa fino all’arrivo dei tempi moderni (sulla scia della Riforma) la convinzione prevalente era che il lavoro comportasse una condizione avvilente e perciò che non si potesse essere pienamente uomo libero se, in una certa misura, non si fosse in grado di potervisi sottrarre. Quindi è solo la modernità che fa del “lavoro utile” il caposaldo di tutte le virtù. Sicché nella società moderna essere senza lavoro o rischiare di perderlo determina non solo una condizione economica penosa, ma anche una esclusione, una perdita di identità personale, familiare, sociale. Nel nostro tempo essere disoccupati, essere senza lavoro, non significa necessariamente non fare nulla, morire di fame. Anche se l’aumento della disoccupazione comporta un parallelo aumento della povertà relativa. In ogni caso determina sempre una esclusione. Un affievolimento della appartenenza alla comunità. Un indebolimento dei diritti di cittadinanza. Così che mentre ancora nel medioevo il lavoro era considerato una condizione avvilente, oggi lo è diventata la mancanza di lavoro. Questo spiega perché la disoccupazione, cui ora si somma anche una crescente insicurezza per il lavoro, sono diventati i problemi cruciali del nostro tempo. Per altro, essi sono stati acutizzati dalle profonde trasformazioni del contesto sociale e produttivo che si sono accumulate negli ultimi decenni. L’intreccio tra cambiamenti nelle dinamiche della popolazione e modificazione del lavoro è il processo che, probabilmente più di ogni altro, esprime le novità degli ultimi 20 – 25 anni. Novità che investono il presente e si proiettano nel futuro. I cambiamenti demografici che si sono registrati e la loro tendenza a proiettarsi in avvenire sono indicativi di novità profonde. Il prolungamento della durata della vita, il rallentamento delle nascite, la trasformazione dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione, la diversa struttura della famiglia, la ripresa delle migrazioni interne dal Sud al Centro-Nord sono tutti fatti che – cumulandosi con altri eventi come la terziarizzazione del sistema produttivo, le innovazioni tecniche ed organizzative, la diffusione di un relativo benessere sconosciuto alle generazioni precedenti – spiegano molti dei cambiamenti che hanno investito il lavoro rendendolo un problema grave. Difficilmente risolvibile con i balbettii della politica e l’anoressia delle capacità di investimento pubbliche e private. In effetti, dopo la grande crisi del 1929, che ha prodotto il crollo dell’occupazione ed una dilagante miseria, la politica, non senza contrasti, è riuscita a trovare il bandolo della matassa. Facendo proprie le teorie keynesiane si è convinta che la soluzione andava ricercata nella caduta dei consumi e degli investimenti, che perciò dovevano essere rianimati con interventi pubblici in grado di produrre una crescita del lavoro e dei redditi. A partire dagli Stati Uniti, ha fatto quindi scelte conseguenti. Purtroppo dopo la crisi del 2008 la politica, in Europa e soprattutto in Italia, è rimasta paralizzata, incapace di reagire. Perché prigioniera dei cascami delle idee liberiste: privatizzazioni, tagli alla spesa, al deficit, al debito. In buona sostanza politiche restrittive e di austerità, mentre al contrario si sarebbero dovute attivare misure tendenzialmente espansive. Per quel che ci riguarda il risultato è stato che tra tutti i paesi europei della zona euro, esclusa la Grecia, l’Italia è quella che è andata peggio, per la più stentata crescita del reddito con l’effetto di moltiplicare la perdita di posti di lavoro. Illudendosi di riuscire ad invertire il corso delle cose, il governo ha ritenuto che bastasse limitarsi ad un bricolage di politiche del lavoro. Le quali però, come non era difficile prevedere, non sono riuscite a spostare di una virgola i termini del problema. L’aspetto curioso è che, malgrado l’assenza di risultati, questo percorso pare destinato a continuare. Infatti, dall’approvazione definitiva della legge a dicembre del 2014 si è arrivati fino a settembre 2015 per il varo dei decreti attuativi, che a loro volta richiedono ora passaggi successivi perché il disegno iniziale sia portato a compimento. Istituito il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e divenute definitive le norme assai contestate sul demansionamento e sul controllo a distanza sui lavoratori, è ancora un cantiere aperto la riforma del sistema delle politiche attive che dovrà istituire l’Agenzia nazionale e prevedere il contratto di ricollocazione per i disoccupati. Da completare anche il riordino degli ammortizzatori sociali in costanza di lavoro (la cassa integrazione) che vede ancora in piedi il sistema degli interventi “in deroga”, fondato sulla discrezionalità anziché sulla trasparenza dei requisiti, mentre per l’istituzione di un sistema compiuto di diritti e doveri (uno Statuto) per il lavoro autonomo si procede di rinvio in rinvio da una legge di stabilità all’altra. Per quanto breve possa essere il tempo necessario al completamento di questo disegno, di una cosa si può essere certi: il lavoro non è destinato ad aumentare. Poiché i risultati rimangono irrimediabilmente deludenti e le prospettive alquanto sconfortanti, nella maggioranza parlamentare si è fatta strada la convinzione che se non si rendono permanenti gli sgravi sul lavoro in scadenza a fine anno si rischia un brusco ritorno indietro. Accantonata (almeno per ora) l’idea di tagliare (di sei punti) il cuneo contributivo, che avrebbe comportato inesorabilmente, visto che il taglio non sarebbe stato coperto con risorse pubbliche, avere pensioni più magre domani, si è deciso per un “atterraggio morbido”, un decalage progressivo dei benefici tra il 2016 e il 2017. Ma non essendo scongiurato in questo modo il rischio di un peggioramento della situazione non è detto che il progetto non torni d’attualità, magari con qualche ulteriore correttivo quale potrebbe essere l’opzione, per il lavoratore, di investire i suoi tre punti in meno nei Fondi pensione integrativi. O di incamerarli in busta paga. Però tassati. Mentre il taglio degli altri tre punti (quelli a carico delle imprese) si tradurrebbero in una diminuzione dei costi ed in una decurtazione secca dell’assegno pensionistico futuro. Senza se e senza ma. Assegno previdenziale calcolato tra l’altro per intero con il metodo contributivo. E perciò tenuto conto dei percorsi lavorativi dominanti, già di per sé ridotto all’osso.  Insomma, tradotta in soldoni, soprattutto per i giovani la prospettiva rischia di diventare questa: senza lavoro oggi e sostanzialmente senza pensione domani. Inutile sottolineare che con tali espedienti, con queste scappatoie, la questione della mancanza di lavoro è destinata a rimanere irrisolta per diversi anni a venire. La conclusione è che, mentre in passato erano le guerre che minacciavano la sopravvivenza e comunque il futuro per una intera generazione, oggi è la disoccupazione e la sempre più incerta tutela della vecchiaia. Questo però non è un destino ineluttabile. Ci sono infatti delle cose che possono e dovrebbero essere fatte. Il dato da cui partire è che siamo in una situazione (che per il Fondo Monetario andrà avanti per i prossimi 15 – 20 anni) nella quale non c’è abbastanza lavoro per tutti coloro che chiedono di poter lavorare. La prima cosa da fare quindi è cercare di migliorare la crescita, allo stato del tutto insufficiente. La questione non è certo semplice, considerati i vincoli economici interni ed esterni. Tuttavia, in proposito, si sconta anche un serio deficit di elaborazione culturale e politica, in grado di analizzare concretamente i termini dei problemi e cercare di elaborare delle risposte pratiche che siano in grado di fare fronte alla sfida che abbiamo davanti. Al riguardo Cgil, Cisl ed Uil potrebbero dare un contributo mettendo unitariamente al lavoro un gruppo di giovani e capaci economisti per formulare indicazioni su come, nella situazione data, si può accrescere la domanda di consumi interni e di investimenti. Che, malgrado l’attivismo (soprattutto verbale) del governo continuano a languire. Il secondo aspetto sul quale intervenire, tenuto conto che il lavoro manca e non ci sono alle porte prospettive realistiche di piena occupazione, è una diversa ripartizione del lavoro disponibile. I modi per realizzare un simile obiettivo sono molteplici. Si va dalla riduzione degli orari in funzione di una diversa organizzazione del lavoro. Alla istituzione del part-time volontario e reversibile. Che, accompagnato da misure appropriate di sostegno, può coinvolgere un numero non piccolo di lavoratori. Inoltre, modificando la legge Fornero, andrebbe introdotto il pensionamento flessibile. Oltre a ciò si dovrebbe finalmente varare il “congedo parentale” ad ore. Introdotto nel 2012 in attuazione di una direttiva del 2010 rimasta però lettera morta. Reintrodotto nel 2015, ed in teoria in vigore dal 25 giugno, a tutt’oggi è ancora inapplicabile perché (cosa da non credere!) manca una circolare Inps, che fin’ora non si è riusciti a vedere. C’è infine il fenomeno dei cosiddetti “disoccupati scoraggiati”. Sulla base dei dati disponibili oltre il 10 per cento degli italiani tra i 15 ed i 24 anni dichiara di non studiare, di non lavorare, né di essere alla ricerca di un lavoro. Due terzi di questi giovani vivono al Sud. Non è escluso che molti facciano lavori irregolari, ma quando vengono intervistati dall’Istat dichiarano di non lavorare e di non cercare lavoro. Se è vero che parecchi di questi giovani in qualche modo sbarcano il lunario essi sono pagati poco e soprattutto vivono in una condizione di persistente illegalità, più esposti di altri ad incidenti, alla perdita di lavoro ed alla collusione con organizzazioni criminali. Questi dati vanno letti assieme ad altri per disegnare la triste condizione dei giovani del Sud d’Italia. La disoccupazione giovanile al Sud supera il 50 per cento. Un livello tra i più alti dell’Europa Occidentale. Assieme agli altri aspetti relativi alla situazione economica e sociale c’è il fatto che la scuola del Mezzogiorno prepara poco e male. Cosa rilevabile da tutti i test nazionali ed internazionali che si occupano della qualità dell’istruzione scolastica. Sicché, per “cambiare verso” alla condizione del Mezzogiorno, assieme ad indispensabili interventi pubblici (a incominciare dai trasporti e dalle comunicazioni) per collegare il Sud al resto dell’Italia e del mondo, è essenziale investire maggiori risorse nell’università, nella ricerca ed in generale nella scuola. Si è chiacchierato e si chiacchiera tanto di “buona scuola”. Nel Mezzogiorno questo deve significare scuola a tempo pieno. Cioè sia al mattino che al pomeriggio. Con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’istruzione, soprattutto di offrire ai giovani una alternativa alla situazione attuale che li vede spesso bighellonare nell’impossibilità di darsi alcuna meta positiva. Insomma, per fare del lavoro una priorità ci sono diversi interventi che dovrebbero essere attivati. A scanso di illusioni è bene dire subito che non ci si deve attendere immediati risultati miracolistici. Infatti, per correggere il corso delle cose e fare uscire l’Italia dall’immobilismo serve un impegno di lunga lena, che deve coinvolgere istituzioni politiche e sociali. A questo riguardo il sindacato ha ancora un ruolo decisivo da poter giocare. Inutile dire che per farlo deve mettere in discussione sé stesso anche per scongiurare il rischio di inevitabile burocratizzazione, le politiche che intende perseguire, i rapporti tra le organizzazioni che in mancanza di una strategia comune sono causa non secondaria della sua impotenza e paralisi. Questa è la strada obbligata per ricostituire la fiducia tra lavoratori ed arrestare un declino, altrimenti irreversibile. In sostanza, per mettersi finalmente in condizione di essere all’altezza del proprio compito”.

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(*) Scritto da Pierre Carniti (ex Segretario Generale CISL dal 1979 al 1985) – L’articolo è già stato pubblicato sul sito Eguaglianza & Libertà

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