Industry 4.0: il lavoro che c’è, quello che cambia e quello che non c’è più…

Se il lavoro per tutti non c’è, domani che faremo?
Vedendo e leggendo di ciò che è accaduto nel mondo del lavoro negl’ultimi vent’anni, ma soprattutto leggendo e guardando a ciò che sta accadendo e alle prospettive di lavoro del prossimo futuro, sembra giunto il tempo di una riflessione a tutto campo.
Praticamente tutti i giorni Quotidiani e Media stampano e/o commentano i dati sull’andamento occupazionale italiano, europeo e mondiale. Spesso queste statistiche sull’occupazione risultano di difficile comprensione sia nella loro articolazione, che conseguentemente nei risultati finali e ancor più nelle indicazioni prospettiche. E poi, sulla disoccupazione in Italia, ci sono le varie dispute politiche legate alle sorti della compagine governativa in carica e di quella futura che verrà da questa, si fa per dire: “nuova” stagione elettorale appena iniziata e che…
Vorrei partire da una considerazione – non mia – ma che condivido: “Non c’è più bisogno di una professione per tutti gli uomini, questo è il problema. A quel punto cosa succederà?” Per Silvano Petrosino (studioso di filosofia contemporanea, insegna all’Università Cattolica di Milano): «…se non distinguiamo il lavoro dalla professione, separando il compimento umano dalla professione svolta (si può essere un grande uomo svolgendo una professione del tutto umile) rischiamo di condannare al fallimento migliaia di giovani. E ovviamente non possiamo permettercelo». Anche altre considerazioni come: «Oggi il lavoro è a rischio. È un mondo dove il lavoro non si considera con la dignità che ha e che dà». E ancora «…dev’essere chiaro che l’obiettivo da raggiungere non è il reddito per tutti ma il lavoro per tutti. Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». Così parla Papa Francesco (nel suo sferzante discorso dall’Ilva di Genova) sono alquanto stimolanti e devono indurci a riflettere sul futuro del lavoro a 360 gradi. Cosa significa?  Bisogna capire che siamo solo agli inizi di un ulteriore cambiamento del mondo lavorativo, rispetto al quale nessuno può pretendere di avere un sapere chiaro e completo. In cento anni – perché i primi risultati della scienza sulla vita sociale non sono del Seicento ma della metà dell’Ottocento – sono accadute cose mai viste, ed è come se la scienza avesse preso il sopravvento rispetto all’umano stesso. La scienza – una vera meraviglia – rischia ora di procedere indipendentemente dall’uomo. Prendere coscienza di non sapere è fondamentale e la principale conseguenza di tale consapevolezza è che bisogna aiutarsi e collaborare insieme: di fronte a sfide così radicali dobbiamo avere la serietà e l’umiltà di ascoltare tutti e di decidere insieme. Proviamo a pensare insieme rispetto al lavoro che c’è, quello che cambia e quello che non c’è più. Il problema vero sembra quello che non c’è più bisogno di lavoro. A guidare le danze è il progresso tecnologico, senza il quale si perde la gara intransigente della competitività. Sicché lo stesso Governo che con una mano incentiva l’occupazione offrendo forti aiuti alle imprese che assumono, con l’altra mano è costretta a incoraggiare l’industria 4.0, affinché impieghi quanti più robot “labour saving”. La finanziaria 2017 garantisce iper e super ammortamenti alle imprese che acquistano macchinari “connessi”, cioè capaci di dialogare per via digitale a monte e a valle del processo produttivo. Appena si è sparsa la notizia, la vendita di robot ha avuto un rapido boom quantificato da Ucima (Associazione nazionale di categoria che rappresenta e assiste i costruttori italiani di macchine per il confezionamento): +6,5 quelli acquistati in Italia e +12,8 quelli acquistati all’estero. Ognuno dei robot acquistati richiede  minimi interventi di programma e di manutenzione, lavora ed è motivato 24 ore su 24, non fa pause per il caffè, per la mensa e per andare in bagno, non va in ferie né in maternità, non si lamenta e non sciopera. Alcuni dati significativi. Nel 1891 gli italiani, che erano meno di 40 milioni, lavorarono per un complesso di 70 miliardi di ore. Cento anni dopo, nel 1991, ormai diventati 57 milioni, lavorarono 60 miliardi di ore ma produssero 13 volte di più. Lo scorso anno, diventati 61 milioni, hanno lavorato 44 miliardi di ore e hanno prodotto 20 volte di più. Questa è la produttività: più beni e più servizi con meno lavoro umano, grazie al progresso tecnologico e alla globalizzazione. Si da il caso che questi trend continueranno e, anzi, accelereranno nei prossimi anni: la popolazione crescerà, crescerà la produzione ma il lavoro diminuirà. “Jobless growth” sviluppo senza lavoro, lo chiamano gli anglofoni.  I nostri vicini di casa – Francia e Germania – hanno affrontato il problema con il sano realismo necessario ogni qualvolta un dividendo diminuisce e un divisore aumenta. Secondo i dati Ocse, un francese lavora mediamente 1.482 ore l’anno; un tedesco ne lavora 1.371.  Un italiano, invece, ne lavora 1.725, cioè 243 ore più del collega francese e 354 ore in più del collega tedesco. Questo contribuisce a spiegare perché la disoccupazione in Germania è al 4%, in Francia è al 9% e in Italia è al 12%. Quindi se i 23 milioni di occupati italiani lavorassero con lo stesso orario dei francesi, potremmo occupare 4,4 milioni in più; se lavorassero con lo stesso orario dei tedeschi, potremmo occupare 6,6 milioni in più. In altri termini, potremmo dare finalmente un lavoro ai tre milioni di italiani disoccupati e potremmo offrirlo anche a milioni di immigrati giovani, compensando così l’invecchiamento della nostra popolazione. Resta da chiarire un altro apparente paradosso: come mai, lavorando di meno, i tedeschi producono annualmente un Pil pro-capite di 48.000 dollari e i francesi ne producono uno di 43.000 dollari mentre gli italiani non superano i 36.000 dollari?  Comunque: “Già nei primi anni del Novecento, Henry Ford capì che la sua impresa industriale poteva incrementare la produttività riducendo l’orario di lavoro. Introdusse perciò le 8 ore cui noi, dopo cento anni, siamo tuttora inchiodati.  A quanto pare, l’intuizione di Ford vale anche oggi per il lavoro postindustriale: oltre un certo limite fisiologico, più si lavora e meno si produce. Purché vita e lavoro siano bene organizzati come in Germania”. (tratto dall’agenzia InPiù). Filosoficamente e cristianamente parlando:  “…il lavoro è ciò attraverso il quale l’uomo lascia una traccia nel creato”. Ma se parliamo di lavoro professionale i termini della questione cambiano. In tanti ripetono che i nostri giovani (la disoccupazione giovanile italiana è sempre attorno al 35%) non sono pronti per determinate professioni e quindi non trovano lavoro. Ma,  il problema sembra ormai essere che non c’è più bisogno di un lavoro professionale, almeno non per tutti i lavori. Il LAVORO ha perso il suo valore simbolico rispetto alla evoluzione umana e alla dignità delle persone.  La tecnologia e la digitalizzazione rendono molte professioni veramente inutili. Faccio un esempio biografico: io sono alquanto negato con il computer, ma il 95% dei miei viaggi, case per le vacanze, aerei, li prenoto da solo con il computer. E, ormai negli USA usano software per la scrittura delle notizie di cronaca, il computer sbaglia meno del giornalista e per certi aspetti è anche più “onesto” (neutro) nello scrivere la notizia. Quindi che fare? Io non riesco a pensare a una soluzione diversa “dal lavorare meno per lavorare tutti” (vedasi i dati di Francia e Germania più sopra). Ma da un lato l’ulteriore problema è che se si lavora di meno bisogna essere disposti ad una remunerazione commisurata a questo meno… e dall’altro lato che forse l’uomo non vuole affatto avere  più tempo libero… meglio “arrivare a sera stravolti e non avere tempo per pensare??!!” Queste le necessarie premesse con uno sguardo sempre più preoccupato al futuro del lavoro alle nostre latitudini…

Per comprendere meglio cosa significa quello fin qui scritto ho lavorato sui dati estratti a giugno 2017 da Statistics Explained di Eurostat, pubblicati a settembre 2017 sono i dati più recenti. (Le ulteriori elaborazioni e relative informazioni di Eurostat, col relativo aggiornamento delle tavole e delle schede principali è previsto per settembre 2018).  Quindi questo post, illustra le statistiche più recenti sull’occupazione nell’Unione Europea (UE), e vuole offrire alcuni spunti d’analisi riguardanti anche alcuni aspetti socioeconomici, riferiti alla situazione occupazionale europea e italiana così com’è caratterizzata al momento. Le statistiche dell’occupazione come vedrete evidenziano marcate differenze secondo il sesso, l’età e il livello di istruzione conseguito. Notevoli sono anche le disparità riscontrate tra i mercati del lavoro dei vari Stati membri dell’UE. A seguito dell’introduzione nel 1997 di un capitolo sull’occupazione nel trattato di Amsterdam, le statistiche del mercato del lavoro servono da base per numerose politiche dell’UE. Il tasso di occupazione, ossia la quota degli occupati sulla popolazione in età lavorativa, è considerato un indicatore sociale fondamentale a fini di analisi nello studio delle dinamiche del mercato del lavoro. Conseguentemente ci aiutano a guardare in prospettiva al futuro del lavoro partendo da una realtà di fatto e dai problemi che già si evidenziano oggi destinati a condizionare quindi per l’appunto l’evoluzione del futuro lavorativo a livello Continentale che nazionale.

Cartogramma 1 – Tasso di occupazione della popolazione in età 20-64 anni, 2016 (%)


Fonte: Eurostat (lfsi_emp_a)

I principali risultati statistici ci indicano i tassi di occupazione secondo il sesso, l’età e il livello di istruzione.
Nel 2016 il tasso di occupazione della popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni nell’UE-28, quale risulta dall’indagine sulle forze di lavoro dell’UE, era del 71,1 %, la media annua più alta mai registrata per l’UE, che non rende però conto delle forti disparità tra i paesi (cfr. cartogramma 1). L’unico Stato membro con un tasso superiore all’80 % è la Svezia (81,2 %). Lo stesso dicasi per due paesi dell’EFTA: l’Islanda (87,8 %) e la Svizzera (83,3 %). Il gruppo di paesi con tassi tra il 70 e il 79% comprende il Regno Unito, la Francia e la Germania e copre una zona che si estende dall’Irlanda ad ovest fino all’Ungheria ad est, inclusi anche i tre Stati baltici, la Finlandia e il Portogallo. I paesi con tassi compresi tra il 60 e il 69% possono essere suddivisi in due blocchi: un blocco occidentale-mediterraneo/adriatico (Spagna, Italia e Croazia) e un blocco al confine orientale dell’UE, che si estende dall’estremità meridionale del Mar Baltico fino all’estremità sud-occidentale del Mar Nero (Polonia, Slovacchia, Romania e Bulgaria). Questo gruppo di paesi include anche il Belgio. Vi è infine il gruppo dei Balcani meridionali/Caucaso con tassi inferiori al 60 % (ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Grecia e Turchia). Il grafico 1 mostra l’evoluzione del tasso di occupazione per gli uomini e per le donne dal 1993. Uno dei dati più evidenti è la diminuzione del divario di genere nel tasso di occupazione. Nella maggior parte dei casi ciò è dovuto alla crescita dei tassi di occupazione per le donne (ad esempio in Spagna e nei Paesi Bassi), ma in altri casi il minore divario è principalmente dovuto a tassi di occupazione più bassi per gli uomini (Grecia e Cipro). Inoltre in un gruppo di paesi l’evoluzione dei tassi di occupazione per gli uomini e le donne è speculare, il che crea un divario di genere stabile nei tassi di occupazione. Questa situazione si osserva ad esempio nella Repubblica ceca (un divario di 19,1 punti percentuali nel 1998 e di 16 punti percentuali nel 2016) e in Svezia (2,9 punti percentuali nel 1996 e 3,8 punti percentuali nel 2016). I tassi di occupazione sono più bassi tra le donne che tra gli uomini in tutti gli anni e in tutti i paesi, con due eccezioni: in Lettonia e in Lituania nel 2010, in seguito a un forte calo dei tassi tra gli uomini e a un calo molto più modesto tra le donne.

Grafico 1 – Tasso di occupazione della popolazione in età 20-64 anni, per sesso, 1993-2016 (%)

Fonte: Eurostat (lfsi_emp_a)

Il grafico 1 mostra anche che i paesi presentavano situazioni di mercato del lavoro molto diverse nel periodo per il quale Eurostat dispone di dati. Il gruppo più nutrito di paesi ha registrato una crescita lieve e stabile del tasso di occupazione (Belgio, Germania, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria, Finlandia, Svezia, Regno Unito e Turchia). Altri hanno mantenuto un andamento piuttosto piatto, vale a dire un tasso stabile (Danimarca, Italia, Portogallo, Slovenia, Slovacchia, Norvegia e Svizzera). Un altro gruppo di dimensioni rilevanti ha registrato significativi alti e bassi, ma con un tasso più alto nel 2016 rispetto ai rispettivi punti di partenza (Bulgaria, Estonia, Irlanda, Spagna, Lettonia, Lituania e Polonia).

Grafico 2 – Tasso di occupazione per classe di età, 1993-2016 (%)

Fonte: Eurostat (lfsi_emp_a)

Il grafico 2 illustra chiaramente che, per l’UE-28, il tasso di occupazione tra le persone di età compresa tra i 25 e i 54 anni è rimasto praticamente identico dal 2001, mentre è cresciuto sensibilmente per la fascia di lavoratori più anziani (55-64 anni) ed è diminuito per i più giovani (15-24 anni). I tassi di occupazione variano inoltre notevolmente secondo il livello di istruzione conseguito (cfr. grafico 3).

Grafico 3 – Tasso di occupazione della popolazione in età 25-64 anni, per livello di istruzione conseguito, 1993-2016 (%) 

Fonte: Eurostat (lfsa_ergaed)

I tassi analizzati per livello di istruzione conseguito riguardano la classe di età 25-64 anni, poiché è probabile che i più giovani stiano ancora studiando, in particolare nel ciclo terziario d’istruzione, e ciò potrebbe riflettersi sui tassi di occupazione. Il tasso di occupazione dei possessori di un diploma di istruzione terziaria [istruzione universitaria di ciclo breve, laurea di primo livello, laurea magistrale o dottorato (o diplomi equivalenti)], in età 25-64 anni, nell’insieme dell’UE-28, era nel 2016 pari all’84,8 %, di molto superiore al tasso di occupazione (54,3 %) della popolazione che ha conseguito al più un livello di istruzione primaria o secondaria inferiore. Il tasso di occupazione nell’UE-28 della popolazione con al massimo un livello di istruzione secondaria superiore o post-secondaria non terziaria era del 74,8 %. Oltre ad avere già minori probabilità di trovare lavoro (tra questi gruppi di livelli d’istruzione), i possessori al massimo di un titolo d’istruzione secondaria inferiore sono anche stati più duramente colpiti dalla crisi: il tasso di occupazione in questo gruppo è sceso di 5,1 punti percentuali tra il 2007 e il 2013, mentre il numero corrispondente per chi aveva un livello d’istruzione medio era di 1,7 punti percentuali e per chi aveva un livello d’istruzione alto era di 1,8 punti percentuali. Il grafico 3 dimostra che avere quanto meno un livello d’istruzione medio è di cruciale importanza per riuscire a trovare un lavoro in Belgio, Bulgaria, Repubblica ceca, Lituania, Polonia e Slovacchia, mentre è meno rilevante in Danimarca, Estonia, Grecia, Cipro e Lussemburgo.

Lavoro a tempo parziale. La quota dei lavoratori tra i 20 e i 64 anni nell’UE-28 la cui attività lavorativa principale è a tempo parziale è salita in maniera lenta ma costante per passare dal 14,9 % nel 2002 al 19,0 % nel 2015, e poi scendere lievemente al 18,9 % nel 2016. La percentuale di gran lunga più elevata di lavoratori a tempo parziale nel 2016 si è rilevata nei Paesi Bassi (46,6 %), seguiti da Austria, Germania, Belgio, Regno Unito, Svezia, Danimarca e Irlanda, dove i lavoratori a tempo parziale rappresentano in ciascun paese oltre un quinto degli occupati. Per contro, il lavoro a tempo parziale è relativamente poco frequente in Bulgaria (1,9 % degli occupati) nonché in Ungheria, Croazia, Repubblica ceca e Slovacchia (tra il 4,8 % e il 5,7 %) (cfr. grafico 4).

Grafico 4 – Lavoro a tempo parziale come percentuale del totale degli occupati in età 20-64 anni, per sesso, 1993-2016 (%) 

Fonte: Eurostat (lfsa_eppga)

L’incidenza del lavoro part-time (per la definizione cfr. la sezione Fonti e disponibilità dei dati) varia notevolmente tra uomini e donne. Nel 2016 nell’UE-28 poco meno di un terzo (31,4 %) delle donne occupate di età compresa tra i 20 e i 64 anni lavorava a tempo parziale, una quota molto superiore a quella registrata per gli uomini (8,2 %). Nel 2016 poco meno dei tre quarti (74,8 %) delle donne occupate nei Paesi Bassi lavorava a tempo parziale, facendo registrare il tasso di gran lunga più elevato tra tutti gli Stati membri dell’UE. Il lavoro part-time è nettamente cresciuto tra il 1993 e il 2016 in Germania, Irlanda, Italia ed Austria, mentre è calato sensibilmente in Islanda.

Il grafico 5 evidenzia che la quota di persone che svolgono più di un’attività lavorativa è esigua; inoltre chi ha un livello d’istruzione più alto ha più probabilità di avere un secondo lavoro rispetto a chi ha un livello d’istruzione medio o basso.

Grafico 5 – Occupati con una seconda posizione lavorativa in età 15-74, per livello di istruzione conseguito, 1993-2016  (% del totale degli occupati)

Fonte: Eurostat (lfsa_e2ged) e (lfsa_egaed)

Per l’UE-28 questa situazione si è mantenuta molto stabile in tutti gli anni per i quali sono disponibili dati (2002-2016), attestandosi sul 5 % circa per i lavoratori con il livello d’istruzione più alto e sul 3 % circa per gli altri due livelli d’istruzione. La quota più alta registrata tra gli Stati membri è del 16,3 % (persone con un livello d’istruzione elevato in Polonia nel 2000) e la più bassa dello 0,3 % (livello d’istruzione medio, Bulgaria, 2010-2016). Altri paesi in cui è piuttosto comune svolgere una seconda attività lavorativa sono Danimarca, Estonia, Lettonia, Paesi Bassi, Portogallo, Svezia, Islanda e Norvegia. Categorie professionali. Nel 2016 la categoria professionale nettamente più rappresentata nell’UE-28 è quella dei servizi alla persona e degli addetti alle vendite, con una quota del 9,5 % della forza lavoro, corrispondente a 21,4 milioni di lavoratori (cfr. grafico 6).

Grafico 6 – Occupati in età 15-74 anni, per occupazione, nell’UE-28, 2016  (% del totale degli occupati)

Fonte: Eurostat (lfsa_esegp)

Tali occupazioni superano le otto categorie professionali minori considerate complessivamente, che includono tra l’altro tutti i lavoratori subordinati del settore agricolo, i lavoratori nel settore della trasformazione alimentare e i membri delle forze armate. Alla categoria servizi e vendite seguono gli impiegati amministrativi e successivamente le professioni intermedie nelle attività finanziarie e amministrative.

Nel 2016 la quota di lavoratori dipendenti in età 15-74 anni, nell’UE-28, con un contratto di lavoro a tempo determinato (contratto a termine) era del 14,2 %. Più di un lavoratore su cinque in Polonia (27,5 %), Spagna (26,3 %), Croazia, Portogallo (entrambi al 22,3 %) e Paesi Bassi (20,8 %) aveva un contratto a tempo determinato (cfr. grafico 7).

Grafico 7 – Quota dei lavoratori dipendenti con contratti di lavoro a tempo determinato in età 15-74 anni, per categoria professionale, 2016  (% della categoria professionale)

Fonte: Eurostat (lfsa_esegt)

Nei restanti Stati membri dell’UE-28 la quota di lavoratori con un contratto a termine variava dal 71,0 % in Slovenia all’1,4 % in Romania. Oltre alle differenze tra i paesi si riscontrano disparità tra le categorie professionali. Nella maggior parte dei paesi i dirigenti rappresentano la categoria con minori probabilità di avere contratti a tempo determinato, mentre la categoria in cui questa tipologia di contratto è più probabile è quella dei dipendenti di grado inferiore. I livelli tuttavia variano sensibilmente: in Polonia questa situazione riguarda il 44,1 % dei dipendenti di grado inferiore, mentre in Romania la quota corrispondente è solo del 3,2 %. Il notevole divario tra gli Stati membri dell’UE nella propensione a ricorrere a contratti di lavoro a tempo determinato può essere riconducibile, almeno in una certa misura, all’esistenza di prassi nazionali differenti, al rapporto tra domanda e offerta di lavoro, alle valutazioni dei datori di lavoro sulle potenzialità di crescita o su un’eventuale contrazione delle attività e alla facilità con cui un datore di lavoro può assumere e licenziare.

Le fonti e la disponibilità dei dati, vedendo la copertura offerta dagli stessi: La popolazione economicamente attiva (forze di lavoro) comprende gli occupati e i disoccupati. L’indagine sulle forze di lavoro definisce occupati le persone di 15 anni e più che, nella settimana di riferimento, hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura o nell’interesse della famiglia. Le forze di lavoro comprendono inoltre le persone assenti dal lavoro (ad esempio per malattia, ferie, controversia aziendale, istruzione o formazione) ma che mantengono il posto di lavoro o l’attività durante il periodo di assenza temporaneo. L’occupazione può essere misurata in termini di numero di persone o di posizioni lavorative, di equivalenti a tempo pieno o di ore lavorate. Tutte le stime presentate in queste schede si riferiscono al numero di persone; anche le informazioni per i tassi di occupazione sono basate su stime del numero di persone. Le statistiche dell’occupazione sono frequentemente espresse come tassi di occupazione per tenere conto della differente consistenza della popolazione dei paesi nel tempo e per facilitare i confronti tra Stati di dimensioni differenti. Questi tassi sono generalmente pubblicati per la popolazione in età lavorativa, costituita normalmente dalle persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni, sebbene in Spagna, Regno Unito e Islanda la fascia di età vada dai 16 ai 64 anni. La fascia di età compresa tra i 15 e i 64 anni è utilizzata anche da altre organizzazioni statistiche internazionali (anche se alcuni decisori politici danno sempre più importanza alla classe di età 20-64 anni, dal momento che una quota crescente di cittadini dell’UE prosegue gli studi nell’istruzione terziaria).

Concetti principali: Tra le principali caratteristiche dell’occupazione definite dall’indagine sulle forze di lavoro dell’UE figurano le seguenti: i lavoratori dipendenti sono le persone che lavorano alle dipendenze di un datore di lavoro pubblico o privato e che percepiscono un corrispettivo sotto forma di stipendio, salario, pagamento a cottimo o in natura; sono inclusi anche i membri delle forze armate non di leva; i lavoratori indipendenti sono coloro che lavorano nella propria impresa o azienda agricola o esercitano un’attività professionale; si considera che un lavoratore indipendente lavori durante la settimana di riferimento se soddisfa uno o più dei seguenti criteri: svolge un’attività a fini di lucro, dedica tempo alla gestione di un’impresa o sta attualmente avviando un’impresa; la distinzione tra tempo pieno e tempo parziale è generalmente basata sulla dichiarazione spontanea del rispondente; le principali eccezioni sono costituite dai Paesi Bassi e dall’Islanda, in cui si applica una soglia di 35 ore, dalla Svezia, in cui è applicata una soglia ai lavoratori indipendenti, e dalla Norvegia, dove le persone che dichiarano tra 32 e 36 ore di lavoro sono invitate a precisare se si tratta di una posizione di lavoro a tempo pieno o parziale; gli indicatori per gli occupati con un secondo lavoro si riferiscono soltanto alle persone che esercitano contemporaneamente più di una attività lavorativa; le persone che hanno cambiato lavoro durante la settimana di riferimento non sono considerate come lavoratori con due posizioni lavorative; si considera che un lavoratore dipendente svolga un lavoro temporaneo se ha concordato con il datore di lavoro che la conclusione del rapporto di lavoro è determinata da condizioni oggettive, quali una data specifica, il completamento di un compito o il rientro di un lavoratore sostituito per un periodo di tempo limitato. Sono normalmente inclusi: i lavoratori stagionali; il personale alle dipendenze di un’agenzia per il lavoro inviato presso un soggetto terzo a svolgere una specifica attività lavorativa (salvo che non sia stato stipulato un contratto scritto di lavoro di durata illimitata); le persone con specifici contratti di formazione.

Serie di dati. La maggior parte degli indicatori presentati in questa scheda proviene da serie di dati che fanno parte dei principali indicatori dell’indagine sulle forze di lavoro (serie di dati che cominciano con le lettere lfsi). Questi indicatori principali differiscono dalle serie di dati con i risultati dettagliati annuali e trimestrali dell’indagine (serie di dati che cominciano con le lettere lfsa e lfsq) per il fatto che i risultati dettagliati dell’indagine sono esclusivamente basati su microdati provenienti dall’indagine sulle forze di lavoro, mentre gli indicatori principali sono stati sottoposti a un trattamento aggiuntivo. Gli adeguamenti aggiuntivi più comuni sono le rettifiche alle principali discontinuità nelle serie e le stime dei valori mancanti. Questi adeguamenti producono notevoli differenze tra le due serie di dati per alcuni anni. Le serie di dati degli indicatori principali dell’indagine sulle forze di lavoro sono la raccolta più completa e attendibile di dati sull’occupazione e sulla disoccupazione nell’ambito dell’indagine sulle forze di lavoro. Tuttavia, poiché non offrono un’analisi di tutte le variabili di base, in alcuni casi è necessario utilizzare anche i risultati dettagliati dell’indagine, come è stato fatto in queste schede per i dati della tavola 3 e parte della tavola 4.

Contesto. Le statistiche dell’occupazione possono essere utilizzate per molteplici analisi di vario tipo, compresi studi macroeconomici (considerando il lavoro come fattore di produzione), sulla produttività o sulla competitività. Possono essere impiegate anche per approfondire una serie di aspetti sociali e comportamentali legati alla situazione occupazionale di una persona, quali l’integrazione sociale delle minoranze o l’occupazione quale fonte di reddito delle famiglie. L’occupazione è un indicatore sia strutturale sia congiunturale. In qualità di indicatore strutturale può fornire informazioni sulla struttura dei mercati del lavoro e sui sistemi economici, misurati sulla base dell’equilibrio fra domanda e offerta di lavoro, o della qualità dell’occupazione. Come indicatore congiunturale l’occupazione segue il ciclo economico; sotto questo aspetto presenta tuttavia dei limiti ed è spesso riconosciuta come un “lagging indicator”. Le statistiche dell’occupazione servono da base per numerose politiche dell’UE. La strategia europea per l’occupazione (SEO), avviata dal vertice sull’occupazione di Lussemburgo nel novembre del 1997, è stata rilanciata nel 2005 per allinearla maggiormente a una serie di obiettivi di Lisbona riveduti. Nel luglio del 2008 sono stati aggiornati gli orientamenti in materia di occupazione per il periodo 2008-2010. Nel marzo 2010 la Commissione europea ha lanciato la strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, formalmente adottata dal Consiglio europeo nel giugno 2010. Il Consiglio europeo ha definito cinque obiettivi strategici, il primo dei quali consiste nell’aumentare al 75 % entro il 2020 il tasso di occupazione degli uomini e delle donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni. Gli Stati membri dell’UE possono fissare obiettivi nazionali propri in vista del conseguimento di tali obiettivi strategici e redigere programmi nazionali di riforma comprendenti le iniziative che ritengono opportuno adottare ai fini dell’attuazione della strategia. Quest’ultima può essere realizzata, almeno in parte, tramite la promozione di condizioni di lavoro flessibili, quali ad esempio il lavoro a tempo parziale o il telelavoro, giudicate idonee a stimolare la partecipazione al lavoro. Tra le iniziative atte ad incoraggiare l’ingresso nel mercato del lavoro di un numero maggiore di persone figurano il miglioramento della disponibilità di strutture per l’infanzia, la creazione di maggiori opportunità di formazione permanente o la promozione della mobilità dei lavoratori. Fondamentale a questo riguardo è il concetto della “flessicurezza”, ossia delle politiche che promuovono contemporaneamente la flessibilità dei mercati del lavoro, dell’organizzazione del lavoro e delle relazioni di lavoro, pur tenendo conto della necessità di conciliare lavoro e vita privata e di aspetti quali la sicurezza del lavoro e la protezione sociale. In linea con la strategia Europa 2020, la strategia europea per l’occupazione promuove misure volte al conseguimento entro il 2020 di tre obiettivi: dare lavoro al 75 % della popolazione tra i 20 e i 64 anni; portare il tasso di abbandono scolastico al di sotto della soglia del 10 % e fare in modo che almeno il 40 % dei giovani tra i 30 e i 34 anni consegua un titolo di istruzione terziaria; ridurre di almeno 20 milioni il numero delle persone a rischio di povertà o di esclusione sociale. La lentezza della ripresa dalla crisi economica e finanziaria e i crescenti segnali di un aumento della disoccupazione hanno indotto la Commissione europea a presentare il 18 aprile 2012 una serie di proposte intese a promuovere l’occupazione tramite uno specifico pacchetto per l’occupazione. Tra l’altro, le proposte prendono in considerazione il lato della domanda della creazione di occupazione, fornendo orientamenti agli Stati membri affinché incoraggino le assunzioni mediante la riduzione delle imposte sul lavoro o la fornitura di assistenza alle startup. Le proposte mirano anche a individuare settori economici che presentano grandi potenzialità di creazione di posti di lavoro, come l’economia verde, i servizi sanitari e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Nel dicembre 2012, a fronte di un tasso di disoccupazione giovanile elevato e ulteriormente in aumento in numerosi Stati membri dell’UE, la Commissione europea ha proposto un pacchetto per l’occupazione giovanile [COM(2012) 727 final]. Il pacchetto si inscrive nella scia delle azioni a favore della gioventù previste nel più ampio pacchetto per l’occupazione e contiene una serie di proposte, tra le quali: il ricevimento da parte dei giovani di età inferiore a 25 anni di un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio entro un periodo di quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dal completamento del percorso scolastico formale (garanzia per i giovani); una consultazione delle parti sociali europee su un quadro di qualità per i tirocini che consenta ai giovani di acquisire esperienze di lavoro di elevata qualità in condizioni di sicurezza; un’alleanza europea per l’apprendistato, volta a migliorare la qualità e l’offerta di apprendistati e a delineare modi per ridurre gli ostacoli alla mobilità giovanile. Gli sforzi per ridurre la disoccupazione giovanile sono continuati nel 2013, con la presentazione da parte della Commissione di una iniziativa a favore dell’occupazione giovanile [COM(2013) 144 final] volta a rafforzare le misure contenute nel pacchetto per l’occupazione giovanile e ad accelerarne l’attuazione. All’iniziativa, diretta in particolare a sostenere i giovani disoccupati al di fuori di ogni ciclo di istruzione o di formazione in regioni con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 25 %, ha fatto seguito un’altra comunicazione intitolata “Lavorare insieme per i giovani d’Europa – Invito ad agire contro la disoccupazione giovanile” [COM(2013) 447 final], finalizzata ad accelerare l’attuazione della garanzia per i giovani e ad aiutare gli Stati membri e le imprese dell’UE ad assumere un maggior numero di giovani. Una delle principali priorità del collegio dei commissari entrato in carica nel 2014 consiste nel puntare a rilanciare l’occupazione, la crescita e gli investimenti, con l’obiettivo di ridurre la regolamentazione e di fare un uso più efficiente delle risorse finanziarie e dei fondi pubblici esistenti. Nel febbraio 2015 la Commissione europea ha pubblicato una serie di relazioni per paese, nelle quali ha analizzato le politiche economiche degli Stati membri dell’UE e ha fornito informazioni sulle priorità degli Stati membri per l’anno successivo in merito alla promozione della crescita e della creazione di posti di lavoro. Nello stesso mese la Commissione europea ha inoltre proposto di mettere a disposizione 1 miliardodi EUR nel 2015 a valere sull’iniziativa a favore dell’occupazione giovanile in modo da aumentare fino a 30 volte il prefinanziamento che gli Stati membri dell’UE potrebbero ricevere per far crescere i tassi di occupazione giovanile, con l’obiettivo di aiutare 650 000 giovani a entrare nel mondo del lavoro. Nel giugno del 2016 la Commissione europea ha adottato una Agenda per le competenze per l’Europa [COM(2016) 381/2] intitolata “Lavorare insieme per promuovere il capitale umano, l’occupabilità e la competitività”. Lo scopo è garantire che le persone sviluppino le competenze necessarie oggi e nel futuro per promuovere l’occupabilità, la competitività e la crescita nell’UE…

Conclusioni: è necessario, sempre più, che per dare al lavoro umano prospettive di un futuro… che per il momento vale lasciare senza  aggettivi …occorrerà comunque nel prossimo periodo …lavorare molto!

“E’ sempre tempo di Coaching!”

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