Intelligenza artificiale e robot ci ruberanno il lavoro?! No, ne creeranno (forse) di nuovi…

Sollecitato… ritorno sull’argomento e per scoprire la verità torniamo coi piedi per terra…

Il dibattito attorno all’intelligenza artificiale (Ai) e alle sue applicazioni nel mondo del lavoro diventa sempre più frizzante e spesso è avulso dalla realtà. Infatti, chiedersi oggi se i robot, gli automatismi e l’Ai riusciranno a creare una ulteriore folta schiera di disoccupati è quantomeno inopportuno. La disoccupazione, soprattutto nei giovani già raggiunge il 34% e vederne un ulteriore aggravamento dovuto alle nuove tecnologie rischia di essere forviante. Abbiamo sicuramente ancora poca percezione di quelle che saranno le professioni di domani, di conseguenza ogni previsione rischia di essere poco seria. D’altro canto non abbiamo contezza di quanti posti di lavoro saranno creati dalle nuove tecnologie e, anche in questo caso, affidarsi alla palla di vetro appare poco opportuno. Dicono: Le auto senza guidatore estingueranno almeno 128 professioni. Chi lo dice: Parola di futurologo! Partiamo da ciò che sappiamo. Dal presente e dalla consapevolezza che la formazione così come concepita oggi non salverà né il nostro lavoro né la nostra visione del mondo; inoltre non è opinione diffusa che le tanto decantate capacità dell’Ai sono più fantascienza (e business) che puntuale realtà, tant’è che la trasformazione del mondo del lavoro è già in atto e non è spinta dall’Ai quanto dalla sharing economy, dalla gig economy e dalla digitalizzazione. Qui la lente di una possibilità di occupazione deve ingrandire questa possibilità a favore soprattutto dei giovani. Ora, sappiamo, perché questo fenomeno è già in atto, che il settore secondario è e sarà il primo bastione a crollare sotto il peso della robotica e dell’automazione in generale. Però con qualche sorpresa. “I robot “rubano” i posti di lavoro, quindi tassiamo loro”. L’idea  come saprete è di Bill Gates. A riguardo quali sono le risposte degli esperti?! Il parere di Mario Alemi, data scientist di Elegans.io, una Boutique di intelligenza artificiale e reti neurali ci dice: “Nell’immediato c’è un problema, se si introduce l’automobile molti cocchieri perdono il lavoro. Un sistema che va quindi armonizzato e che oggi già prende forma, per esempio: Adidas ha aperto in Germania stabilimenti altamente automatizzati, perché il costo del lavoro in Europa è proibitivo. Produce scarpe altamente personalizzate, che possono ragionevolmente essere fatte solo dalle macchine. È vero, sono stati tolti posti di lavoro in Bangladesh ma sono stati ricreati in Germania”. Gli impieghi in questo caso non riguardano la produzione propriamente detta ma tutti quegli specialisti, ingegneri e tecnici che hanno allestito lo stabilimento tedesco di Adidas e quelli che si occupano di mantenerlo. Non si può ridurre tutto a una mera questione contabile, cercando di fare pareggiare il conto dei posti di lavoro persi e quelli creati, si tratta di comprendere che i lavori di domani necessitano di una formazione diversa. E, in assenza di una reazione da parte di chi deve fornirla, stiamo andando incontro a un problema sul lungo periodo. Arriviamo a porci un quesito “ambivalente”: Quanto posso fidarmi del mio robot? E lui, dovrebbe fidarsi di me? E’ una questione di formazione o competenze! La formazione in Italia dà non pochi grattacapi. Lo dimostrano due indicatori che mettono a nudo le debolezze della scuola, che è lungi dall’essere in grado di rispondere alle necessità del mondo del lavoro. Il primo indicatore è l’edizione periodica del Programma per la valutazione internazionale dell’allievo (Pisa) che racconta di un’Italia a due marce, con un divario tra settentrione e meridione oltre a un crescente gap tra generi. Il secondo indicatore lo ha fornito lo scorso 4 ottobre l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), e sancisce che l’Italia è il Paese del G7 in cui i lavoratori laureati che svolgono impieghi di routine sono più di quelli che hanno professioni non di routine. In estrema sintesi l’Osservatorio curato dall’Ocse sostiene che il 35% della popolazione attiva (quella che lavora) svolge una professione non coerente con il proprio percorso di studi, l’11,7% ha competenze eccedenti e il 18% è ampiamente sovra-qualificata. Sul lato delle competenze inferiori si situa il 6% della popolazione attiva e il 21% è ampiamente sotto-qualificato per il lavoro che svolge. Lo “Stivale” della formazione non è al passo coi tempi perché non ha piena coscienza del binomio “competenza e formazione”, ovvero una simbiosi in cui la prima deve trasformare la seconda. “Lo stato deve rallentare la corsa tecnologica – continua Alemi – e convogliare investimenti nella formazione, così può diventare un’opportunità, perché c’è il tempo di leggere il mercato”. Il tempo del nozionismo si sta esaurendo, lasciando spazio a una forma costruttiva del sapere e conoscere, non più finalizzata al superamento di esami scolastici ma all’entrata nella società e nel mondo del lavoro.  Il 65% dei bambini che iniziano le elementari farà un lavoro che oggi non esiste. E allora, che cosa deve insegnare la scuola oggi? A chi affidarsi per la trasformazione? Il tema del passaggio di competenze è uno dei tanti argomenti che non possono essere demandati allo Stato, alle sue istituzioni o ai suoi istituti. Finito il tempo dell’apprendimento formale, ovvero quello impartito nel sistema scolastico odierno, deve iniziare l’era dell’apprendimento non formale, quello erogato dalle aziende e dalle organizzazioni civili. I momenti in cui si impara e quelli in cui si lavora tendono sempre più a convergere. Da questo punto di vista dovrebbe assumere più rilievo l’apprendimento informale, quello che ognuno fa suo attraverso le proprie esperienze quotidiane ma che, non essendo misurabile e certificabile, viene snobbato non tanto per la sua inutilità, quanto per l’impossibilità di assegnargli un voto o un valore. H-Farm crea la “Silecon Valley” italiana. Ci sono però degli esempi virtuosi, perché in Italia le eccellenze non mancano e, nel caso specifico, i ricercatori e gli addetti all’intelligenza artificiale si distinguono. “La scarsa attenzione che lo Stato dà all’istruzione è però preoccupante”, dice Mario Alemi, e i motivi sono da ricercare nel tessuto sociale e culturale: “abbiamo un bagaglio culturale ancorato al momento in cui eravamo un punto di riferimento nel mondo, un sistema di insegnamento nozionistico e noioso. Se sei un prodigio la scuola cerca di affossarti per allinearti agli altri studenti, uno dei motivi per cui i giovani vanno all’estero”. Molti ricercatori tendono a enfatizzare i risultati ottenuti. E chi deve raccontarli (i media) spesso si limitano a riportare le parole dei ricercatori stessi, senza spirito critico. Gli sfoggi dell’Ai sono peraltro un po’ cialtroni e truffaldini, tra questi ce ne sono due in particolare che sono entrati nell’immaginario collettivo, storpiando le reali capacità delle macchine. Nel (tecnologicamente lontanissimo) 1996 l’allora campione del mondo Garry Kasparov ha sfidato Deep Blue di IBM, macchina riadattata alla bisogna per riuscire a dominare sulla scacchiera. Nella cultura popolare si è diffusa l’opinione che il cervellone abbia battuto l’uomo. Non è stato così, non subito. Kasparov ha vinto 3 incontri e ha pareggiato 2 volte. Garry Kasparov, contro Deep Blue di Ibm, prima sfida, a Philadelphia nel 1996. Vinse l’uomo.  Un anno dopo, siamo quindi nel 1997, una versione potenziata e migliorata di Deep Blue ha davvero permesso all’intelligenza artificiale di surclassare l’uomo. Sono seguite molte polemiche, quelle cioè secondo cui si è sospettato che i creatori degli algoritmi li risistemassero in continuazione, adattandoli alla strategia adottata da Kasparov e alle situazioni di gioco. Polemica sterile non solo perché il regolamento della sfida non vietava degli assestamenti ma, soprattutto, perché quella di Deep Blue era una vispa intelligenza finita, non di certo Ai. Garry Kasparov contro Deep Blue seconda sfida, a New York nel 1997. Vinse la macchina. Ma non era intelligenza artificiale, ‘solo’ potenza di calcolo. La prova è facilmente data: se per una manciata di minuti si fossero cambiate le regole degli scacchi, decidendo ad esempio che il cavallo non avrebbe più potuto saltare gli altri pezzi, Deep Blue sarebbe diventato pressoché inutile, mentre l’uomo sarebbe stato in grado di riadattare le sue strategie di gioco. L’altro avvenimento che ha fatto dell’Ai uno spettacolo da one man show risale al 2011 ed è stata la vittoria del sistema Ai Watson (ancora una volta di IBM) al quiz televisivo americano Jeopardy! Il cervellone è riuscito a rispondere più velocemente degli avversari umani alle domande. Non è affatto stupefacente che un supercomputer che aveva accesso a 200 milioni di pagine di contenuti e fosse capace di svolgere centinaia di milioni di operazioni al secondo sia stato in grado di battere l’uomo. Quindi i grandi risultati dell’Ai nel mondo del lavoro sono spesso il risultato di racconti della stampa e dei media. Un gran numero di testate giornalistiche si sta dando un gran daffare per affinare capacità divinatorie. Tra questi spicca un articolo di MarketWatch con tanto di tabella in cui viene rappresentata la moria di posti di lavoro per categoria professionale. Il prezzo da pagare in nome dell’automazione, della robotica e dell’Ai. Secondo il grafico, per citare un esempio, per ogni 2,7 milioni di persone impiegate in attività di servizio al cliente, nei prossimi 10 anni ne resteranno solo 1,2 milioni. Per ogni attività, ecco quando i robot inizieranno a battere gli umani. Le domande che occorre porsi sono quindi due: a oggi, quante macchine sono in grado di svolgere tali attività?  Ad oggi quanti prototipi di tecnologie future hanno dimostrato di riuscire, anche solo lontanamente, a svolgere tali attività?  E, allora? In conclusione, alla domanda “l’intelligenza artificiale ci ruberà il lavoro” si può (forse) rispondere in modo affermativo… Ma non ora e neppure nel futuro prossimo. E la stessa Ai contribuirà a creare impieghi i quali, per essere svolti, hanno bisogno di un nuovo paradigma di scuola e formazione, che vanno in gran parte ridisegnate facendosi guidare dalle competenze utili al mondo del lavoro. Comunque, ancora una volta va detto che  non c’è tempo da perdere… anche se le sirene di allarme si sentono ancora da lontano.

“E’ sempre tempo di Coaching!”

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