ISPI – Focus – Migranti: una bussola per…

…Informarsi per comprende correttamente:

Sulla gestione della politica migratoria, nelle ultime settimane i toni sono diventati sempre più accesi. Al mini-summit informale di domenica scorsa, 16 leader europei si sono riuniti non riuscendo a raggiungere un compromesso soddisfacente e constatando le loro divisioni. Questo Focus si propone di offrire al lettore una “bussola” per orientarsi sulle proposte e le parole chiave che più frequentemente si rincorrono su giornali e social network. Perché un compromesso, se si troverà, sarà proprio un incrocio tra le diverse opzioni e parole chiave, in un equilibrio complesso che dovrà prendere in considerazione il calcolo costi-benefici di tutti i leader seduti intorno al tavolo. Che cosa significano queste misure e parole d’ordine, e in quali politiche concrete dovrebbero tradursi? Quali paesi condividono la stessa posizione, e quali sono in disaccordo? Quali gli specifici interessi italiani?

“frontiera marittima europea”

“Chi sbarca in Italia, sbarca in Europa”: è l’affermazione alla base della recente proposta Italiana sulla questione salvataggi in mare e sbarchi nel Mediterraneo centrale. Il Governo italiano propone infatti di “europeizzare” i confini marittimi dell’Ue, considerando così gli sbarchi sulle sue coste come sbarchi nell’Unione.

In concreto, la proposta italiana implicherebbe il ricollocamento automatico (vedi sotto, Ricollocamenti) verso i vari paesi europei di tutti i migranti in arrivo dal mare. Per “tutti” si intendono non solo i migranti che potrebbero qualificarsi come rifugiati, ma anche i migranti “economici”. Significherebbe quindi chiedere a quei paesi europei che già non hanno provveduto ai ricollocamenti di emergenza dei richiedenti asilo dal 2015 a oggi di provvedervi in futuro in modo automatico, permanente, e includendo peraltro anche i migranti economici.

In tal senso, questi paesi accetterebbero una versione addirittura più “estrema” della revisione delle regole di Dublino già fallita a inizio giugno. Questa proposta, avanzata dalla presidenza di turno bulgara, manteneva le responsabilità in capo al paese di primo ingresso nell’Ue ma, in caso di flussi straordinari, prevedeva la possibilità di fare dei ricollocamenti. I ricollocamenti erano tuttavia limitati a quei migranti la cui probabilità di vedersi riconoscere una forma di protezione (rifugio o status sussidiario) fosse superiore al 75%, ovvero principalmente siriani, iracheni, eritrei e somali, che dal 2015 a oggi hanno costituito meno dell’8% delle richieste d’asilo presentate in Italia. Risulta dunque difficile che i paesi Ue riescano a trovare un accordo su una riforma ancora più stringente rispetto a quella bulgara.

Cosa cambierebbe per l’Italia: Nel caso la proposta venisse accettata, si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione nel campo delle migrazioni. L’Italia otterrebbe il massimo possibile di solidarietà dai paesi europei, soprattutto se i ricollocamenti avvenissero in maniera rapida e l’impegno fosse permanente.

“hotspot e piattaforme regionali”

Gli hotspot sono stati finora solo quei centri istituiti in Italia e Grecia a fine 2015, in piena “crisi migranti”, e prevedono la presenza di personale europeo. Questi centri sono stati creati allo scopo di aumentare e velocizzare l’identificazione dei migranti sbarcati. Inizialmente gli hotspot erano pensati come strutture chiuse, da cui non si potesse uscire fino a identificazione completata, che in teoria sarebbe dovuta avvenire entro massimo 72 ore. Nella realtà, soprattutto nei periodi di flusso più intenso, i termini si sono dilatati e di fatto gli hotspot sono diventati più simili a centri di accoglienza.

La proposta che sembra aver fatto più strada nel mini-summit di domenica prevede di creare degli hotspot che oltre a identificare i migranti procedano anche a valutare le richieste d’asilo. Quindi i tempi di permanenza dei migranti andrebbero ben oltre le 72 ore previste per la sola identificazione, e gli hotspot si trasformerebbero in veri e propri “campi”. Non a caso, a tener banco è stata la questione di dove aprirli: in paesi Ue o fuori dall’Europa.

Il presidente francese Macron, per esempio, ha proposto il rafforzamento degli hotspot italiani, cui dirigere maggiori finanziamenti e personale Ue. Allo stesso tempo proprio Macron, così come i governi italiano, austriaco e tedesco si sono detti a favore dell’apertura di hotspot in paesi terzi (nei giorni scorsi si è parlato molto del Niger e della Tunisia), che il Consiglio definisce “piattaforme di sbarco regionali”. La creazione di questi centri non potrebbe dunque prescindere dal consenso dei paesi africani coinvolti, che però in varie occasioni hanno già espresso le loro perplessità, se non una totale contrarietà.

Varare “piattaforme regionali” esterne avvicinerebbe l’Ue al “modello australiano”, ma con una importante differenza. L’Australia conduce i migranti salvati in centri chiusi sulla terraferma in paesi terzi (per esempio a Manus), ma lo fa anche quando le persone salvate hanno già raggiunto le acque territoriali australiane. Nel caso europeo, la posizione condivisa sembra essere quella per cui i migranti che arrivino nelle acque territoriali o sul territorio di un paese membro non sarebbero ricondotti nelle “piattaforme regionali” esterne – come prevede d’altronde il diritto internazionale.

Un’ulteriore questione riguarda la capacità di accoglienza questi hotspot. Se i centri italiani rischiavano il collasso con 10 mila arrivi al mese, quanto rapidamente si saturerebbero centri in cui il periodo di permanenza dovrebbe essere sufficientemente lungo per consentire la valutazione della richiesta di asilo? Come separare i richiedenti asilo da chi, avendo già ricevuto un diniego, starebbe solo attendendo il rimpatrio? E come assicurarsi che il rimpatrio dei richiedenti asilo diniegiati avvenga veramente, evitando la saturazione dei centri, se persino gli stati europei a oggi non riescono a effettuare più del 35% dei rimpatri?

Cosa cambierebbe per l’Italia: Rafforzare gli hotspot in Italia porrebbe notevoli problemi al Governo italiano, costringendolo a prevedere centri di permanenza di lungo periodo per i richiedenti asilo sul territorio italiano. Considerando che il numero di richiedenti asilo attualmente presenti in Italia è di circa 150.000 persone, e che l’intera popolazione carceraria italiana non supera le 60.000 unità, è evidente che si tratti di una proposta difficilmente accettabile.

Gli hotspot esterni, al contrario, alleggerirebbero il carico sull’Italia, soprattutto per quanto riguarda i migranti provenienti dalla Libia, le cui imbarcazioni (gommoni o barche scadenti) vengono soccorse in acque internazionali: sarebbe dunque possibile trasferirli in hotspot esterni. Rimane comunque l’incognita di capire con quali criteri i migranti cui è stata riconosciuta una protezione internazionale in questi centri esterni verrebbero distribuiti tra i paesi Ue.

Chi proviene da Tunisia e Algeria, invece, quasi metà delle volte viene salvato in acque italiane, o raggiunge addirittura le coste italiane senza essere intercettato. In questi casi, il diritto internazionali prescrive che questi migranti non possano essere trasferiti negli hotspot esterni nel caso, molto probabile, che presentino richiesta d’asilo.

“fermare i movimenti secondari”

Secondo il Regolamento di Dublino, il paese competente a valutare una richiesta d’asilo è quasi sempre quello di primo ingresso nell’Ue. Tuttavia, questa regola non è sempre rispettata: che presenti o meno una domanda d’asilo, un certo numero di migranti tenta spesso di raggiungere un altro paese dell’Ue, compiendo quello che viene definito “movimento secondario”. Nel caso di un richiedente asilo, il Regolamento di Dublino prevede un sistema complesso di “ripresa in carico” da parte dello stato membro competente, ma la procedura impiega da 1 a 8 mesi e solo raramente va a buon fine. Per esempio, nel 2017 la Germania è riuscita a rimandare nel paese formalmente competente a valutare la richiesta d’asilo solo circa il 10% delle persone per le quali aveva chiesto il trasferimento.

Il problema di frenare le migrazioni secondarie è riemerso a causa della proposta del Ministro dell’Interno tedesco, Horst Seehofer, di fermare i migranti alla frontiera e di riconsegnarli al paese Ue da cui provengono (per esempio l’Austria) o al paese di primo ingresso (per esempio l’Italia o la Grecia). Un duro scontro con la cancelliera Merkel che vede traballare il proprio governo, nato dopo sei mesi di trattative.

Va comunque ricordato che il numero di migranti fermati mentre compivano un movimento secondario dall’Austria alla Germania è diminuito di oltre il 90% tra il 2016 e il 2017 (da 168.000 a 15.000), e che l’anno scorso quasi la metà di chi è stato fermato è stato respinto verso l’Austria. Questo perché già oggi il codice frontiere Schengen consente di respingere un cittadino non-Ue alla frontiera, per esempio qualora quest’ultimo non dimostri di disporre di mezzi finanziari di sostentamento sufficienti.

Per venire incontro comunque alla Germania, al mini-summit di domenica scorsa sono circolate alcune proposte, tra cui quella di modificare la direttiva Ue sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, eliminando il diritto a un alloggio e a un sostegno finanziario per i richiedenti asilo che abbiano compiuto movimenti secondari, o prevedendo la possibilità di limitare la libertà di movimento dei migranti all’interno dello stato competente a esaminare la loro richiesta.

Cosa cambierebbe per l’Italia: Una maggiore riduzione delle migrazioni secondarie si tradurrebbe per l’Italia in un più alto numero di richiedenti asilo da gestire. Se si fermassero le migrazioni secondarie senza limitare (per quanto possibile) quelle primarie, ovvero gli sbarchi, l’Italia si troverebbe a dover fare i conti con una doppia sconfitta, soprattutto se l’efficienza dei ricollocamenti dovesse restare invariata.

“ridurre le partenze”

L’Italia e l’Unione europea lavorano da anni nel tentativo di agire direttamente sui paesi di origine, ma soprattutto di transito, allo scopo di ridurre il numero di chi si mette in viaggio lungo rotte irregolari. È del marzo 2016 l’ormai famosa Dichiarazione Ue-Turchia, che in meno di un mese ha portato al crollo degli arrivi in Grecia e ha permesso la chiusura della “rotta balcanica” in Europa. Di fronte al fallimento della solidarietà intraeuropea (vedi sotto, Ricollocamenti), la riduzione delle partenze è stata percepita da tutti gli attori come l’unica soluzione verso cui convergere.

Nel 2017, in particolare, l’azione dell’Italia si è concentrata sulla Libia, con la firma a febbraio di un memorandum of understanding che prevede il contrasto alle migrazioni irregolari. L’azione diplomatica e di intelligence in Libia ha portato, da metà luglio 2017 a oggi, a una riduzione del 77% degli sbarchi in Italia rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’Unione europea ha nel frattempo varato i “Migration Partnership Frameworks”, accordi quadro con paesi prioritari in Africa subsahariana (per esempio Niger, Nigeria e Senegal) che vincolano lo sblocco di una parte di aiuti europei al contrasto da parte di questi paesi delle migrazioni irregolari.

I dubbi sono legati, da un lato, alla tenuta degli accordi con paesi o fragili, come il Niger, o fortemente instabili, come nel caso della Libia. Dall’altro lato, si pone il problema di cosa fare con i migranti che non arrivano più, e che restano dunque in paesi di transito spesso del tutto inospitali. In Libia, per esempio, accanto ai centri di detenzione governativi esistono decine di centri gestiti dalle milizie, e in alcuni di essi sono stati documentati torture e abusi. Per dare una prima risposta a questo problema, l’Organizzazione mondiale per le migrazioni nell’ultimo anno ha condotto più di 25.000 rimpatri volontari, mentre l’UNHCR ha evacuato 1.500 persone vulnerabili dalla Libia al Niger.

Cosa cambierebbe per l’Italia: Un ulteriore calo delle partenze permetterebbe al Governo italiano di concentrarsi maggiormente sulle sfide interne delle migrazioni, come quella dell’integrazione. Allo stesso tempo si corre il rischio che alcuni attori, in particolare le milizie libiche, utilizzino la potenziale ripresa degli sbarchi come arma di ricatto per ottenere qualcosa in cambio da parte dell’Italia (che si tratti di aiuti finanziari o di maggiore legittimità agli occhi del governo legittimo di Tripoli).

“ricollocamenti”

La riforma del Regolamento di Dublino è stata proposta dalla Commissione europea nel 2016 e, dopo due anni di negoziati, è stata messa in standby a inizio giugno. Si tratta di una proposta più moderata di quella italiana di istituire una frontiera marittima europea (vedi sopra).

La proposta della Commissione permetterebbe di ricollocare automaticamente i richiedenti asilo registrati in un certo paese europeo, ma solo una volta superata una certa “soglia di sostenibilità” nazionale. Questa soglia è rappresentata da un valore calcolato sulla base di quattro parametri: PIL, popolazione, tasso di disoccupazione e numero di rifugiati già presenti nel paese. I ricollocamenti scatterebbero al superamento del 150% di questo valore.

Per esempio, applicando i quattro parametri della Commissione, la quota spettante all’Italia equivarrebbe al 12% del totale degli arrivi nell’Ue. Di conseguenza, la soglia del 150% sarebbe raggiunta nel momento in cui in Italia facesse richiesta almeno il 18% (12% + 6%) dei richiedenti asilo europei in un dato anno.

Cosa cambierebbe per l’Italia: La proposta consentirebbe all’Italia di ricollocare una quota intorno all’80% dei suoi richiedenti asilo, ma solo a patto che tutti gli altri paesi europei non abbiano ricevuto alcuna richiesta in quello specifico anno. Se invece, come accade oggi, gli arrivi fossero piuttosto equamente distribuiti tra Italia, Spagna e Grecia, i ricollocamenti consentiti all’Italia si limiterebbero a circa il 50% delle richieste. Una situazione comunque di gran lunga migliore rispetto a quella del 2015-2017, in cui i ricollocamenti dall’Italia hanno riguardato solo il 5% dei richiedenti.

“porto sicuro in vari paesi”

Nelle ultime settimane il Governo italiano ha chiesto che, una volta portati a termine i salvataggi nel Mediterraneo centrale, non si considerino più solo quelli italiani come “porti sicuri” nei quali sbarcare i migranti.

Per dirimere la questione bisogna innanzitutto fare chiarezza sul diritto del mare. Per prima cosa va ricordato che l’obbligo di soccorrere chi si trova in difficoltà in mare è sancito sia dalla Convenzione SOLAS (1974) che dalla Convenzione UNCLOS (1982). Inoltre, secondo la Convenzione di Amburgo (1979) i paesi costieri hanno l’obbligo di fare operazioni di ricerca e soccorso (SAR) nelle zone di loro competenza. Le stesse convenzioni prevedono che le persone salvate vadano poi condotte “in un luogo sicuro, in un tempo ragionevole”. Ma i trattati non specificano quali siano questi “luoghi sicuri”.

Negli ultimi anni nel Mediterraneo si è venuta a determinare una situazione in cui l’Italia si è ritrovata a farsi carico del coordinamento delle attività di ricerca e soccorso non solo nella zona SAR di sua competenza, ma anche di quella maltese e di quell’ampio tratto di mare al di là delle acque territoriali libiche che non ricade sotto la competenza di nessuno stato.

Secondo il Governo italiano, anche i porti di altri paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo possono essere considerati sicuri e sufficientemente vicini – una posizione cui nel tempo si sono opposte la Francia e la Spagna, oltre alle navi militari, commerciali o delle Ong che una volta prestato soccorso si dirigevano verso l’Italia. In generale, chi si oppone sostiene che il porto sicuro verso cui effettuare lo sbarco debba essere il più vicino, dunque un porto italiano o maltese.

È stata anche considerata la possibilità di individuare un porto sicuro in Tunisia, o addirittura in Libia. Per quanto riguarda quest’ultimo paese, una recente sentenza del Tribunale del Riesame di Ragusa ha ribadito che la Libia non può essere considerata un approdo sicuro secondo gli standard del diritto internazionale.

Per quanto riguarda invece la Tunisia, è difficile stabilire se il paese sia da ritenere “sicuro”, dal momento che nonostante non si tratti di un paese instabile quanto la Libia, gli standard del diritto d’asilo sono di molto inferiori rispetto a quelli dell’Unione europea.

Nella sostanza, il nodo è di natura principalmente politica. Se l’Italia continuasse a negare l’accesso ai propri porti a navi battenti bandiera straniera, e gli altri paesi europei non decidessero di sostituirsi all’Italia, non potrebbe che protrarsi la situazione venutasi a creare da inizio giugno, con le navi che, una volta concluso un salvataggio, non saprebbero verso quale porto dirigersi e sarebbero costrette ad attendere in mare per giorni o settimane.

Cosa cambierebbe per l’Italia: Nel caso di un vero accordo per l’individuazione di altri porti sicuri nel Mediterraneo, il carico sul sistema di accoglienza italiano sarebbe indubbiamente minore. Si creerebbero però alcuni problemi, a seconda che i porti sicuri siano europei o no. Nel primo caso, un maggior tempo di trasbordo a terra delle persone salvate (il viaggio Libia – Spagna – Libia è di oltre 7 giorni) diminuirebbe la presenza di navi che compiono operazioni di ricerca e soccorso, e potrebbe far aumentare il rischio della traversata. Un maggior numero di morti in mare potrebbe richiedere un ripensamento della politica. Se invece i porti sicuri fossero individuati in paesi non Ue (per esempio la Tunisia), si riproporrebbe il problema di come ricollocare i richiedenti asilo nei paesi Ue (vedi Hotspot).

“rimpatri”

L’impegno Ue ad aumentare i rimpatri dei migranti che non hanno ottenuto protezione internazionale viene ribadito ormai ogni anno dal 2011. Ciononostante, in media i paesi europei riescono a rimpatriare a tutt’oggi solo circa il 35% delle persone che riceve un ordine di via.

Proprio a causa di ciò, l’anno scorso l’Unione ha proposto nuove misure per rendere le politiche dei rimpatri più “efficienti”. Le nuove misure non hanno tuttavia sortito l’effetto sperato, e oggi si è tornati al punto di partenza, tanto che le bozze di conclusioni del Consiglio di oggi e domani contengono l’impegno a portare i rimpatri ad “almeno il 70% delle persone che ricevono il foglio di via entro la fine del 2019”.

Il problema è complesso perché prescinde in parte dalla volontà degli stati Ue di effettuare i rimpatri. Questi possono essere effettuati solo se il paese verso il quale dovrebbero essere rimpatriate le persone acconsente a riceverle. Per esempio, mentre tra il 2013 e il 2017 l’Italia ha rimpatriato solo il 20% dei migranti a cui è stato intimato di lasciare il paese, la Germania è riuscita a rimpatriarne quasi l’80%. Questa però non è solo una questione di efficienza, ma anche di accordi. Infatti, il 36% delle persone raggiunte da un provvedimento di rimpatrio in Germania proveniva da paesi balcanici come Albania e Serbia, che Berlino considera in gran parte “sicuri” e con i quali esistono accordi di rimpatrio. Un ulteriore 9% dei migranti raggiunti da un provvedimento di espulsione proveniva da Afghanistan e Pakistan: anche con questi paesi la Germania ha in vigore accordi che le hanno permesso di aumentare i rimpatri.

L’Italia invece ha emesso decreti di espulsione in massima misura nei confronti di persone con nazionalità africana (49% Nordafrica; 18% Africa subsahariana), provenienti cioè da paesi con i quali ha pochi accordi o che non rispettano gli accordi presi. Per esempio tra il 2013 e il 2017 l’Egitto ha rimpatriato il 43% delle persone formalmente espulse dall’Italia, la Tunisia il 31%, mentre quasi tutti i paesi subsahariani (come Senegal, Gambia, Sudan e Costa d’Avorio) hanno tassi di rimpatrio tra lo 0% e il 10%.

Cosa cambierebbe per l’Italia: L’aumento del numero dei rimpatri non potrebbe che essere salutato positivamente dal Governo italiano. Bisogna tuttavia ricordare che, anche qualora gli accordi di rimpatrio venissero applicati, il loro costo totale potrebbe essere piuttosto alto. Euobserver calcola su dati Frontex che ciascun migrante rimpatriato costa a un paese europeo in media 5.800 euro. Per espellere i circa 120.000 migranti cui è stato intimato di lasciare il paese dal 2013 e che non l’hanno ancora fatto, dunque, l’Italia dovrebbe spendere circa 700 milioni di euro.

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