Istat: in Italia più disuguaglianze. ‘Esplodono’ le classi sociali…

La mappa socio-economica tratteggia un Paese sempre più vecchio, dove si acuiscono le disuguaglianze anche all’interno delle classi sociali. “La diseguaglianza sociale non è più solo la distanza tra le diverse classi, ma la composizione stessa delle classi”: è questa l’analisi contenuta nel Rapporto dell’Istat, che traccia una mappa socio-economica dell’Italia, aggiornando i modelli tradizionali con schemi “multidimensionali”. Per l’Istat “la crescente complessità del mondo del lavoro attuale ha fatto aumentare le diversità non solo tra le professioni ma anche all’interno degli stessi ruoli professionali, acuendo le diseguaglianze tra classi sociali e all’interno di esse.  Il confronto è con l’elaborazione di Paolo Sylos Labini e con il saggio sulle classi sociali della metà degli anni 70 che classificava i gruppi a partire dai rapporti di produzione. Negli anni 90, si è imposto il lavoro del sociologo  Antonio Schizzerotto e i dati elaborati sulla base della professione degli occupati.

Ora l’Istat adotta una pluralità di caratteristiche che prendono in considerazione, la  partecipazione sociale, la posizione nel mercato del lavoro, l’ampiezza della famiglia, la cittadinanza e il luogo di residenza. Ma vediamo cosa emerge da questa nuova impostazione dei dati sociologici: L’Italia è un Paese sempre più vecchio: al 1 gennaio 2017 la quota di individui di 65 anni e più ha raggiunto il 22%, collocando il nostro Paese al livello più alto nell’Unione Europea e “tra quelli a più elevato invecchiamento al mondo”.  Con questo dato l’Italia supera anche la Germania che per anni si collocata ai vertici della classifica europea per quota di over-65 sulla popolazione complessiva.

Sono in 13,5 milioni gli italiani che hanno più di 65 anni; gli ultraottantenni sono 4,1 milioni. La classe operaia e il ceto medio “sono sempre state le più radicate nella struttura produttiva del nostro Paese ma oggi la prima – osserva l’Istat – ha abbandonato il ruolo di spinta all’equità sociale mentre la seconda non è più alla guida del cambiamento e dell’evoluzione sociale”. Si assiste quindi a una “perdita dell’identità di classe, legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi”. Per l’Istituto ci sono interi segmenti di popolazione che “non rientrano più nelle classiche partizioni: giovani con alto titolo di studio sono occupati in modo precario, stranieri di seconda generazione che non hanno il background culturale dei genitori, stranieri di prima generazione cui non viene riconosciuto il titolo di studio conseguito, una fetta sempre più grande di esclusi dal mondo del lavoro dovuta – sottolinea l’Istituto – anche al progressivo invecchiamento della popolazione”.

Ecco che nella nuova geografia dell’Istat “la classe operaia, che ha perso il suo connotato univoco, si ritrova per quasi la metà dei casi nel gruppo dei ‘giovani blue-collar'”, composto da molte coppie senza figli, e “per la restante quota nei due gruppi di famiglie a basso reddito, di soli italiani o con stranieri”. Anche la piccola borghesia si distribuisce su più gruppi sociali, in particolare “tra le famiglie di impiegati, di operai in pensione e le famiglie tradizionali della provincia”. Secondo l’Istituto “la classe media impiegatizia è invece ben rappresentabile nella società italiana, ricadendo per l’83,5% nelle ‘famiglie di impiegati'”. In Italia nel 2016 si contano circa 3 milioni 590 mila famiglie senza redditi da lavoro, ovvero dove non ci sono occupati o pensionati da lavoro. Si tratta del 13,9% del totale, con la percentuale più alta che si registra nel Mezzogiorno (22,2%) Si tratta di tutti nuclei ‘jobless’ dove si va avanti grazie a rendite diverse, affitti o aiuti sociali. Nel 2008 queste famiglie erano 3 milioni 172 mila, il 13,2% del totale. In Italia i Neet, acronimo inglese che sta per giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano, sono scesi a 2,2 milioni nel 2016, con un’incidenza che passa al 24,3% dal 25,7% dell’anno prima.

Nonostante il calo si tratta ancora della quota “più elevata tra i paesi dell’Unione” europea, dove la media si ferma al 14,2%. Le casalinghe “con il loro lavoro producono beni e servizi per 49 ore a settimana”. Guardando agli occupati, ovvero a quanti svolgono sia il lavoro retribuito che familiare, le donne superano le 57 ore mentre gli uomini le 51. Tra casa e lavoro è quindi evidente il carico in più per le donne. Sono 5 milioni gli stranieri residenti in Italia al primo gennaio 2017, e prevalentemente vivono al Centro-nord. La collettività rumena è di gran lunga la più numerosa (quasi il 23% degli stranieri in Italia); seguono i cittadini albanesi (9,3%) e quelli marocchini (8,7%).

Nel 2016 l’incremento degli stranieri residenti è stato però molto modesto, 2.500 in più rispetto all’anno precedente: ciò si deve soprattutto all’aumento delle acquisizioni di cittadinanza (178mila nel 2015). Di queste, quasi il 20% ha riguardato albanesi e oltre il 18% marocchini. I permessi per asilo e motivi umanitari attualmente rappresentano quasi il 10% dei permessi con scadenza (esclusi quindi quelli di lungo periodo), il doppio rispetto al 2013. Tanta tv e poco sport: così gli italiani spendono il loro tempo libero. Per quanto riguarda in particolare la categoria degli anziani, la televisione occupa il 43,9% del loro tempo libero. Raggiunge il 50,6% nelle famiglie tradizionali della provincia mentre è al minimo nella classe dirigente (36,1%).

La televisione occupa buona parte del tempo anche dei giovani che vivono in famiglie a basso reddito: quelle con stranieri (30,7% del tempo libero), le famiglie tradizionali della provincia (28,2%), le famiglie a basso reddito di soli italiani (28%). Considerando i dati nel loro complesso, nel 2016, quattro persone su dieci di 3 anni e più non praticano sport né attività fisica nel tempo libero. Le donne sono più sedentarie degli uomini (43,4% contro 34,8%). Tra i gruppi, percentuali notevolmente più alte della media, rispetto alle persone che non fanno attività fisica, si osservano tra gli appartenenti alle famiglie di operai in pensione e al gruppo anziane sole e giovani disoccupati (rispettivamente 52,9% e 51,9%). La crisi ha ancora i suoi effetti e molti italiani non hanno recuperato i livelli di reddito che avevano prima della recessione.

A causa di ciò la quota di persone che hanno rinunciato a una visita specialistica negli ultimi 12 mesi, perché troppo costosa, è cresciuta tra il 2008 e il 2015 da 4,0 a 6,5% della popolazione; il fenomeno è più accentuato nel Mezzogiorno, sia come livello di partenza sia come incremento (da 6,6 a 10,1%).  “Tra i gruppi sociali le diseguaglianze nelle condizioni di salute – aggiunge l’Istat – sono notevoli. Nel gruppo della classe dirigente tre quarti delle persone si dichiarano in buone condizioni di salute, mentre in quello più svantaggiato di anziane sole e giovani disoccupati la quota scende al 60,5%”. Per i meno abbienti calano anche i controlli di prevenzione ai tumori per le donne.

Nel 2016 si è registrato un nuovo minimo delle nascite (474mila). Il numero medio di figli per donna si attesta a 1,34 (1,95 per le donne straniere e 1,27 per le italiane). Il saldo naturale (cioè la differenza tra nati e morti) segna nel 2016 il secondo maggior calo di sempre (-134mila), dopo quello del 2015.  Al primo gennaio 2017 la popolazione residente è scesa a 60,6 milioni. Un nato su 5 in Italia ha almeno un genitore straniero. Dal 2008 le nascite che ogni anno hanno riguardato coppie non italiane sono più di 70mila.

L’Italia vive un ‘degiovanimento’: così l’Istat definisce il calo delle generazioni dei giovani sulla popolazione complessiva. “Si nota la forte riduzione dei contingenti delle generazioni più giovani, praticamente la metà delle generazioni nate nel periodo del baby boom”. E così oggi l’Italia è “uno dei Paesi con il più basso peso delle nuove generazioni”. Nell’ultimo decennio, dal 2008 al 2017, la popolazione residente di età compresa tra i 18 e i 34 anni è diminuita di circa 1,1 milioni. Attenua questa dinamica solo “il contributo positivo dei cittadini stranieri”. L’Istat traccia poi una nuova mappa socio-economica dividendo l’Italia in nove gruppi in base al reddito, al titolo di studio, alla cittadinanza e non guardando così più solo alla professione, come nelle tradizionali classificazioni. I due sottoinsiemi più numerosi sono quelli delle ‘famiglie di impiegati’, appartenete alla fascia benestante (4,6 milioni di nuclei per un totale di 12,2 milioni di persone) e delle ‘famiglie degli operai in pensione’, fascia a reddito medio (5,8 milioni per un totale di oltre 10,5 milioni di persone)…

Sono anni che ci sentiamo dire che il paese è immobile e che non cambia… ma vi pare sia veramente così?

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