Italia: il fattore Omicron, le diseguaglianze e la corsa al Quirinale alla prova di un’eventuale nuova emergenza sanitaria ed economica. Come evitare che i Partiti facciano un disastro…

Si spera che la variante sudafricana sia clemente, ma certo un aumento dei contagi non ci consentirebbe, a meno di essere un Paese di pazzi, crisi di governo o prove muscolari nella scelta del Presidente della Repubblica. Se il fattore Omicron aprisse una nuova e drammatica fase della lotta contro la pandemia – ancora non lo sappiamo – diventerebbe inevitabile, a meno di non essere per l’appunto un Paese di pazzi, congelare la situazione politica e istituzionale. Non saprei dire se fino al punto da indurre Sergio Mattarella a un bis ma certamente da “costringere” Mario Draghi a restare a Palazzo Chigi per continuare a dirigere le operazioni sia sul fronte della terza dose e dell’aumento degli italiani vaccinati, sia su quello dell’azione per prendere la seconda tranche dei soldi europei sviluppando le iniziative previste dal Piano di resistenza e resilienza. D’altra parte – Omicron o non Omicron – la settimana che si apre vede il presidente del Consiglio impegnato proprio a implementare i passaggi necessari per la seconda tranche europea, anche perché su questo c’è da accelerare e chiudere la manovra economica del governo con consultazioni formali – con tanto di calendario – dei vari gruppi politici che incontrerà uno per uno secondo una prassi inedita ma forse più fattiva… Cari ministri, governatori e sindaci nonché aspiranti leader del centro destra e del centrosinistra, se non siete nella realtà in grado di chiedere a un qualsiasi controllore di verificare con certezza il green pass, vedete almeno di risparmiarci le chiacchiere su come volete cambiare la società italiana. La pandemia ci costringe a ripensare e a riorganizzare ogni cosa, e così il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Sono le ragioni per cui a Palazzo Chigi è stato chiamato Mario Draghi, che ha segnato una svolta significativa su entrambi i fronti: pianificazione economica e campagna di vaccinazione. Ma è inutile nascondersi che la portata delle sfide, e dei cambiamenti richiesti per affrontarle, giustificano ampiamente dubbi e preoccupazioni. A maggior ragione considerando il fatto che il miracoloso equilibrio politico-istituzionale che ha consentito la svolta sarà molto probabilmente modificato – il punto è quanto sarà modificato – dall’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, tra appena un paio di mesi. Le grandi questioni attorno a cui ruota il dibattito sono fondamentalmente due: come l’Europa e il mondo dovranno riorganizzarsi per fronteggiare una pandemia che non pare intenzionata a togliere il disturbo da sola tanto presto; e come, dentro questo grande cambiamento, anzitutto all’interno dell’Unione europea, si collocherà l’Italia, con il suo gigantesco debito pubblico (ovviamente in via di espansione) e con tutte le sue storiche debolezze. Da settimane i giornali sono pieni di ogni genere di allarme sulla mancanza delle risorse, persone e competenze necessarie, tanto a far rispettare le nuove restrizioni anti-Covid quanto a presentare e a realizzare in tempo utile i progetti che dovrebbero beneficiare dei fondi europei. Che si tratti di sindaci, presidenti di Regione o del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese (la quale finora ha forse abusato dell’immeritato vantaggio di avere come termine di paragone il suo indegno predecessore), l’impressione è che in troppi si affrettino a mettere le mani avanti, più impegnati nella ricerca di giustificazioni che di soluzioni. L’esempio più emblematico mi sembra l’intervista che il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, ha dato a Repubblica all’indomani del consiglio dei ministri, che ha annunciato il super green pass. Intervista in cui ha dichiarato testualmente: «Non è pensabile chiedere da un giorno all’altro ai controllori del trasporto pubblico di verificare sistematicamente, oltre ai titoli di viaggio, anche il passaporto vaccinale». E per quale ragione, di grazia, non sarebbe neanche pensabile? Per quale ragione sarebbe pensabile, pensato e praticato chiederlo a baristi e ristoratori, e non sarebbe nemmeno immaginabile chiederlo a chi di mestiere dovrebbe fare esattamente questo? Cosa impedisce di unire la verifica del green pass al normale controllo a campione che si è sempre fatto (si fa per dire) sui biglietti? La presa di posizione è tanto più preoccupante perché viene da uno degli esponenti del Pd che più si sono battuti contro la deriva populista del centrosinistra. Se questi sono i riformisti, figuriamoci gli altri del centrodestra. Ma se i dirigenti del centrosinistra non se la sentono nemmeno di chiedere di verificare un certificato a chi dovrebbe far questo di lavoro, potrebbero almeno risparmiarci i discorsi su come intendono ridisegnare il nostro modello di sviluppo (qualunque cosa vogliano dire quando lo dicono), combattere le diseguaglianze e gli squilibri del capitalismo globale, rovesciare come un guanto i trattati dell’Unione europea e riscriverne la costituzione economica. Potremmo firmare anche cento trattati del Quirinale, ottenere (sulla carta) mille miliardi di fondi europei, varare i decreti anti-Covid più avanzati del pianeta: ma se i condottieri che dovrebbero guidarci in questa difficile traversata non vogliono saperne di bagnarsi nemmeno la punta delle scarpe, forse è meglio metterci subito una pietra sopra. In fin dei conti, si tratta di uno dei più antichi problemi della filosofia politica: chi controlla i controllori? Che si tratti di green pass, Pnrr, debito buono o debito cattivo, siamo sempre lì, anche nel pieno di una pandemia, e proprio per questo sarebbe ora di capire che siamo tutti sulla stessa barca. «Anche se a volte somiglia più a un tram che si chiama desiderio di non fare un cazzo». Come scrive Francesco Cundari su Linkiesta. Poi però non ci venite a dire che è tempo di restituire la parola alla politica e di finirla con i commissariamenti dei tecnici. Perché là fuori il virus non guarda in faccia a nessuno e lavora ventiquattro ore su ventiquattro, festivi e prefestivi inclusi. Il corollario di tutto questo sarebbe l’accantonamento delle elezioni anticipate nella prossima primavera, ipotesi che per ragioni diverse e spiegate ormai diverse volte è nella testa dei leader dei principali partiti. Già serpeggia tra i leader una voglia di elezioni anticipate che non nasce, per assurdo, dall’ambizione di vincere e di governare, ma dalla più mediocre speranza di cadere in piedi. Nessuno ha la vittoria in tasca, nemmeno il centrodestra che sta avanti di 3-4 punti negli ultimi sondaggi ma dopo le Comunali ha smarrito un po’ delle sue certezze. Però tutti – ecco la novità – potrebbero accontentarsi di una sconfitta e, in qualche caso limite, addirittura desiderarla per motivi che pubblicamente non si possono confessare. Ad esempio, per evitare una batosta ancora più pesante se tornassimo alle urne tra un anno e mezzo; oppure per eleggere in Parlamento i propri amichetti senza farli attendere fino al 2023; o al limite per far fuori i rompiscatole interni. E dunque questi leader dovrebbero rifare i loro calcoli e ricalibrare le loro linee politiche predisponendosi a tutte le evenienze. Facciamo alcuni esempi. Matteo Salvini, che è sempre più in difficoltà, dovrebbe guardarsi dalla nouvelle vague dei governatori alla Fedriga, più pragmatica e governista; mentre l’ex premier Giuseppe Conte dovrebbe misurarsi apertamente con la più disinvolta egemonia di Luigi Di Maio, colpito sulla via di Parigi dopo le frequentazioni dei gilet gialli; Enrico Letta dovrebbe “stringere” sul Nuovo Ulivo e portare a casa un minimo di risultati, dopo che la Zan è andata com’è andata e sulle riforme istituzionali è il deserto, e evitare di perdere il tempo nel tentativo di chiudere definitivamente i conti con gli ex renziani… che nonostante gli ennesimi strilli di Renzi alla 11cesima Leopolda si autoelimineranno da soli per eccesso di presunzione… E la Meloni dovrebbe darsi una ridimensionata e guardare ad Orban per quello che è… tutto fuor che un politico da portare ad esempio, così come dovrebbe evitare i comizi dalla tribuna di Vox i nostalgici del Franchismo:  “yo soy Giorgia soy mujer soy   madre  soy cristiana” …ecco appunto evitare se non altro per carità cristiana… «Senza le urne i problemi dei leader appena citati verrebbero a manifestarsi più chiaramente ma è anche vero che i loro partiti avrebbero più tempo di ridefinire le loro identità e le rispettive strategie. E anche di darsi più da fare nell’azione a sostegno di un governo a quel punto a scadenza solo nel 2023. Le forze politiche potrebbero dunque trarre ex malo bonum, come si dice, tentando di ridare un senso alla loro storia perché una storia adesso un senso non ce l’ha». così scrive sempre su Linkiesta online, Mario Lavia. Difficile dare torto persino a Ernesto Galli della Loggia sul Corsera: «I partiti che oggi calcano la scena italiana sono perlopiù dei gusci vuoti, quasi delle pure sigle […]. Non ce n’è uno che abbia una visione del futuro del Paese, la minima idea di che cosa debba essere e a che cosa possa servire l’Italia. I loro programmi consistono al massimo in vaghe enunciazioni di una sfilza di cose da fare. Sempre buttate giù alla bell’e meglio, senza alcuna priorità, senza indicazioni di fattibilità, di tempi, di costi. Nella loro vaghezza le richieste programmatiche dei vari partiti tendono così ad apparire (ed essere) pressoché tutte eguali e tutte inservibili». Essendoci per fortuna al momento un governo all’altezza della situazione, ecco dunque che l’allontanarsi delle urne nella chiarezza dei suoi perché… potrebbe fornire ai partiti un’arma preziosa, se solo la sapessero utilizzare: “il tempo”. Il tempo per rinnovare sé stessi e, tra l’altro, per mettere a posto un sistema politico raffazzonato mediante una legge proporzionale in grado di riavvicinare la società alla politica. Detto questo, non è certo da augurarsi una nuova fase emergenziale nella battaglia contro il Covid ma è saggio sin d’ora mettere in chiaro che il Paese in ogni caso non ha bisogno di crisi di governo e tanto meno di comizi. La crescente domanda del Paese, persino istintiva, di mantenere Mario Draghi a Palazzo Chigi è di per sé un fatto da preservare e non da ostacolare con manovrette di parte alla Giorgia Meloni. Né con le “urla” renziane. Se la stabilità di governo diventa con sempre maggiore evidenza un bene primario, nulla invece si può dire della corsa al Quirinale. Una volta esclusa, come sin qui argomentato, l’ipotesi-Draghi, resta molto in dubbio la possibilità che Mattarella compia un sacrificio personale anche tenendo conto che l’elezione del capo dello Stato potrebbe avvenire in pochi giorni, nel chiuso di Montecitorio, senza provocare traumi politici se solo si trovasse una convergenza tra gli schieramenti. E, mentre il juke box mediatico sforna ogni giorno candidati di ogni tipo soprattutto pescando tra i vecchi nomi del passato, aumenta nei Palazzi la consapevolezza che a giocare il ruolo decisivo sarà questo inesistente super-centro fatto di mille cose diverse tra loro che può concorrere a comporre i numeri necessari: e sarà verosimilmente e necessariamente da lì che dovrebbero venire le ipotesi più probabili le più unitarie possibili, quelle che possono garantire una riuscita nelle prime votazioni e la tenuta del quadro politico. Lo sa Enrico Letta e lo sa anche Silvio Berlusconi e persino Luigi Di Maio, e già lo dicono all’unisono – gli unici (vedi di fartene una ragione caro Matteo Renzi) che conteranno davvero nella partita che verrà giocata dai 1.005 grandi elettori – sapendo che la prova muscolare del “polo contro polo” in questa situazione non ha alcun futuro per se né per il Paese…

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