Italia: siamo ben oltre l’improvvisazione. Conte non ha più niente da dire. Un Paese senza bussola con una destra e una sinistra incapaci di esprimere idee sulla più grave emergenza del nostro tempo…

Nella conferenza stampa di fine anno il presidente del Consiglio non ha annunciato nulla. Ormai va avanti per inerzia.  Si respira un’aria di cambio di stagione, come se il freddo e la neve di questi giorni avesse ghiacciato il corpo già nudo di un governo che non sa più cosa fare e non ha più niente da dire. Impossibile nascondere questo dato di fatto in una conferenza stampa durata ben tre ore in diretta tv. È stato infatti sconfortante assistere al caos di queste ultime settimane. «È stato un fine anno che non dimenticheremo quello che abbiamo trascorso chiusi in casa per difendere la nostra salute e quella di tutti gli altri. Credo che ognuno di noi non desideri altro che voltare pagina. Vogliamo che questo 2021 cancelli le immagini dolorose degli ospedali assediati, dei nostri nonni e genitori salutati solo attraverso un vetro delle residenze per anziani, delle saracinesche abbassate e delle città vuote». Così scrive Luciano Fontana direttore del Corriere. Sembra quasi che Conte non se ne renda conto… tre ore di conferenza sono uno sproposito. Certo sono ruoli sicuramente diversi, ma l’altra sera il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato agli Italiani con un messaggio durato in tutto 14 minuti e ha detto tutto quello che c’era da dire di questo anno orribile e delle speranze da “costruire” nel prossimo. È come se esistessero due mondi paralleli: quello riassunto dalle tre parole del Presidente della Repubblica: «serietà, responsabilità, solidarietà». In cui si deve agire in modo concreto, efficace, senza disperdere risorse, in cui «non sono ammesse distrazioni e perdite di tempo per perseguire illusori vantaggi di parte». E quelle tre ore di conferenza stampa di Giuseppe Conte. Dove si è capito chiaramente che Il presidente del Consiglio non ha più in mano la guida della sua maggioranza. La conduzione solitaria dei progetti per il Recovery fund, l’annuncio di misure e strutture commissariali che non erano state concordate hanno generato un conflitto ai limiti della crisi con Renzi e un contrasto aspro, anche se sotterraneo, con il Pd. D’altronde i tempi con cui il Premier si muove sarebbero impossibili da sostenere per un vecchio professionista della politica, figuriamoci per Conte, che resta comunque un novizio sbarcato a Palazzo Chigi per volontà di Beppe Grillo e Luigi Di Maio col sostegno di Matteo Salvini prima e Nicola Zingaretti poi.  Ma vengo al dunque, ho riletto alcune cronache di situazioni di crisi politiche del passato, non mancano le analogie con quella presente: «Non ci faremo imprigionare da una finzione. È dimostrabile che l’astuzia non è illimitata e che, allo stesso modo, è legittimo sottrarsi a un inganno: se la commedia già mediocre è diventata intollerabile e rischiosa, conviene calare il sipario», disse Martinazzoli in un’aula di Montecitorio stupefatta  nell’aprile 1987 chiedendo a nome della Democrazia cristiana di sfiduciare l’ultimo governo di Amintore Fanfani. Ora, Conte non è certo all’altezza non solo di un Martinazzoli, ma nemmeno dell’ultimo collaboratore di Arnaldo Forlani, il quale – come diceva lui stesso – poteva parlare mezz’ora senza dire niente, e però faceva a suo modo, ma faceva. Conte no. Non dice e non fa. Nella conferenza stampa di fatto non ha detto nulla e non ha annunciato nulla di significativo . La cosa sta diventando imbarazzante anche per i suoi sostenitori del Pd, ormai costernati anche loro dall’atteggiamento, inerziale del Presidente del Consiglio: tanto è vero che – non sarà sfuggito a Palazzo Chigi – per la dichiarazione di voto sulla legge di bilancio al Senato il gruppo dem ha fatto parlare Luigi Zanda, notoriamente molto critico con Conte, ma ieri addirittura in rotta di collisione nientemeno che sugli strappi istituzionali che si stanno producendo con questo governo e chiudendo il discorso citando la frase sul «debito buono» coniata da Mario Draghi, lo ‘spauracchio’ dell’avvocato del popolo. Anche il Nazareno è dunque sempre più perplesso sull’azione del presidente del Consiglio e anche dei propri ministri (Gualtieri – Amendola), i quali a loro volta si sentono schiacciati fra l’inerzia contiana e la distanza di Zingaretti dalle questioni di governo. E’ per tutto questo che forse Matteo Renzi pensa di avere gioco facile e quotidianamente bombarda il palazzo e minaccia di uscire dalla maggioranza, vale da domanda per far che? Il presidente del Consiglio, come per sfida, risponde che se succede vuole portare la crisi in Parlamento: non pare una grand cosa, è prevista istituzionalmente e messa così pare giusto un’operazione mediatica per fare il bis della sceneggiata dell’anno scorso con Matteo Salvini. Mentre la speranza di quasi tutto il Parlamento è che Renzi stia bluffando, ma non si può non chiedersi però quali carte abbiano in mano gli altri: a sentirlo davanti agli affreschi di Villa Madama e ai giornalisti che bene o male lo incalzavano pare proprio che Giuseppe Conte non avesse nessun punto in mano. E forse in cuor suo lo sa anche lui. Mai come in questi giorni, mentre aspettiamo l’arrivo di una possibile crisi nella calza della Befana, emerge una unicità italiana in Europa, un fattore “I” (come Italia) che ci rende diversi dai Paesi cugini. Tutti, nel triennio fra il 2013 e il 2016, sono stati terremotati dall’avanzata populista. Tutti hanno trovato strade per ristrutturare i rispettivi sistemi politici e le filiere che storicamente li governavano. Noi no. E adesso che l’Europa finalmente cambia, ora che c’è il respiro – le risorse, il congelamento dei vincoli di bilancio, la missione comune contro il virus – noi abbiamo una sinistra e una destra palesemente afone, incapaci di imbastire un discorso convincente sul nostro futuro post-pandemico. La sinistra, dopo l’esperienza renziana, si è affidata a una restaurazione della vecchia Ditta che mostra in questi giorni la modestia della sua visione e l’incapacità di uscire da una gestione all’insegna dell’ordinaria amministrazione. Con maggiore ambizione, la gran parte delle 61 critiche del documento di Italia Viva – tutte quelle legate alla vaghezza dei propositi e all’effetto collage degli interventi – sarebbero state evitate. E Giuseppe Conte, in conferenza stampa, non avrebbe avuto bisogno di eludere le domande sui ritardi di pianificazione con la generica rassicurazione che il governo «ha lavorato anche d’estate». La destra non sta messa meglio. Rivendica elezioni, o forse in alcune sue parti spera in un esecutivo di salvezza nazionale che la rimetta in gioco. Ma dov’è il suo progetto? Dove sta il NextGenerationEu alternativo che proporrebbe al Paese qualora il suo piano A – al voto subito per poi insediarsi a Palazzo Chigi – andasse in porto? Fino a pochi anni fa era considerato un dovere, per le minoranze parlamentari, stilare fondate contro-proposte nei momenti cruciali della vita della Repubblica. Adesso, la coalizione Lega-FdI-FI sembra paga della pioggia di micro-interventi stappata al governo con la manovra – Salvini se ne è pure vantato: «Abbiamo ottenuto misure per 10 miliardi» – e del tutto indifferente a lavorare su qualcosa di più impegnativo e consistente. Anzi i partiti tradizionali sono così inefficienti da generare loro di fatto un’instabilità permanente degli assetti di potere, persino nel pieno di una pandemia, mentre ovunque i colossali finanziamenti del NextGenerationEu consolidano i governi e generano speranze. Tutto fa pensare, insomma, che la genesi del “Fattore Italia”, vada cercata all’interno dei partiti tradizionali e al loro atteggiamento sostanzialmente rinunciatario verso sfide più larghe della conquista del potere o della sua conservazione. Sventata o costituzionalizzata in qualche modo l’onda del populismo grillino, manca il fiato e la voglia di far altro: altrove l’hanno trovata, noi sembriamo troppo stanchi, tutti, per sperare in qualcosa di meglio del rapido arrivo del semestre bianco…

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