La disuguaglianza non aspetta la politica…

Resto sempre sorpreso… della sorpresa, che i nostri politici mostrano ogni qualvolta gli analisti del voto italiano fanno risaltare non più e non tanto quanto il voto sia espresso da uno specifico blocco sociale o da un altro, in cui si divide la società (..mi pare, la dimostrazione del venir meno – non so poi quanto ciò sia giusto – di una lettura della società per classi), ma quanto invece il voto venga letto, oggi, rispetto a categorie trasversali delle società come quelle di “giovani” e “anziani”. Una novità (si fa per dire) in voga già da qualche tempo e discendente dal fatto che “archiviate” le ideologie (non ci sarebbe più la lotta di classe e destra e sinistra non avrebbero più senso… ecc. ecc.) che hanno caratterizzato il conflitto politico dell’otto e novecento.  Oggi, la statistica demografica è diventata la scienza principale con la quale leggere per appunto i fenomeni sociali… a fronte del mix rivoluzionario rappresentato nell’occidente: dal fatto che negli ultimi 40 anni si è verificato un allungamento media della vita senza uguali nella storia degl’uomini, così come mai prima ci sono stati tanti cambiamenti scientifici e tecnologici che hanno cambiato il Lavoro, la sua quantità e la sua qualità. Vengo subito al dunque. L’esame dell’esito referendario del 4 dicembre scorso ha chiaramente mostrato come hanno votato i giovani e sentenziato che: “abbiamo una generazione perduta”  sicuramente di fatto dimenticata (gli under35) oltre a altri due capitoli prioritari: l’eterna disparità Nord-Sud del Paese e l’ampliamento del tasso di povertà dentro i nostri confini, con l’emergere di diseguaglianze sociali profonde. Questo, sottolineava anche Dario Di Vico sul Corriere della Sera di qualche giorno fa scrivendo che: “Nel dibattito politico occidentale è ormai largamente accettata la tesi dello stretto collegamento tra incremento delle disuguaglianze e nuovi orientamenti elettorali.” Paradossale, in verità appare, il fatto che, come qualche osservatore replica a ciò (…per altro giustamente) come in virtù del grande balzo di Pechino nell’ultimo decennio, alla fine, anche in questo quarto di nuovo secolo che va trascorrendo, la povertà nel mondo sia diminuita… Peccato però che i sistemi elettorali restino nazionali e che di conseguenza le nuove middle class cinesi non possano votare per la stabilità dei regimi democratici occidentali. Quindi senza una quadratura globale del circuito disuguaglianze-politica non rimane evidentemente che rimboccarsi le maniche e affrontare i problemi. Con un’avvertenza: non occorre solo dotarsi di una bussola per la navigazione in alto mare e quindi mettere insieme le analisi sulla critica della globalizzazione, l’impatto delle tecnologie e la ricognizione dello stato delle democrazie, bisogna anche metter giù un’agenda sul breve. Perché se la storia si è messa a correre, le disuguaglianze sembrano aver fretta anche loro e se non intravedono quantomeno dei correttivi rischiano di generare contraccolpi irreversibili. Vorrei evitare accuratamente qui l’uso del termine «populismo» perché nell’ultimo periodo è diventato un contenitore di troppe cose diverse tra loro, compreso il vecchio ”tic” della superiorità antropologica che come è noto porta a definire “deplorevoli” tutti quelli che non fanno parte dell’universo dei colti. Vale la pena anche ricordare come la disuguaglianza italiana, poi, abbia i suoi tratti peculiari: da noi non ci sono figure come l’operaio bianco del Wisconsin pro-Trump o la tuta blu di Sunderland pro-Brexit, anzi i metal- meccanici italiani pochi giorni fa hanno firmato unitariamente — compresa la Fiom dunque — un contratto di lavoro giudicato come una svolta nella storia delle relazioni sindacali italiane. La disuguaglianza italiana è composta in primo luogo, come già accennato, da una generazione dimenticata (gli under35) e poi presenta come capitoli prioritari le disparità Nord-Sud e il tasso di povertà.

Per quanto riguarda il Mezzogiorno è saggio attendere le linee di intervento che saranno esplicitate dal neo-ministro Claudio De Vincenti, quanto alle politiche contro l’indigenza è presto detto: è stata approvata una legge delega ma mancano i decreti legislativi e le risorse stanziate sono chiaramente insufficienti. L’agenda è fin troppo chiara. Tornando invece ai temi della disoccupazione giovanile non si può non ripartire dal jobs act, concepito a suo tempo da Matteo Renzi come una ricetta che avrebbe cambiato il corso degli avvenimenti (ma non è andata così). La ripresa è stata assai più fragile di quanto avesse immaginato, il rimpallo di cifre tra Istat, Ministero del Lavoro e Inps ha generato la sensazione di poca trasparenza sui numeri e il risultato è stato che il consenso giovanile ha soffiato sulle vele del No. Inoltre, la creazione di posti di lavoro drogando il mercato con gli incentivi di esenzione contributiva, togliendo ogni presidio di tutela ai licenziamenti arbitrari, introducendo i “vauchers” quale strumento retributivo di massima flessibilità… rende ulteriormente instabile la rilevazione dei dati occupazionali con il risultato di dare al Job Act un segno totalmente negativo rispetto ai due concetti base pensati come pilastri filosofici su cui si è detto di voler riformare un mercato del lavoro ormai totalmente precario (soprattutto per i giovani) e mandarlo verso un mercato del lavoro dove l’occupazione a tempo indeterminato e a tutele crescenti… vedesse diminuire sensibilmente il dato della disoccupazione giovanile. Purtroppo non è stato così. E le stesse previsioni sulle assunzioni per il 2017 non sono molto incoraggianti: secondo i dati diffusi recentemente proprio dall’agenzia Manpower per i primi tre mesi dell’anno nuovo solo il 3% delle imprese consultate stima di aumentare l’organico, il 90% non si attende variazioni e il 9% prevede addirittura un calo. E’ vero che saranno investiti 730 milioni per il solo 2017 per la totale decontribuzione delle assunzioni under29 e al Sud ma siamo comunque nell’ambito di quelli che i tecnici definiscono stimoli emergenziali. Per incidere sulla disuguaglianza e i suoi riflessi, psicologici prima e politici dopo, serve una prospettiva strutturale: ai nostri giovani va data concretamente la sensazione che dal giorno in cui terminano la scuola alla mattina in cui finalmente trovano un lavoro la Società degli Adulti non li perde d’occhio. E’ questa percezione che manca e che genera un disorientamento totale, la paura di non farcela mai. Cosa può fare la politica o addirittura un governo transitorio per circoscrivere questo dramma o almeno invertire la tendenza? Può far molto, può dedicarsi anima e corpo a organizzare l’orientamento dei giovani, la loro formazione, a evitare disallineamenti tra domanda e offerta, a invitare le imprese a mettersi al passo con la digitalizzazione dei processi e l’incremento del capitale umano. E’ quasi un’agenda del buonsenso, ci vuole solo la volontà di tradurla in fatti…

“E’ sempre tempo di Coaching!” 

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