Lavoro: è un dramma che non interessa più a nessuno (forse nemmeno ai lavoratori)

A fronte del problema del lavoro e dei nuovi problemi del lavoro, la verità è che nessuno, né la politica, né i sindacati, né i lavoratori stessi (vedi protesta dei rider per le mance) ha un’idea, un progetto, una proposta sul lavoro. Il Primo Maggio è sempre stata la seconda festa civile italiana per importanza dopo il 25 aprile, con una grande differenza. Di solito sul Primo Maggio non si litiga. Non c’è partito che faccia battute urticanti. Non c’è figura estremista che si metta dall’altra parte rivendicando gli assalti alle Camere del Lavoro oppure la bastonatura dei braccianti e degli operai in sciopero. Si dirà che la giornata è collegata a un valore impossibile da disconoscere: anche il fascismo evitò di abolirla ma la accorpò al 21 Aprile, il Natale di Roma. Tuttavia sempre più, il Primo Maggio dei nostri tempi suscita modeste discussioni soprattutto per un altro motivo: di questa parola ‘lavoro’, nessuno sa più cosa veramente farne, cosa veramente dirne, persino cosa veramente pensarne. E forse non a caso, da molto tempo, la celebrazione nazionale della ricorrenza consiste in un Concerto Rock e non in una manifestazione politica a tutto tondo che richiederebbe una piattaforma, un’elencazione di priorità, di obiettivi rivendicativi chiari dei quali c’è scarsa traccia nei sindacati come nelle loro controparti. Non c’è quindi più conflitto? Non c’è quindi più contesa? Non ci sono quindi più idee oltre a una sommaria manutenzione dello status quo, o alle generiche rassicurazioni, come quelle ascoltate proprio il primo maggio dopo la diffusione dei dati sull’incremento dello 0,2 per cento del Pil. Sul tema più controverso del momento, il salario minimo, sindacato e imprenditori hanno la stessa convinzione: esiste in tutta l’Unione ma a noi non serve. Sulla lotta al precariato, in occasione del recente Decreto Dignità, hanno mostrato la stessa perplessità, sostenendo che le norme impositive sono controproducenti. Sulla robotica e la robot-tax di cui molto si è parlato in Europa non risultano grandi opinioni specifiche. Se non quelle contenute nel progetto industria 4.0 di Calenda memoria, riprese recentemente dal leader dei metal meccanici della Cisl Marco Bentivogli nel suo libro “Contrordine Compagni” Ed. Rizzoli – con un curioso occhiello esplicativo del contenuto: “manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro e dell’italia”. Un pregevole tentativo di dire che la tecnologia se toglie lavoro lo da anche con nuove professioni, secondo me omette un ragionamento importante attorno al “saldo” occupazionale se la tecnologia elimina tre milioni di posti di lavoro obsoleti e restituisce 1 milione di posti di lavoro ad alta professionalità, i due milioni di disoccupati che non lavorano più e si aggiungono a qualche altro milione di disoccupati… non diventano o rimangono o aumentano il problema occupazionale del lavoro che viene sempre meno?  D’altronde non esistono nemmeno proposte definite sulla fuga di braccia e cervelli – arrivata ormai a 300mila unità l’anno – dall’Italia all’estero, o su altre rilevazioni sconcertanti degli ultimi tempi: i diecimila medici italiani scappati in un decennio verso Paesi e stipendi più confortevoli; le cucitrici pugliesi dell’alta moda che fanno asole a 2 euro l’ora; le persone inattive tra i 25 e i 29 anni arrivate al 34 per cento. Qualche giorno fa un mio giovane conoscente mi ha raccontato di essere stato preso per lavorare da steward in un grande evento romano. Lo pagheranno 4.50 euro l’ora per otto ore al giorno. 36 euro per una settimana, totale 252 euro. Era molto contento, si è fatto pure raccomandare per ottenere il posto (la concorrenza era enorme) e senz’altro andrebbe benissimo se fosse un ventenne. Ma ha 27 anni, è laureato con tanto di specialistica, e ha pure un lavoro “normale” (cioè specializzato ma intermittente, a 200 euro a settimana) che nei giorni della manifestazione lascerà a un suo cugino alimentando così un circuito amicale in cui tutti guadagnano qualcosa come si può e quando si può. Cosa può raccontare il Primo Maggio a questo ragazzo? Cosa possono dirgli il sindacato italiano e l’impresa italiana? E la politica, che cosa dice? Lunedì scorso, per l’intera giornata, la Camera ha discusso l’introduzione dell’educazione civica nella scuola secondaria. Grazie a Radio Radicale è stato possibile ascoltarne gran parte, con decine di interventi di tutti i partiti e citazioni a valanga – dal valore degli alpini ai rischi del cyberbullismo – sulle cose che si dovrebbero insegnare ai ragazzi per farne buoni italiani. Non uno che abbia richiamato la necessità di informarli sui loro futuri diritti di cittadini, di persone e di lavoratori, che pure sono parte essenziale della nostra Costituzione e sono un oggetto sconosciuto alle giovani generazioni. L’idea stessa di avere dei diritti pare tramontata, dimenticata. L’ultimo anello della catena produttiva nazionale, i riders della consegna a domicilio, di recente hanno avviato una battaglia per rivendicare più mance dai clienti ricchi: l’idea di chiedere un trattamento economico più onesto dai loro padroni non li ha nemmeno sfiorati. È probabile dunque che lo svuotamento del Primo Maggio sia un fenomeno ormai irreversibile. La percezione del valore della festa sta scomparendo anche tra i suoi destinatari. Il racconto del lavoro, specialmente quello giovanile, è da tempo monopolizzato dall’ideologia della Silycon Valley e dal caporalato digitale. Ma esistono in Europa classi dirigenti che hanno saputo interpretare i tempi nuovi regolandoli, almeno in parte, evitando il fenomeno che in Italia ha trasformato l’occupazione in una gara al massimo ribasso. Di recente c’è stato molto dibattito tra gli economisti sul preteso sorpasso della Francia rispetto all’Italia come secondo Paese manifatturiero del Continente: si è scoperto che l’Italia resta effettivamente seconda dopo la Germania, ma solo perché il valore aggiunto della sua produzione (cioè il valore totale meno i costi di produzione) è maggiore visto che il costo orario del lavoro in Italia è un quarto più basso di quello francese. È questo che ci ha conservato il nostro primato in classifica, del quale possiamo continuare a inorgoglirci salvo chiederci come si fa a rilanciare i consumi interni se i salari (altra analisi recente) restano fermi a vent’anni fa: appena 400 euro l’anno in più rispetto ai 5.000 della Germania e ai 6.000 della Francia. L’afasia del sindacato, dell’impresa, della politica nella Giornata del Lavoro è dunque pienamente comprensibile. L’unica cosa che potrebbero fare è un generalizzato e irrimediabile mea culpa, posto che dagli anni Novanta a oggi si sono dedicati ad attività conservative dei rispettivi poteri spacciandole un po’ tutti per riformismo avanzato. Sono stati intervistati. Sono comparsi sui palchi. Hanno fatto dichiarazioni e promesse. Ma alla fine hanno messo in mostra solo le rispettive fragilità, peraltro confermate da un dato politico elementare: solo in un deserto di proposte e azioni un’idea banale e piuttosto rozza come il reddito di cittadinanza poteva risultare tanto rivoluzionaria da spianare tutto. Solo in uno scenario di senescenza e declino il 30 per cento degli italiani può pensare che la priorità del Paese sia tener fuori gli immigrati anziché tener dentro i nostri laureati, camerieri, tornitori, medici e falegnami, ho come ci dice l’ormai dilagante leader della lega Matteo Salvini la priorità della scuola italiana sta nel ritorno del “grembiule” in quanto a un Paese migliore occorrono: “ordine e disciplina”… è proprio vero: “il ‘lavoro’ è un dramma che non interessa più nessuno… forse nemmeno ai lavoratori”.

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