Leopolda: Renzi, aveva promesso di ritirarsi, non l’ha fatto perché doveva finire di distruggere il PD…

L’ex segretario dopo aver smantellato il PD dall’interno si appresta a dargli il colpo di grazia con la recente scissione e quel che dirà dal palco della Leopolda numero 10…  Era già tempo che si sentiva il rumore di fondo di un lavorio, in questo partito. il rumore di un lavorio sotterraneo proprio dentro il Partito Democratico, che è cresciuto fortemente fino a divenire assordante, subito dopo pochi giorni dalla fiducia del Conte2, guarda caso una volta ottenuta la nomina dei ministri e dei sottosegretari renziani. Cos’è stato? Un ulteriore inganno di Renzi o il prezzo consapevole pagato da Zingaretti & Soci nel tentativo di mantenere ancora unito il Pd? L’ennesima “furbata” di Renzi con per risposta l’ennesima “ingenuità” dell’attuale vertice piddino? . La scissione è diventata invece la realtà amara ed è divenuta il tema del momento. Nel prossimo week end di ottobre quello dal 18 al 20 esattamente la prossima domenica, in chiusura della Leopolda, Matteo Renzi forse svelerà definitivamente, i suoi piani su cui ha lavorato per mesi insieme a Ettore Rosato e Ivan Scalfarotto… illustrando all’ “Italia viva” la sua visione “strategica” sul futuro del  Paese. E vedremo ciò che la kermesse renziana produrrà, in fatto di ascolto e di possibile acquisizione di consenso nel Paese. Intanto,    si sente ancora il rumore di un lavorio anche dell’altra parte, nel Pd rimasto, quello che aveva e ha ancora paura, tanto da costringersi a toni dimessi quando non al silenzio. Si aggrappa alle tende dell’accampamento precario di questo governo, “regalato” dall’improvvido Salvini nel clima ferragostiano che lui ha vissuto “fuori di testa” sulle spiagge italiane. E il Pd  fatica e non vuol parlare di questa  ennesima scissione dal partito. Che fino all’ultimo ha cercato di scongiurare: “Dobbiamo sperare che la scissione sia solo un brutto sogno”. “Non avrebbe senso” “Fermati l’Italia non capirebbe”. Nonostante le  “suppliche” all’unità di Zingaretti & Soci, la scissione c’è stata. Su tutto è prevalso il cinismo di Renzi. Qualcuno l’aveva anche data come una vicenda scontata, una divisione  possibile e …consensuale. Ma non è stata così: “Non esistono separazioni consensuali in politica”.  Non può soprattutto essere consensuale questa separazione, anzi forse avrà anche qualche conseguenza giudiziaria, con tutte le complicazioni del caso. Costruita su dispetti e personali vendette. La divisione dei beni tra Pd e renziani: “Renzi porta via al Pd, 41 parlamentari e… 3 milioni di euro.” Questi sembrerebbero i primi costi della scissione. Infatti, si presenta già come qualcosa di più complicato di una spartizione tra ex conviventi. Non c’è vero divorzio, perché non c’era mai stato matrimonio tra renziani e “gli altri”, non si sono mai amati e hanno sempre avuto in mente un progetto diverso. Questo è piuttosto un “fidanzamento” finito male, dove ci si lascia carichi di ricordi in comune e di amarezza per la speranza svanita. Non c’è obbligo di restituire a ciascuno il suo, si fa se si vuole, per civiltà. E in questa commedia della scissione renziana, per la civiltà non ci sarà alcuno spazio. La posta in gioco è troppo alta: silenziosamente, senza alcun lealtà,  Matteo Renzi ha portato al governo due ministri e cinque sottosegretari. Come fa notare qualcuno all’interno della dirigenza del Partito Democratico, alcune di queste nomine sarebbero state pensate apposta “per lasciare nel Pd, senza quindi seguire Renzi subito nella formazione dei suoi gruppi”, alcune personalità di maggior carisma e peso politico, in attesa per l’appunto della Leopolda… dopo la quale, la scissione, vivrà ulteriori step e chiaramente ulteriori uscite. La sceneggiata del “sono io che me ne vado” portata avanti da Renzi per mesi si è avviata così al capitolo finale. Quello che nel Pd non vedono, o forse non vogliano vedere, è che anche la politica è fatta di sentimenti umani, che sono gli stessi che troviamo nelle relazioni tra le persone. E Renzi cercava e cerca rancorosamente la sua vendetta. Francamente risulta difficile e anche un po’ noioso parlare di “nuova scissione”. Matteo Renzi è stato da sempre il primo degli scissionisti. Il primo che ha mostrato di volere e poter fare senza un partito, anzi di voler fare contro il partito. Ha trasformato il Pd in un comitato elettorale, in un autobus per Palazzo Chigi che quando si arriva lo si parcheggia fuori e pazienza se l’autobus fa la ruggine. Se c’è il crollo degli iscritti nei circoli, se l’aumento è solo dei like e dei retweet sui social. “Renzi è stato un pessimo segretario”, hanno detto, dopo, in molti mentre sono stati a guardare lo smantellamento del partito, per poi alle elezioni manifestare il problema dell’assenza di una struttura che non viaggi solo sui “like” della rete e sulle comparsate in tv dell’ex segretario. Purtroppo l’errore di chi ha pensato di poter fare a meno di un luogo di confronto delle idee è stato alla fine accettata da tutto il gruppo dirigente. Un partito che ha iniziato a prediligere la fedeltà al leader più che la lealtà. La fedeltà non è la più specchiata delle virtù ma la più ambigua, presuppone una riconoscenza nei confronti di chi ti ha beneficiato, si paga in termini di obbedienza ed è insomma una cessione in termini di libertà e di azione. Se tu sei fedele nei confronti di chi ti ha concesso quella poltrona non sei più libero. La lealtà invece prevede il libero dissenso. All’interno del Partito gli attacchi a chi la pensava diversamente erano diventati pane quotidiano durante la stagione Renzi, ricordate: Pippo Civati è stato spinto fuori per primo, poi sono usciti Bersani e D’alema. Poi è stato messo in ombra Richetti, poi si è litigato con la Serracchiani, con Martina, Calenda, Minniti e si è rotto definitivamente con Gentiloni, Intanto i militanti e gli elettori si allontanavano. Le crepe erano sempre più visibili fuori dalle stanze del Nazareno. Quell’idea di partito non corrispondeva più al sentire comune e invece di alimentare l’identità e l’appartenenza ha fomentato la disillusione. Renzi ha così perso le amministrative prima, il referendum dopo e infine le elezioni… Ha giurato di lasciare la politica, per poi rientrare subito dal portone principale nei panni del “Senatore semplice di Scandicci”. Poi ha boiccottato la segreteria della reggenza di Martina. Finito in minoranza nel partito ha mantenuto la maggioranza nei gruppi parlamentari e mangiando popcorn, impedito qualsiasi contatto del Pd coi 5S.  Intando lavorava per lasciare il partito con i suoi fedelissimi. E ora, per impedire le elezioni, si è lanciato nell’ultimo disperato tentativo di “tornare a galla” e ha fatto la mossa del cavallo: “Ok all’alleanza con il M5s”. Avendo bisogno di un tempo minimo per prendere fiato e preparare il terreno prima di fare scacco matto… E anche oggi, si litiga e si discute come se gli elettori non esistessero, come se fossero ospiti. Eppure qualcosa si è inceppato, sembra quasi che giri tutto alla rovescia adesso. Basta scorrere l’elenco della fiducia nei leader nel nuovo atlante politico Demos che mostrano come Matteo Renzi – tracotante, rumoroso, vivace e social – risulti più in basso di un politico silenzioso capace come per sortilegio di sparire dalle menti un secondo dopo esser scomparso dalla vista ovvero: Roberto Speranza. Infatti il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si conferma il preferito dagli italiani – anche se in calo – con il 44% dei consensi. Segue Matteo Salvini che recupera punti ed è testa a testa con Giorgia Meloni (34 vs 33), poi c’è il segretario dem Nicola Zingaretti e, infine, il leader del M5s Luigi Di Maio (24) seguito da Silvio Berlusconi (19) da Roberto speranza (16) e infine da Matteo Renzi (14). E’ l’ulteriore segnale che di Renzi la gente non ne può più? Chissà? Nella scissione è stato prima anticipato da Calenda e Richetti… loro si che sembrano “scappati di casa”, E se la grande sceneggiata del Partito di Renzi dovesse realizzarsi, potrà contare come sempre sui soliti transfughi, i traditori, i deboli, gli incerti, gli opportunisti o gli idealisti che decidono in queste ore la sorte del partito, la durata del governo, la fine di Conte. Strategie e trabocchetti che però non riescono a vedere oltre i palazzi del potere. Peccato, perché sarebbe ora di mettersi in contatto con la realtà e farci i conti al netto dei propri destini individuali. Non andrà così. Si continua con un gran fracasso sulla manovra economica, per farsi propaganda. Ma ormai non importa più a nessuno. Matteo Renzi alla fine potrà solo certificare la mancanza di visione che viene da quell’incapacità di ascolto che lo ha sempre contraddistinto. Dopodiché ognuno pagherà il conto a un elettorato stanco e disilluso. Un conto amaro per una ragione molto semplice: agli italiani, agli elettori, ai cittadini nella realtà non importa nulla della scissione di Renzi e del suo gruppo. Per gli elettori del Partito Democratico la scissione era già stata decretata alle ultime primarie: un milione e seicentomila persone hanno votato Nicola Zingaretti per chiedere una svolta. Quel voto, che sembra distante secoli ma che risale invece a solo qualche mese fa, diceva poche cose semplici: non ci importa niente delle vostre beghe delle risse dei vostri errori, dello squallore di certe vostre miserie. Fate valere la politica, daccapo. Prendete i nostri voti, il nostro tempo, le nostre mattine di domenica regalate ad un’idea che non muore: l’idea che il Paese siamo noi, e voi a rappresentarci. Adesso datevi da fare. Dicevano chiaramente dunque no anche alla precedente stagione renziana. Oggi, la fuoriuscita del suo protagonista rappresenta solo il capitolo finale, scontato e stanco di una storia già scritta da tempo. L’impressione che si ha… è che probabilmente tutto finirà col classico: “muoia Sansone con tutti i Filistei…”

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