Life 3): con il populismo è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo…

… … Tutto ciò porta necessariamente a un confronto tra populismo e problemi veri della vita. Occorre necessariamente un approfondimento e  lo voglio dire chiaramente è soprattutto materia per “menti forti”. Si tratta di affrontare sulle questioni sollevate nei precedenti post un amplio discorso sull’invidia, come motore dello scontento che serpeggia nelle società occidentali moderne… mirabili a riguardo alcune considerazioni del Principe Antonio De Curtis, in arte Totò. Ovviamente il populismo, a prescindere dal segno politico, continua a non essere la soluzione a nessuno dei grandi problemi che l’umanità si accinge ad affrontare. Ricordate: “Incapacità di produrre ricordi nuovi: eccola, la formulazione essenziale dell’impasse postmoderna” (Franklin M. Fisher). Abbiamo visto come la psicologia cognitiva ci offra gli strumenti per capire come invidia e paura portino il consenso politico ai movimenti populisti. Eppure i populisti, con il loro approccio emotivo, non offrono soluzioni ai grandi temi del mondo moderno, quali ad esempio: globalizzazione e cambiamento climatico. Ad un’analisi razionale, il populismo appare più come parte del problema che non la soluzione. Utilizziamo per una miglior comprensione di ciò un Tool della cassetta degli attrezzi di un percorso di Life coaching. Proviamo a fare questo semplice esperimento. Chiediamo ad un amico o ad un conoscente di scegliere tra due tipi di vacanza: Vacanza A) una settimana con la famiglia in un posto piacevole (al mare, se vi piace il mare. In montagna, se vi piace la montagna) dove non succederà nulla di eclatante, ma vi rilasserete sicuramente. Vacanza B: due settimane nel posto più entusiasmante e costoso che possiate immaginare, tutto pagato, da soli o con la compagnia che volete voi, con la possibilità di indulgere nei vostri vizi più goduriosi. Con una clausola importante, però! Dopo la vacanza dovrete bere una pozione che cancellerà totalmente il vostro ricordo di quelle due settimane. Video, foto e resoconti della vacanza saranno ugualmente cancellati. Sarà come se quella vacanza non ci fosse mai stata. Dopo qualche domanda per investigare sulla possibilità di aggirare la clausola, il soggetto del vostro esperimento si arrenderà: “Scelgo la vacanza A) che senso avrebbe una vacanza bellissima se poi non ci rimane niente da raccontare e neppure da ricordare?” Siate sorpresi? Una vacanza “memorabile” è certamente la vacanza migliore a cui si possa aspirare quasi per definizione: ma la misura della sua bontà è però data proprio dal periodo di tempo per cui ve la ricorderete. Le storie danno senso alla nostra vita in qualche modo. La nostra capacità di ricordarle e raccontarle è alla base di una vita soddisfacente e del nostro benessere. Togliete la narrazione ed ecco tolto l’ingrediente che rende la vita degna di essere vissuta un po’ per tutti. Non è una coincidenza che tutti scelgano la vacanza A. Meglio una vacanza normale piuttosto che una eccezionale che non saremmo in grado di ricordare. Questo “esperimento” non è farina del mio sacco. Questi meccanismi mentali sono stati illustrati dalla psicologia cognitiva dei già citati: Daniel Kahneman e Amos Tversky. Kahneman stesso ha fatto l’esempio della vacanza in un noto Ted Talk per spiegarci l’experiencing self (l’Io che vive di esperienze) e il remembering self (l’Io che ricorda), due aspetti della nostra psiche che, incredibilmente, agiscono uno all’insaputa dell’altro. Come illustrato tempo fa in un’intervista al New York Times, la differenza tra experiencing self e il remembering self non è un mero esercizio filosofico. Essa è la chiave con cui il premio Nobel Daniel Kahneman ha decifrato la felicità umana, dopo anni di ricerche sull’argomento (e secoli di fallimenti da parte della filosofia). Se pensiamo a noi stessi come ad un ‘io unico’ in grado di decidere cosa ci piace o cosa non ci piace, è l’assunto errato che, fino ad oggi, non ci ha permesso di dire cose sensate quando ci siamo chiesti cosa sia la felicità… che non è certo definibile con un semplice like. Infatti, le nostre vite sono fatte di momenti più o meno piacevoli che scorrono senza che quasi ce ne rendiamo conto. Se qualcuno ci chiedesse come ci sentiamo in questo momento, sarebbe il nostro experiencing self a rispondere… Se la domanda riguardasse come siamo stati durante un evento passato, invece, a rispondere sarebbe qualcun altro: il remembering self ! In quest’ultimo caso, difficilmente il resoconto rispecchierà la nostra esperienza molto fedelmente. I momenti salienti che ricordiamo, belli o brutti che fossero, dominerebbero il nostro racconto. Il resoconto sarebbe frutto della narrazione che intorno a quei momenti abbiamo costruito per poterli ricordare. Spiegava Kahneman nell’intervista al New York Times citata: “È il Remembering self a comandare, non l’ Experiencing self. […] Per quanto possa sembrare strano, io sono un tutt’uno con l’io che ricorda, mentre l’Io che vive la mia vita mi è quasi estraneo.” Conseguentemente potremmo quasi affermare che noi “siamo” la narrazione che facciamo della nostra vita e degli eventi che la circondano. E non parlo solo delle nostre vacanze, ma dell’intero meccanismo che dà un senso all’intera nostra esistenza. A sostegno della tesi di cui sopra potremmo citare Gabriel García Márquez – Premio Nobel per la letteratura nel 1982- in “Vivere per raccontarla” l’autobiografia che lo scrittore colombiano scrisse nel 2002, quand’era ormai settantenne: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla“. Questo aiuta a comprendere meglio la domanda sulla vacanza preferita altro non è che un thought experiment, un esperimento mentale finalizzato a porre i due io in antitesi diretta, facendoli emergere nitidi davanti a noi… Teniamo questo aspetto ben presente perché è la chiave che ci permetterà di comprendere il comportamento di tutti quanti noi. Nella parte 2, di questo impegnativo post, avevo cercato di spiegare meccanismi che portano al successo dei movimenti populisti tramite la psicologia cognitiva. Nell’era dei social media, la comprensione della narrazione e dei bias cognitivi è lo strumento principe per decifrare le evoluzioni della società, intesa nel senso più globale possibile del termine. Una delle principali conclusioni dell’articolo era proprio questa: “i populisti inneggiano allo scardinamento di pezzi dello status quo e delle istituzioni che lo sottendono, come se queste fossero responsabili di una condizione esistenziale fattasi insostenibile. Vasti strati della popolazione appoggiano idee anti-sistema spesso balorde e impraticabili, senza accorgersi che esse potrebbero essere nefaste, in primo luogo, proprio per loro”. Scusate l’autocitazione. Il post ha avuto una certa risonanza e ha ricevuto molti commenti, chiaramente non tutti positivi, inclusi quelli di qualche succube di Dunning-Kruger che non si è reso neanche conto di essere egli stesso la prova vivente di quello che avevo scritto nell’articolo. Ma non tutti i commenti critici sono stati sciocchi… Sì, sicuramente sì! E’ possibile che anch’io sia influenzato da narrazioni che offuschino la mia capacità di analizzare la realtà. A questo punto il discorso si fa interessante e, al tempo stesso, più complesso. Cominciamo con dei punti fermi. Se paragoniamo la situazione attuale a quella di trenta, quaranta o cinquant’anni fa, in generale, stiamo meglio o peggio? Questa è una domanda difficile perché, come ci ha insegnato Kahneman, la risposta dipende in larga parte dalla narrazione ‘mitologica’ che abbiamo costruito del passato, oltre al peso che diamo alle sensazioni personali del momento. Il divario tra queste e la risposta data dalle metriche classiche con cui tradizionalmente misuriamo la qualità della vita può essere abissale… Ho letto di recente un libro abbastanza ‘mallopposo’ che dimostra, dati alla mano, che la condizione umana è migliorata tantissimo secondo un po’ tutte le metriche. Per dirne una, ci basta guardare il grafico delle aspettative di vita per renderci conto che pure in Africa le persone hanno oggi l’aspettativa di vita che nei paesi occidentali abbiamo raggiunto negli anni 50. Una delle tante statistiche che mostrano come nell’ultimo secolo le cose vadano molto meglio. Il libro in questione è “Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso”, dello psicologo americano (nonché divulgatore scientifico) Steven Pinker. L’autore dipinge, dati alla mano, una visione ottimista del mondo. Pinker guarda la vita dell’uomo contemporaneo valutando diversi aspetti: Cosa si può comprare con uno stipendio. Le cure mediche a cui la popolazione ha generalmente accesso. Il livello di istruzione generale. Le aspettative di vita nei diversi paesi e così via. In estrema sintesi: a livello globale, stiamo generalmente meglio ora di quanto siamo mai stati in passato. Non solo. Pinker spiega che tutto questo è stato reso possibile dalla globalizzazione, ovvero l’architettura mondiale grazie alla quale ogni paese produce i beni che gli vengono meglio e li esporta a basso costo un po’ in tutto il mondo. Pinker afferma anche che le differenze di censo e di classe sociale hanno funzionato per creare benessere anche per i più poveri, e che se il ricco guadagna molto e gli altri guadagnano qualcosa, in generale è una cosa buona: alla fine tutti ci hanno guadagnato… Personalmente penso che l’ottimismo di Pinker vada preso con le molle… Se da una parte è vero che il sistema basato su libero mercato, diritti civili e libero movimento di persone e merci ha funzionato bene fino ad oggi, dall’altra nulla ci garantisce che la formula continuerà a funzionare all’infinito. Il problema ecologico è la prima conseguenza di una crescita che non può essere illimitata. Oltre a quello, gli sviluppi tecnologici tumultuosi a cui assistiamo avranno conseguenze enormi sul lavoro e su altri aspetti della nostra società. Ma non solo. Se consideriamo l’Italia, vediamo, ad esempio, che il debito pubblico ha portato ad un calo della spesa sanitaria e con esso un certo calo delle aspettative di vita medie dei cittadini italiani, peraltro piuttosto alte rispetto a quelle di altri paesi. Ora con la pandemia da Covid-19, molti aspetti di questo “miglioramento” verranno spazzati via… le lancette dell’orologio girano in senso antiorario… si torna indietro nelle condizioni di vita come mai è avvenuto nella storia dell’umanità. Detto questo, è sicuramente vero che al netto del virus, oggi non si sta male se paragoniamo la vita di un individuo medio a quella di anche pochi decenni fa. Prendiamo quindi per buona, con beneficio di inventario, la tesi che, secondo un po’ tutte le metriche classiche, l’Umanità stia molto meglio ora di come stava prima. Come mai allora i conti non tornano e i populisti riescono ad arruolare milioni di ‘incazzati’ un po’ in tutti i paesi occidentali? Logica vorrebbe che una persona che vede soddisfatti i suoi bisogni primari meglio di quanto il sistema facesse alcuni decenni prima fosse relativamente contenta della situazione. Qual’è il meccanismo che invece porta una persona con un lavoro decente ad indossare un “gilet giallo” e ad andare a sfasciare tutto? Oppure a votare convintamente partiti e personaggi platealmente inadeguati che non hanno proposte politiche praticabili, ma solo una vaga promessa di cambiare tutto senza neanche spiegare come? Se avessi davanti a me Pinker, gli chiederei: “Come puoi dire che le persone sono felici se si dichiarano insoddisfatte e, soprattutto, agiscono come tali?” Al solito, la psicologia spiega in modo abbastanza semplice ciò che svariate narrazioni buffe non spiegano affatto. In particolare, occorre capire tre aspetti che giocano un ruolo fondamentale nel formare le narrazioni e i convincimenti di ogni persona. Ho già accennato della dicotomia experiencing-self / remembering-self di Kahneman. Questo è uno degli aspetti. Gli altri due sono l’invidia e la paura. L’invidia e la paura possono alimentare narrazioni buffe e portare milioni di persone a percezioni non coerenti con la realtà “misurata”. Da lì a scelte dirompenti, anche irrazionali, il passo è breve. Ciò è tanto più vero in un mondo in cui media e social sono uno strumento formidabile (e disponibile a chiunque) per influenzare le menti tramite i bias cognitivi. Andiamo con ordine. Per quanto riguarda l’insoddisfazione, lo stare bene noi, non è necessariamente sufficiente per essere felici. Credeteci o no: avere quanto ci basta potrebbe non essere abbastanza se quelli intorno a noi hanno di più. Specialmente se TV e social sono lì a ricordarci questa cosa continuamente. Specialmente se ci convinciamo che la felicità la portino l’iPhone da 1000 euro, le vacanze esotiche o la macchina nuova. Specialmente se arriviamo alla conclusione che nel mancato accesso a certe vanità consumistiche ci sia qualcosa di ingiusto. L’invidia è un sentimento profondo. Essa è così forte e radicata che non è nemmeno un’esclusiva umana: l’invidia è stata dimostrata nelle scimmie e anche in altri mammiferi. Un etologo olandese, Frans de Waal, è autore di scoperte sorprendenti riguardo alle scimmie e al fatto che anch’esse abbiano valori morali che, se De Waal non ci avesse dimostrato il contrario, attribuiremmo solo agli umani. Un esperimento particolarmente significativo ha posto due scimmie cappuccine in gabbie limitrofe. L’operatore indicava a ogni scimmia di restituire una delle biglie che aveva nella gabbia. Come ricompensa, ogni scimmia riceveva una fettina di cetriolo, ricompensa che entrambe trovavano adeguata per lo sforzo profuso. Ad un certo punto l’operatore ha iniziato a premiare la seconda scimmia con un più ghiotto chicco d’uva, mentre la prima continuava a ricevere il cetriolo. Ebbene, la prima scimmia si risente della cosa platealmente, tirando il cetriolo all’operatore, scuotendo la recinzione della gabbia per manifestare la sua rabbia contro l’ingiustizia subita. “Che cacchio mi hai dato? Voglio anch’io l’uva!” avrebbe urlato la scimmietta se avesse avuto il dono della parola. Evidentemente l’invidia e il senso di equità non sono una caratteristica esclusivamente umana, ma la condividiamo con altri animali. Esperimenti con cani ed elefanti hanno portato a risultati analoghi. Stando così le cose, non stupisce che anche molti umani trovino ingiusto che alcuni membri della società abbiano più di altri (in particolare loro). E non stupisce che la storia dell’umanità sia passata attraverso il marxismo, ovvero il tentativo più potente in assoluto di creare una narrazione ‘egualitarista…’

(continua)

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