Life: una scomoda verità… la disuguaglianza? Sarà sempre più una questione di intelligenza…

Oggi proviamo a discorrere di una scomoda verità, che già caratterizza da tempo le nostre giornate. Con l’avanzare della tecnologia come abbiamo ormai ben compreso (!?) cresce la complessità. Una complessità che a sua volta esclude sempre più persone dal mercato del lavoro. L’istruzione può parare il colpo, ma solo fino a un certo punto. Ecco quindi, che il mondo di domani sarà un guaio, per chi non ha capacità cognitive adeguate. Il progresso tecnologico porta con sé un cambiamento delle mansioni e delle conoscenze di coloro i quali operano per produrre beni e servizi. Questo succede da tempo immemore e gli immani sconvolgimenti dell’ultimo secolo sono lì a ricordarci che, in pochi decenni, si può passare dall’agricoltura all’industria manifatturiera e poi ai servizi, migliorando la condizione di vita media ed infatti aumentando il reddito reale di praticamente tutti coloro che lavorano. Questo non è un processo indolore: alcuni guadagnano di più, in questo processo, ed altri di meno. Alcuni persino ci perdono. In generale, scelte politiche adeguate sono necessarie per facilitare la transizione ed evitare che coloro i quali meno si sanno adattare al cambiamento apprendano a farlo e ne ricevano almeno qualche beneficio. Questa è una strada già percorsa innumerevoli volte in passato ed il problema del nostro paese è oggi quello di saper ritrovare l’ottimismo culturale, la flessibilità sociale e la dinamicità istituzionale per gestire tale transizione. La sfida che il cambio tecnologico oggi ci costringe ad affrontare, quindi, non è quella della “sparizione” dei lavori e delle professioni a cui l’ultimo secolo ci ha abituati – a riguardo buon ultimo è arrivato i giorni scorsi anche Davide Casaleggio il quale – in una intervista/proclama al Corriere della sera – s’arrischia d’imitare John Maynard Keynes predicendo che nel 2054 il lavoro “così come lo conosciamo”, non ci sarà più. Quest’ultima previsione, devo dire, quasi quasi la sottoscrivo anche io visto che, nel 2018, il lavoro così come lo conoscevano nel 1982 non esiste più: il cambio tecnologico, da sempre, cambia quel che gli umani fanno quando lavorano… ma nell’insieme l’intervista correlata da un video appare come una grande “corbelleria” per dirlo in modo gergalmente garbato… ma per evitare di non far cogliere a pieno a chi legge, quel che questo “neo-guru de casa nostra”  sta promulgandoci (vedi anche polemica con Samsung) quel che dice e ci mostra è una grandissima cazzata! Vero è che la Comunicazione “moderna” ci ha purtroppo assuefatti a ben peggio… Concentriamoci invece sui due problemi che questo tipo di cambio tecnologico sta generando: (1) la domanda per nuove forme, mai esistite prima, di lavoro umano e, (2), la difficoltà che molti incontrano nell’adattarsi a tale cambiamento e ad utilizzarlo in modo tale da migliorare le proprie condizioni di vita. È importante sottolineare che questi due processi stanno avvenendo in maniera non dissimile, anche se forse quantitativamente più rapida, a quella con cui essi si sono realizzati nei decenni e secoli precedenti. Nel 1940 in Italia gli occupati nell’agricoltura erano il 50% del totale, mentre oggi sono meno del 5%: nulla di nuovo sotto il sole. Il che non implica, ovviamente, sia opportuno ignorare il problema, anzi. Implica invece che questo processo di cambiamento va affrontato con lo stesso ottimismo, lo stesso realismo e, soprattutto, la stessa volontà di cambiamento con cui lo affrontammo e lo gestimmo positivamente allora… Occorre avere una memoria storica molto debole (tipica di questo ‘giovanilismo’ di governo) per scordare le enormi migrazioni dalle campagne alle città, avvenute durante il secolo scorso nei paesi che oggi chiamiamo “avanzati”, e la conseguente sparizione di quasi tutti i lavori più diffusi all’inizio del 1900, sostituiti da altri allora inconcepibili. La risposta a queste gigantesche trasformazioni si fondò su tre pilastri. L’ampliamento ed il miglioramento dell’educazione che cambiò le professionalità di cui la popolazione era in possesso. L’utilizzo dei risultati della ricerca scientifica per migliorare la qualità della vita nelle città e risolvere i problemi di trasporto, congestione ed inquinamento che venivano emergendo. La progressiva flessibilizzazione del rapporto fra individuo, professione e luogo di residenza che ci ha portato ad essere capaci sia di cambiare posto di lavoro che professione e stile di vita quando opportuno. Il che non implica, ovviamente, sia opportuno ignorare il problema, anzi. Implica invece che questo processo di cambiamento va affrontato con lo stesso ottimismo, lo stesso realismo e, soprattutto, la stessa volontà di cambiamento con cui lo affrontammo e lo gestimmo positivamente allora. E qui casca l’asino non solo della Casaleggio e del suo proprietario ma dell’intero movimento culturale che egli rappresenta ed oggi, purtroppo ci governa… Non è con il disprezzo della scienza, con lo sminuimento della professionalità e del merito, con la distruzione per mancanza di finanziamento e considerazione sociale di scuola ed università, con l’apologia di un passato tanto inesistente quanto inventato, con la chiusura nelle frontiere nazionali ed il rigetto delle nuove energie umane che in Italia vorrebbero vivere, con il rifiuto del cambiamento e del rischio, con la richiesta di sussidi al far niente o al mantenimento dell’esistente, che possiamo gestire positivamente questo processo . Al contrario, dovremmo fare l’esatto contrario. Ovvero l’esatto contrario non solo di quanto Davide Casaleggio predica al Corriere ma anche, soprattutto, l’esatto contrario di quello che questo governo – la maggioranza del quale fa a lui riferimento – sta facendo ed intende fare. Il mondo non intende invertire rotta né la invertirà, per la semplice ragione che centinaia di milioni di persone stanno uscendo da millenni di miseria grazie al cambio tecnologico ed alla crescita. La rotta dobbiamo invertirla noi italiani mostrando il nostro genio al mondo. Solo questo ci permetterà di inventare i milioni di nuovi posti di lavoro – meno pesanti, più creativi, soddisfacenti e remunerativi di quelli che stanno sparendo – e di cavalcare questa nuova onda del cambiamento tecnologico mondiale, anziché venirne travolti perché paralizzati dalle nostre paure ed insicurezze su cui dei cattivi predicatori hanno costruito e stanno rafforzando il loro potere signorile… l 2019 è quindi l’anno del riscatto? L’approfondimento di lavori che, secondo alcuni, dovremmo rimpiazzare con sussidi per coloro che li “perdono” – bensì un’altra, più complicata e, forse, davvero nuova. Chiamiamola sfida della complessità crescente: il progresso tecnologico richiede, senza alcun dubbio, conoscenze professionali sempre più sofisticate e sempre più difficili da apprendere e padroneggiare. Ogni nuova tecnologia richiede nuove conoscenze che ne permettano l’utilizzazione e l’acquisizione di queste conoscenze richiede sia una maggiore istruzione sia un utilizzo maggiore delle nostre capacità cognitive. In altre parole: il cambio tecnologico che le invenzioni degli umani ha prodotto nel corso dei secoli ha sostituito, decennio dopo decennio, lo sforzo fisico – la forza bruta, per così dire – con l’intelligenza e la conoscenza. E qui sta, forse, il problema nuovo, che è quantitativo prima che qualitativo. Le capacità cognitive sono diventate il fattore cruciale nel determinare se una persona sia o meno in grado di utilizzare proficuamente le nuove tecnologie e conoscenze. L’istruzione può permettere a tutti, almeno in principio, di acquisire le conoscenze necessarie al proficuo utilizzo di nuove tecnologie. Con “proficuo utilizzo” intendiamo qui due cose: da un lato la capacità di operare efficacemente con le nuove “macchine” e, dall’altro, la capacità di utilizzare le nuove conoscenze per produrre “macchine” (ovvero, metodi di produzione) più avanzati e profittevoli. Questa operazione di adattamento è possibile, in principio, per tutti: basta avere accesso all’istruzione adeguata,  questo è il compito primario che le politiche pubbliche devono assolvere – e le capacità cognitive adeguate ad apprendere le nuove conoscenze. E qui, forse, casca l’asino. Casca l’asino, ovvero si determina il problema veramente nuovo, perché le capacità cognitive non sono distribuite uniformemente fra le persone. Lo stesso, sia chiaro, vale per la forza bruta: nei secoli che furono le persone fisicamente più forti comandavano o, comunque, avevano la capacità di produrre più di altri e questo permetteva loro una condizione sociale superiore. Senza alcun dubbio la forza bruta, da sola, non è mai bastata: essere “svegli” è sempre stato utile assai. Il fatto è che, negli ultimi decenni, l’essere svegli di mente e rapidi di comprendonio ha assunto un ruolo predominate. Per dirla brutalmente: le capacità cognitive sono diventate il fattore cruciale nel determinare se una persona sia o meno in grado di utilizzare proficuamente le nuove tecnologie e conoscenze. Una montagna di evidenza empirica ci insegna che la distribuzione delle capacità cognitive – fuor di metafora: il Quoziente d’Intelligenza – segue una curva gaussiana. Quindi solo una percentuale relativamente piccola di persone si colloca ai due estremi della curva, il grosso sta nel centro. Il progresso tecnologico sposta progressivamente, da sinistra verso destra, il confine fra coloro che non sono in grado di utilizzare proficuamente le nuove tecnologie e quelli che invece sono capaci di farlo. Finché quello spostamento avviene nell’intervallo fra, diciamo, 70 ed 80, si creano dei problemi ma questi sono quantitativamente minori. Le sfortunate persone incapaci di usare proficuamente le nuove tecnologie sono in numero relativamente limitato e le più svariate forme di solidarietà sociale ed umana sono state capaci di gestire in un modo o nell’altro (a volte con gravi conflitti, cerchiamo di non scordarlo) le transizioni tecnologiche emerse negli ultimi due secoli. La situazione si fa progressivamente più complicata mano a mano che il progresso tecnologico sposta la soglia di “proficuo apprendimento” oltre un certo intervallo: fra 80 e 90 la curva si impenna sostanzialmente il che si traduce in un numero drammaticamente crescente di persone che hanno difficoltà obiettive ad usare proficuamente le nuove tecnologie che altri, tipicamente quelli nella coda destra della medesima curva, vanno introducendo. Qui sta forse, oggi, il problema nuovo. Che non è qualitativamente nuovo ma lo è quantitativamente. Perché un conto è cercare di trovare metodi di sostentamento e ruoli sociali utili per un 5-10% della popolazione e ben altra cosa è farlo per il 30-40%. Chiunque oggi si dedichi all’insegnamento, alla formazione professionale o all’inserimento nel mondo del lavoro è certamente cosciente della rapida emergenza di questo problema: le nuove tecnologie sono, per molte persone, difficili da apprendere ed utilizzare. Questo crea una barriera drammaticamente alta non solo alla mobilità occupazionale ma alla pace sociale stessa. Questo fenomeno, tanto obiettivo quanto drammatico e rapidamente emergente, sta creando una nuova frattura sociale. Essa è diversa da quella a cui ci eravamo abituati, fra capitalisti e proletari. La divisione che sta rapidamente emergendo è fra coloro che hanno le capacità cognitive per utilizzare proficuamente il cambiamento tecnologico e quelli che sembrano non essere in grado di farlo. In più sembra ci sia il mercato che fa la sua parte e contribuisce a rendere la società abitata da persone sempre più diseguali. Tutto ciò l’abbiamo compreso a sufficienza ed abbiamo gli strumenti per affrontarlo? Francamente vi sono più ragioni per dubitarne: meglio, quindi, rifletterci sopra senza ipocrisie, tentennamenti e soprattutto senza ricercare soluzioni messianiche che non esistono…

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