Occupazione drogata dagli incentivi, così il governo ha sprecato 70 miliardi di euro…

Capisco ci sono le elezioni… tuttavia sarebbe un atto d’intelligenza politica, riconoscere che il Job Act non è una riforma riuscita! E la gente l’ha capito ed è alquanto irritata! Perché?
Certo il numero è da record: 17,9 milioni di lavoratori dipendenti; 15 milioni di assunti a tempo indeterminato. Un record che il governo Gentiloni e il Pd possono giocarsi in campagna elettorale in vista del voto del 4 marzo. D’altra parte è il dato più alto da quando sono iniziate le serie storiche dell’Istat, nel 1977. Eppure la macchina fatica a ripartire: le assunzioni crescono, ma la produttività rimane bassa. Proprio come i salari: senza domanda di lavoro, non ci sono né concorrenza né aumenti. E il risultato è evidente: dall’inizio della legislatura nel 2013 a oggi gli italiani che vivono in povertà – secondo i dati Istati – sono passati da 7,8 a 8,5 milioni (quasi 5 milioni quelli in povertà assoluta). Nello stesso periodo le persone a rischio povertà sono cresciute da 10,6 a 12,5 milioni di persone. Insomma l’aumento dell’occupazione non rispecchia un miglioramento effettivo della situazione del Paese, anzi sembra piuttosto nasconderne i problemi. “L’aumento degli occupati – spiega un economista italiano che lavora alla Bce e non vuole comparire – è preso a prestito dal futuro: a spingere le assunzioni sono stati gli incentivi, non la ripresa economica. Basta guardare al picco di nuovi dipendenti che si registra a dicembre quando gli incentivi sono a scadenza”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro: “I cicli economici prevedono che prima arrivi la ripresa, poi parta il mercato del lavoro. In Italia abbiamo assistito a un processo inverso: il Pil è tornato a crescere dopo le assunzioni”. Solo che a sostenere la ripresa non sono stati i consumi: nell’incertezza, le famiglie hanno preferito risparmiare piuttosto che spendere. E l’aumento del Pil, in larga parte, dipende dall’export. Forse anche per questo Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro – e presidente della Commissione Lavoro della Camera – ha più volte osservato come il Jobs act: “è stato pensato come una droga per la ripresa, ma non ha funzionato”. Alla fine “Sì è speso molto, ma non si è ridotto il costo del lavoro in maniera strutturale. Eppure è un fattore cruciale per attrarre investimenti esteri”. Insistono i Consulenti del Lavoro: “Le imprese straniere chiedono certezze. Gli incentivi a pioggia, se non diventano strutturali ottengono il risultato contrario”. Come a dire che quello che manca all’Italia è un piano di ampio respiro per lo sviluppo del Paese: dal 2014 il governo ha speso circa 70 miliardi tra incentivi all’occupazione – sotto forma di decontribuzioni – e bonus da 80 euro. Nel Paese c’è sempre stato all’interno dello schieramento di Centro Sinistra chi ha sostenuto contrariamente all’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro Pier Carlo Padoan, che con la stessa cifra si sarebbe – per esempio – potuto abbattere, strutturalmente, il cuneo fiscale (la differenza tra il costo del lavoro e lo stipendio netto di un dipendente) con il doppio risultato di aumentare il peso delle buste paga e aiutare le imprese ad assumere: “Gli incentivi – spiegano più di un economista – funzionano se le imprese assumono qualcuno che altrimenti non si sarebbero potute permettere e se i nuovi dipendenti aumentano la produttività. In caso contrario creano un effetto distorsivo perché riescono di tenere in piedi imprese decotte e non aumentano la professionalità dei lavoratori”. Anche perché nella storia recente l’aumento della produttività si è slegato dalla crescita dell’occupazione. Insomma il problema pare essere culturale: gli incentivi a pioggia servono a tenere buoni gli elettori e le corporazioni che sostengono questo o quel partito, ma purtroppo non fanno il bene del Paese. D’altra parte sono proprio questi i rilievi che arrivano dall’Unione europea quando si contesta all’Italia il poco coraggio nell’attuare riforme strutturali. I 70 miliardi di euro sotto forma di incentivi avrebbe ridotto drasticamente il cuneo fiscale (calcolato dalla Cgia di Mestre in poco meno di 300 miliardi di euro l’anno), ma avrebbero anche potuto ridurre la pressione fiscale di 2,5 punti l’anno con risultati rilevanti, soprattutto se concentrati sui redditi bassi. Per amor di verità, la scorsa primavera il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, provò a rilanciare il taglio del cuneo fiscale anche a costo di far scattare l’aumento dell’Iva, ma fu subito fermato dal segretario del Pd, Matteo Renzi: il record di occupati è di più facile comprensione per qualunque elettore, a differenza di una riforma di largo respiro in grado di dare risultati crescenti con il passare del tempo. Una concezione della politica che si interpreta solo come una leadership continuamente in campagna elettorale alla ricerca di un consenso transitorio e non invece di un reale cambiamento del Paese e della sua economia. Una tale leadership ha bisogno di vantar comunque “risultati” al di là se il “successo” è legato alla limitata efficacia di bonus e incentivi… tralasciando ogni prospettiva di miglioramento strutturale della nostra economia e della stessa occupazione…

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