PD: il congresso che verrà sarà un gran patatrac…

il congresso che verrà sarà un grand patatrac

In altri recenti post avevo segnalato le varie contradizioni presenti nel (non) ancora dibattito del (non) ancora congresso del PD… che più che del discorrere di nuove idee ancora parla pressoché esclusivamente di leadership, con Renzi e i suoi, che ormai traguardano l’assemblea di sabato prossimo e la indicazione della data vera delle primarie per decidere che fare veramente, ovvero se stare o uscire e fare un altro partito… Nel frattempo l’assemblea nazionale non si pronuncerà nel merito di alcuni cambiamenti statutari che sarebbero necessari proprio per uno svolgimento in un clima nuovo del congresso. Così, le stesse primarie PD, prima previste per la prima decade di febbraio slittano e la nuova data più probabile per il voto è il 3 marzo. Imputando la colpa alle due tornate di amministrative e regionali del 10 e del 24 febbraio prossimo, se il Pd farà slittare le primarie al 3 marzo, con il rischio (bisognerà vedere i risultati) di andare ancora anche un po’ più in là. Nulla è quindi ancora certo tra i Democratici, che sabato prossimo riuniscono l’Assemblea dei mille delegati (“il parlamentino”), che prenderà atto delle dimissioni del segretario Maurizio Martina e avvierà il congresso dove il partito si gioca il tutto per tutto dopo la pesante sconfitta alle politiche del 4 marzo. Dopo l’Assemblea, sempre sabato sarà convocata la Direzione che elegge la commissione per il congresso: a restare in carica e garantire la continuità sarà il presidente del partito, Matteo Orfini. Sono queste le procedure formali in cui si stabiliscono regole, tempi e il limite massimo entro cui si può presentare le candidature per la guida del Pd… In tutto questo tempo passato si è guardato ai sondaggi, per capire chi potrebbe essere il nuovo leader del partito. E nei sondaggi è testa a testa tra Zingaretti e Minniti. Ma è Martina il più noto. Dopo di che Martina deciderà se scendere in campo per le primarie solo dopo l’Assemblea, quindi domenica o lunedì prossimi. Marco Minniti ancora tentenna e forse deciderà anche lui a giorni per il sì o per il no. Mentre Nicola Zingaretti è in piena campagna e nei prossimi giorni in un incontro, alla stampa estera dirà la sua proposta sul voto di maggio per l’Europa. Intanto come detto, ci sono i sondaggi a fotografare i sentimenti del popolo di sinistra e non solo. Euromedia Research, la società diretta da Alessandra Ghisleri, ha rilevato tra il 7 e l’8 novembre notorietà e fiducia anche dei leader e dirigenti del PD in corsa, o pronti a correre, per le primarie. A sorpresa Martina è al primo posto per notorietà con l’86,3%, tallonato da Zingaretti all’82,2% e da Minniti al 79%. Sulla fiducia poi, secondo Euromedia, c’è un testa a testa tra Minniti e Zingaretti (39,5 e 38,1%), mentre Martina è terzo. Invece il sondaggio commissionato dalla trasmissione tv Omnibus (con metodo Cati, Cawi, Cami) è stato fatto su mille intervistati. Sempre sul fronte notorietà degli altri candidati e dopo i tre big c’è Francesco Boccia, quindi Matteo Richetti, Cesare Damiano e Dario Corallo… Ma guardiamolo un po’ più in profondità questo grande ambaradan congressuale. Partiamo dalla “clessidra” di Minniti. Sta assumendo una caratteristica amletica la sua decisione se scendere in campo o meno e quindi slitta ancora. Tanti i dubbi dell’ex ministro: il suo campo nel Pd non si è nella realtà allargato… dato le voci di scissione renziane e le loro richieste di garanzia sugli organigrammi. È un travaglio vero quello di Minniti, non una trovata comunicativa per alimentare un po’ di suspense. Politico e personale. Una situazione che offre uno spettacolo surreale, questa sorta di “minnitometro” che va in scena nei palazzi parlamentari, divenuti lo specchio di un partito avvitato in una spirale politicista e in una discussione “nascosta”, con finora un solo candidato ufficiale tra i big in campo. E due quasi candidati, col paradosso che il grande decisionista degni anni di governo al Viminale non si decide… “Minniti sì”, “Minniti no”, “si candida o non si candida”, “pare che si sta convincendo”. È questo l’argomento dei capannelli a Montecitorio: “L’impressione – dicono in molti – è che siamo avvolti in un confronto che riguarda solo il ceto politico qui dentro, mentre fuori c’è una immensa domanda, vedi la piazza di Torino. Una volta si diceva ‘extra ecclesiam, nulla salus’, ora invece la salus è tutta extra ecclesiam”. Dentro, coloro che hanno perso i fedeli e forse anche la fede, si muovono senza la percezione della straordinarietà del momento, in un congresso che, già sul nascere, pare diventato un gioco di società per pochi intimi. ”La situazione è che si litiga per l’eredità, ma col piccolo particolare che manca il de cuius”. Dice un componente dell’ex segreteria renziana. Perché, politicamente parlando ovviamente, Renzi è vivo e lotta ancora, soprattutto per la sua sopravvivenza politica più che per quella del PD. È questo il punto, all’interno di una discussione sul suo ruolo evitata e rimossa in forma pubblica. Diciamo che quando Marco Minniti ha preso in considerazione l’idea di candidarsi pensava che attorno alla sua figura, e alla sua storia, si potesse realizzare una operazione politica. E cioè: allargare il campo e andare oltre la logica della ridotta del renzismo, portando quel mondo sconfitto oltre il “come eravamo”. Tradotto, in modo un po’ tranchant: pensava che dal mondo renziano arrivasse una delega piena e che, per dirne una, Martina, a quel punto, corresse con lui, o che, per dirne un’altra, Gentiloni a quel punto mostrasse equidistanza e che, magari, qualche ex DS sentisse il richiamo della foresta. Nessuna di queste tre cose è avvenuta. Anzi, è avvenuto l’opposto. Il campo si è ristretto. A Salsomaggiore, di fatto, Renzi ha sancito una sorta di “liberi tutti”, lasciando libero sfogo a quanti, tra i suoi, si sentono ormai nel Pd ospiti in casa d’altri e lo spingono a fare un altro partito, in nome del “noi non chiederemo mai scusa”. E nulla Renzi ha fatto per addolcire la diffidenza di un pezzo del suo mondo su Minniti, vissuto come troppo autonomo “perché non è uno dei nostri”. E ancora: nei giorni scorsi Maurizio Martina ha spiegato proprio a Minniti che, per quanto lo stimi, non ha alcuna intenzione di rinunciare a correre, anche se l’ex ministro sarà in campo. E ancora: il mite Gentiloni si è schierato, definitivamente, a favore di Zingaretti come aveva fatto già fatto Dario Franceschini, che un tempo era azionista di maggioranza di Matteo Renzi, ha riunito la sua corrente Areadem e ha reso ufficiale l’appoggio a Zingaretti. Lo aveva già detto chiaramente, ma ora si sono espressi anche un centinaio di esponenti politici e parlamentari, tra cui Piero Fassino, Marina Sereni, Roberta Pinotti, Pier Paolo Baretta, Luigi Zanda, Davide Sassoli. “Attorno a Zingaretti – dice Marina Sereni (prodiana di ferro) – si può costruire una nuova fase non solo della vita del Pd, coinvolgendo forze vitali della società civile e disegnando così anche un’area progressista e democratica più ampia”. L’ex ministro Carlo Calenda, continua a brontolare e a dire che l’unità del PD passa dalla candidatura a segretario di Gentiloni. Che sia sordo? Gentiloni lo esclude e si è già schierato. Renzi non lo farebbe votare dai suoi, nemmeno sotto minaccia armata. Martina si candiderà e ha tra i suoi sponsor una parte dei renziani contrari a Minniti perché tutto sommato considerato utile a condizionare il per l’appunto il primo e disturbare comunque anche Zingaretti impedendo che uno o l’altro possano raggiungere il 50% più uno. Degl’altri candidati sé detto… Calenda se lega la sua permanenza nel PD alla leadership di Gentiloni nel partito, può già considerarsi fuori dallo stesso. Politicamente parlando, dunque, il campo di Minniti si è ristretto, né l’entusiasmo di un nuovo inizio ha preso il posto del reducismo renziano di ciò che è stato. Questo, per rimanere nei termini della politica alta. Poi c’è la bassa cucina, che sempre della politica fa parte, ovvero posti, liste e organigrammi. Perché è chiaro che il sostegno, anche se poco convinto, non è a costo zero. E i renziani hanno chiesto posti e chiave, per lasciare pochi margini di autonomia al candidato: Lotti all’organizzazione delle liste, Teresa Bellanova o Ettore Rosato come coordinatori della mozione, come forme di garanzia e di tutela del potere reale nel partito… L’auspicio di qualche segnale di sollievo doveva arrivare dalla riunione della presunta, mai esplicitata, corrente renziana, tenutasi nel secondo fine settimana di novembre a Salsomaggiore. Stando alla pura strategia, Renzi si è allargato con i comitati civici della Leopolda, ma non gli passa ancora per l’anticamera del cervello di lasciare il Pd, di certo non prima del congresso e di vedere come finirà. Fino a prova contraria rimane, certo, una scatola sempre più vuota ma con un 17-20%, che è una buona dote. Ma la previsione, dell’ex premier, del flop governativo ravvicinato – unico pretesto programmatico per avvallare un’imminente ‘remuntada’ – è sempre meno certo. Anzi, ormai si certificano tempi lunghi. Il tentativo sarà quello di arrivare dopo le elezioni europee di primavera, dove il governo sovranista-populista pensa di vincere alla grande anche nel Vecchio continente; per poi tirare fino alla elezione del prossimo presidente della Repubblica. Sarà anche per questo che la narrazione di Renzi è andata in blocco!? Il domino di interpretazioni così si arricchisce dalla modalità di gioco di Renzi, che rimane solo e troppo tattica. Sempre più appannata la sua visione strategica. Si dava per certo un Minniti candidato alla segreteria sostenuto dai renziani, invece forse è lo stesso ex sindaco di Firenze che ha qualche dubbio rispetto ad un endorsement così esagerato. Il renzismo si esprimeva unito solo quando convergeva su Matteo Renzi, oggi invece è diviso in sei o sette parti. Stupisce che Renzi invece di serrare i ranghi preferisca la dispersione dei renziani e del renzismo. Dando per scontata la certezza, comunque, di controllare ancora il partito. Forse controlla ancora i gruppi parlamentari sì, ma sul territorio dovrebbe tastare la situazione, che è cosa buona e giusta non dare mai per scontata perché i contraccolpi risultano spesso contrari a quelli sperati. Minniti è un uomo di governo. Delle istituzioni. Premier, forse. Ma leader del PD è difficile immaginarlo. Come d’altronde specularmente è lo stesso  Zingaretti. Non scaldano certo i cuori anche se i sondaggi, per fiducia li danno testa a testa e comunque ben al di sotto del 50% più uno necessari per diventare segretario del partito. Martina invece è solo il più conosciuto di tutti… avendo condotto il partito in questi ultimi 8 mesi prima da reggente e poi da luglio come Segretario. Se così stanno le cose, deve aver pensato Minniti, il punto fondamentale è il dopo: come si gestisce un partito in cui il congresso non lo vince nessuno e va fatto un accordo il minuto dopo, accordo che inevitabilmente passa per gran parte da Renzi che sta giocando su due candidature autorizzando (o subendo) i suoi (Delrio e Orfini) che sosterranno anche Martina? Un quesito che spinge Minniti a dire: “non mi candido e arrivederci a tutti”. Però c’è l’altro corno del problema. Senza la sua candidatura, a quel punto vince Zingaretti e, il minuto dopo, il PD perde un pezzo, perché buona parte di quella sala di Salsomaggiore non starà mai in un partito guidato da Zingaretti, sprezzantemente etichettato come “la riedizione dei Ds”. E il tema dell’unità del partito è un tema sensibile per uno cresciuto nel Pci com’è Marco Minniti. Così la sabbia continua a scorrere nella “clessidra” senza che la decisione sia stata ancora presa… Un Renzi che non decide ma che fa, e non fa una sua corrente dentro il partito con a fianco dei comitati leopoldini. C’è da chiedersi quale sarà la reazione del militante più accorto o del potenziale elettore da convincere. Pure quelli che sono stati obtorto collo sempre per Renzi, fino a immolarsi. La stessa corrente che c’è e non c’è, come si sentirà motivata a seguire il proprio leader? Avverte Gianni Cuperlo: “Maurizio Martina, Nicola Zingaretti, Marco Minniti. Così il congresso PD non mette le ali. Ancora si parte dai nomi e non dalle idee. Vedo troppo trasformismo. Senza apertura vera e senza la sinistra non ci sarà alcuna svolta. Facciamoci del bene!” In sintesi: è sempre più chiaro che il congresso del PD sarà un gran patatrac…

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