Politica: crescono i malumori della finanza verso il governo. L’incremento della spesa per interessi sui titoli di stato pesa sempre di più sui conti pubblici. Nelle ultime settimane gli investitori internazionali hanno alleggerito le posizioni sui Btp. Molti sono certi che: “Nel 2024 sarà sicuramente recessione…”

Nel mirino. L’Italia, ancora una volta, finisce al centro delle fibrillazioni degli investitori internazionali. Il Financial Times punta il dito contro gli emendamenti contenuti nel disegno di legge Capitali, che potrebbero limitare e condizionare i consigli d’amministrazione. Giusto per fare qualche esempio, va ricordato che all’inizio del 2022 il rendimento di un Btp decennale si aggirava intorno all’1,8 per cento. Un anno dopo si viaggiava già intorno al 4 per cento mentre in questi giorni il tasso sfiora, come detto, il 4,5 per cento. Già nel 2022 la spesa per gli oneri del debito pubblico era arrivata a 83 miliardi contro i 63 miliardi dell’anno precedente, il 2021, quando i tassi superavano di poco lo zero. Nel 2024, secondo Giorgetti, la spesa per gli interessi da pagare sui titoli di stato sarà di almeno 14 miliardi in più rispetto a quanto previsto dal Tesoro. Si passerebbe quindi da 85 a quasi 100 miliardi, ma potrebbe andare ancora peggio se i tassi d’interesse dovessero restare sui livelli attuali ancora per mesi, un’eventualità che al momento non sembra da escludere. L’incognita più grande, però, riguarda la reazione dei mercati. Se il governo non riuscisse a tenere a bada le richieste dei partiti in vista della prossima manovra e contemporaneamente si alzasse il livello dello scontro con Bruxelles sul Patto di stabilità, gli investitori reagirebbero liberandosi dei nostri titoli di stato. Il rischio Italia, allora, prenderebbe il volo e il Tesoro sarebbe costretto ad aumentare ancora i rendimenti per riuscire a piazzare sul mercato le prossime emissioni di Btp. E a quel punto la previsione di Giorgetti, i 14 miliardi in più di spesa per interessi, potrebbe rivelarsi sbagliata. Ma per difetto. Non basta un giorno di Borse euforiche, in attesa di buone notizie dalla Fed statunitense, per allontanare da Roma l’incubo del voto di sfiducia dei mercati sulla manovra in arrivo. Reduci da un paio di settimane nervose, segnate da ribassi consistenti seguiti da parziali recuperi, ieri i nostri i titoli di stato hanno chiuso la giornata in rialzo. Il barometro del rischio Italia, però, segna ancora brutto tempo. Da settimane, i grandi investitori internazionali, e anche qualche grande operatore nostrano, sono venditori di Buoni del tesoro tricolori. E infatti i tassi sul Btp, che si muovono in direzione opposta al prezzo, sono aumentati di mezzo punto percentuale rispetto a metà luglio, quando erano scesi fino a quota 3,95 per cento per la scadenza a dieci anni. Vale lo stesso discorso per lo spread, che all’inizio della settimana è tornato a superare 180 punti, circa 20 in più rispetto a due mesi fa. Ecco perché, non sorprendono allora, le parole di Giancarlo Giorgetti, che dice di temere il giudizio dei mercati più di quello di Bruxelles. Il messaggio è evidentemente rivolto ai ministri suoi colleghi, per invitarli a moderare le pretese al tavolo di una manovra finanziaria per il 2024 che si annuncia più difficile che mai. Tra meno di una settimana, il 27 settembre, scade il termine per pubblicare la Nota di aggiornamento al Def (Nadef) a cura del ministero dell’Economia ed entro il 20 ottobre Palazzo Chigi dovrà inviare al Parlamento il disegno di legge di bilancio per l’anno prossimo. Si gioca in questo mese, quindi, la partita del governo con i mercati finanziari. Se dai palazzi romani dovessero arrivare gli echi di una maggioranza divisa, con i partiti che si contendono le scarse risorse a disposizione, i grandi fondi internazionali comincerebbero a domandarsi se vale la pena puntare ancora su Giorgia Meloni. Un primo avvertimento è arrivato lunedì scorso dalle colonne del Financial Times che in una lunga analisi ha dichiarato finita, “over” la luna di miele della presidente del Consiglio con gli investitori. Non è un caso, allora, che le dichiarazioni di Giorgetti sul giudizio dei mercati siano arrivate esattamente a 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo del quotidiano londinese, un articolo accompagnato da grafici scelti con cura per segnalare la deludente performance del governo Meloni sul fronte dell’economia. Tra venerdì e sabato scorsi, invece, Giorgetti ha potuto confrontarsi con i partner europei nel vertice Ecofin di Santiago de Compostela, in Spagna, ed è molto probabile che anche questo viaggio abbia contribuito a peggiorare l’umore del ministro. Roma ha un assoluto bisogno di fare sponda con altre capitali per arrivare a un accordo che allenti le vecchie regole del Patto di Stabilità. Per arrivare a un’intesa servirà un gran lavoro diplomatico, ma i conti in netto peggioramento finiscono per indebolire la posizione negoziale dell’Italia. Anche su questo fronte il tempo stringe. Entro il 15 ottobre, il governo dovrà inviare a Bruxelles il Documento programmatico di bilancio, che riassume la manovra per il 2024, un documento su cui la Commissione dovrà esprimere un parere. I numeri lasciano pochi margini al negoziato. Per il 2024, infatti, l’esecutivo si era impegnato a ridurre il rapporto tra deficit e Pil al 3,7 per cento, contro il 4,5 per cento previsto per quest’anno. Al momento entrambi gli obiettivi sembrano molto complicati da centrare. Pesano sui conti gli oneri supplementari (imprevisti?) dei bonus edilizi che si sommano agli effetti del rallentamento della crescita del Prodotto interno, su cui va misurato il disavanzo. Inoltre, il prossimo anno non potranno che aumentare gli interessi sul debito pubblico, anche per effetto dei ripetuti incrementi dei tassi decisi negli ultimi quindici mesi dalla Bce. Un’ulteriore bocciatura che conferma le parole del ministro del Tesoro, Giancarlo Giorgetti, che ha espresso «paura» per la valutazione dei mercati finanziari. E questi, a cominciare da Citi, Morgan Stanley e Ing, vedono uno scenario dettato dall’incertezza e da una recessione che farà la sua comparsa entro la fine dell’anno. «Se non si è arrivati a un punto di non ritorno, poco ci manca». Lo sfogo di un banchiere di lungo corso, raccolto telefonicamente, evidenzia che i timori di Giorgetti sono fondati. Nell’ultimo mese la stampa finanziaria internazionale ha sottolineato a più riprese che qualcosa si è rotto fra il governo e gli investitori. E ora, «con la legge di Bilancio in arrivo, potrebbe giungere lo strappo definitivo», spiega. Opinione non dissimile da quella che è giunta, nelle ultime settimane, dalle principali banche internazionali. In una nota riservata agli investitori istituzionali, la statunitense Citi ieri ha rivisto al ribasso le stime sul Paese. Sia per l’anno in corso sia per il prossimo. Più 0,7% per il Pil italiano per il 2023, tre decimali in meno rispetto alle stime del Mef, e contrazione dello 0,6% per il 2024. «Gli effetti favorevoli derivanti dal turismo e dall’edilizia (ovvero, il Superbonus) stanno iniziando a svanire, mentre probabilmente continueranno gli elementi sfavorevoli derivanti dalla flessione del settore manifatturiero (principalmente trainata dalle esportazioni)», spiegano gli analisti. C’è inoltre la grana del deficit. Sarà, salvo sorprese, peggiorato. Concordano gli analisti di Morgan Stanley, così come quelli di Goldman Sachs. Ed è per questo, come rimarcato da Citi in un altro rapporto di ieri, che ci si chiede quale sia la ratio dietro all’emissione del Btp Valore, destinato ai risparmiatori individuali. «Può la clientela retail continuare a supportare i Btp?», si domandano gli strategist del colosso statunitense. A ottobre la Banca centrale europea (Bce) incrementerà il ritiro della liquidità esistente e, col venir meno di questo supporto, ci sarà un marcato problema di coperture. «Il tentativo di andare sul mercato con questi tassi, vendendo debito pubblico alle famiglie, non è un bel segnale. È normale che ci sia sfiducia, che peraltro ha iniziato a manifestarsi da giugno, ma che nell’ultimo mese è accelerata», fa notare un altro banchiere di lunga esperienza. E ci sono situazioni contrastanti. Da un lato, «l’economia, anche italiana, rallenta in maniera visibile, ma il mercato del lavoro rimane positivo e robusto». Dall’altro, è chiaro «che i tassi rimarranno alti per un periodo prolungato. Il pericolo di un credit crunch è reale, per questo bisogna rivedere gli strumenti come le garanzie statali e rinnovare le facilitazioni agli investimenti». E poi c’è la normativa sui crediti deteriorati, ultimo elemento di frizione tra mercati e Palazzo Chigi. Il provvedimento è «distorsivo del mercato dei capitali», ha messo nero su bianco in un recente report Patrizio Messina, presidente del Celf (Center of European Law and Finance). Le nuove norme così come sono scritte ora rischiano di «destabilizzare il sistema di gestione di recupero dei crediti» perché incidono su «operazioni già concluse e fondate su accordi vincolanti». Gli investitori sono preoccupati dalla retroattività della misura. E sono gli stessi che, a fronte di dubbi crescenti, potrebbero chiedere rendimenti più elevati nelle prossime aste del Tesoro…

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