Politica: è possibile un (nuovo) socialismo per il ventunesimo secolo? Qual è l’idea di progresso ai nostri giorni ed esiste una sinistra globale? Il fiato corto della discussione congressuale del Pd dà l’impressione che proprio non ci siamo. Un problema in più, la corruzione…

Parte terza

In tutta Europa le elezioni degli ultimi anni hanno mostrato la stessa tendenza: la difficoltà incontrata dai riformisti/progressisti nel rappresentare i ceti più deboli e al contempo l’emergere di forze populiste che occupano quello spazio politico. Oggi, occorre un complesso sforzo di elaborazione per individuare forme di capitalismo tali da rappresentare i bisogni di tutti i lavoratori… Ho già avuto modo in precedenti post pubblicati su questo Blog, di commentare la discussione che si è aperta nelle ultime settimane intorno al Congresso del PD e ai lavori del Comitato Costituente sulla necessità di importanti chiarimenti a riguardo. Primo, perché il Congresso sia davvero un momento “costituente per il nuovo Partito democratico” – come scritto in grande evidenza sul sito internet del PD – è necessario che l’elaborazione congressuale sia collocata all’interno del processo di trasformazione delle socialdemocrazie europee degli ultimi anni. C’è quindi bisogno che la sinistra italiana, o meglio il Pd che la rappresenta con maggior credibilità, entri nella discussione in corso a livello globale sulla crisi del capitalismo e sui suoi grandi mali: globalizzazione nella sua peggior accezione, diseguaglianze ormai intollerabili, finanziarizzazione spinta all’estremo. Deve inserirsi al più presto e a pieno titolo nel processo riformatore in corso in buona parte del mondo, dove si cercano di identificare e correggere gli eccessi sopra menzionati. Il Pd, non lo ha fatto e anzi è in forte e colpevole ritardo, un comportamento rivelatosi altresì autodistruttivo. Il pensiero di autori come Joseph Stiglitz e Thomas Piketty deve essere studiato approfonditamente, interiorizzato e trasformato possibilmente in un pezzo di programma politico che riposizioni il lavoro e i lavoratori dipendenti nonché i lavoratori precari e i disoccupati, i pensionati la popolazione indigente più in generale come un polo di attenzione delle politiche e dell’attività del partito democratico.   Solo in questo modo infatti si potrà affrontare una riflessione strutturale, che appare quanto mai necessaria dopo i due peggiori risultati di sempre (2018 e 2022) del principale partito della Sinistra alle elezioni politiche, e non un mero momento di sostituzione dell’ennesimo Segretario senza alcun cambiamento sostanziale. Inoltre, per evitare la tanta confusione che si è alzata dopo la proposta di modifica del manifesto del PD, in particolare sul ruolo della Sinistra verso la regolazione del mercato, va chiarito subito al netto delle strumentalizzazioni politiche, che il socialismo democratico se preferite: le socialdemocrazie, non rifiutano certo il capitalismo (non è vero che sta riaffiorando nella discussione congressuale del Pd alcuna tesi anti-capitalistica nel PD, nessuno pensa di tornare al PDS), ma ultimamente si vanno percependo che le nuove forme del capitalismo globale sono un grande pericolo per le nostre Società.. Il neoliberismo selvaggio non produce solo scarti ambientali, ma anche scarti umani, come non smette di ripetere papa Francesco. A livello globale, l’1% delle persone possiede oltre metà dell’intero patrimonio planetario e ogni giorno un milione e mezzo di esseri umani rischiano di cadere nella miseria. E’ come se il Capitalismo lavorasse contro il Capitalismo. La crescita di povertà e ineguaglianza degli ultimi 30 anni non è solo un problema di welfare, ma anche conseguenza di un modello di sviluppo che ha perso di vista la centralità dell’economia reale rispetto alla finanza. E Thomas Piketty con il suo “Il Capitale nel XXI secolo, spiega sostanza e rischio che corriamo se non ci ragioniamo e introduciamo alcuni correttivi necessari. Da questo punto di vista, come afferma l’ex governatore della banca centrale indiana Raghuram Rajan nel libro “Il terzo pilastro”, Stato e mercato non riescono da soli ad affrontare questi problemi sociali. Sono sicuramente le comunità locali a essere indispensabili. Insieme a un mercato regolato e a un sistema politico-istituzionale democratico ed efficiente, va messa in circolo in modo diffuso la cultura della sussidiarietà. In Italia in particolare da ormai molti anni i partiti di sinistra trovano maggiore consenso tra le classi sociali meno esposte a tali rischi e nei grandi centri urbani, più che nelle periferie del paese. Sebbene questi comportamenti elettorali trovino un tendenziale riscontro nei dati, tale percezione si è assolutizzata e ingigantita a tal punto che in una parte della società i partiti di sinistra vengono percepiti come forze che trovano la loro identità nell’establishment e la loro ragione nella conservazione del potere. Come si può spiegare questa eccessiva rappresentazione e quali cambiamenti le socialdemocrazie dovrebbero adottare in prospettiva? Probabilmente la principale ragione sta nel sostanziale ritardo delle socialdemocrazie europee a interpretare le trasformazioni economiche e sociali legate all’attuale modello di capitalismo. In gran parte infatti, tranne rare eccezioni, il dibattito all’interno dei partiti socialisti europei e certamente nel PD è rimasto ancorato a un manifesto programmatico e valoriale antecedente alla attuale fase. A metà degli anni ’90, quando si assisteva ad un momento di crescita economica e occupazionale in gran parte d’ Europa si è pensato che il mercato potesse rappresentare il migliore strumento regolativo, non solo per garantire sviluppo, ma anche per operare riequilibrio sociale, con necessità di pochi correttivi. Se tale ipotesi poteva essere sostenuta in una fase di crescita economica e occupazionale, la lunga congiuntura negativa che stiamo vivendo cambia completamente lo scenario, poiché in assenza di significativi interventi nella regolazione di mercato non si avrà maggiore occupazione per tutti, ma solo maggiori disuguaglianze ed erosione di diritti sociali per i più vulnerabili. La storia e il successo delle socialdemocrazie stanno nella proposta di una regolazione del mercato tramite l’intervento dello Stato per proteggere i meno privilegiati: quello che è stato chiamato il modello di ‘capitalismo democratico’, a partire dal secondo dopoguerra, è la base del modello sociale europeo e del suo Welfare State. La fase attuale è però profondamente diversa, non solo rispetto al secondo dopoguerra, ma anche rispetto al 2007, quando nacque il PD. Non solo perché la lunga crisi economica, la pandemia e la guerra stanno mutando completamente lo scenario sociale ed economico a livello globale. Ma anche perché negli ultimi quindici anni,  la crescente finanziarizzazione dell’economia e le trasformazioni tecnologiche hanno radicalmente modificato il modello di capitalismo, che richiede oggi una nuova e maggiore regolazione per evitare crescenti iniquità. Un modello che oggi assume forme tali da rendere molto più complessa l’individuazione dei rischi a cui sono esposti i lavoratori e dunque gli strumenti regolativi più adatti per tutelare i più vulnerabili. C’è di più: le caratteristiche della cosiddetta società della conoscenza hanno trasformato a tal punto l’organizzazione del lavoro da segmentare i rischi a cui sono esposti i lavoratori, difficilmente oggi tutelabili come “classe per sé”. Siamo ben lontani, dunque, dalla fase in cui Edward Palmer Thompson ebbe a dire “la classe operaia non sorse come il sole, ad un’ora determinata. Era presente alla sua propria formazione”. Oggi occorre un vero e complesso sforzo di elaborazione per individuare le forme di capitalismo democratico tali da rappresentare i bisogni di tutti i lavoratori e avanzare una proposta capace di regolare il mercato per evitare nuove e crescenti disuguaglianze tra chi ha diverse opportunità alla nascita. Ecco, se il Congresso della principale forza della sinistra riformista italiana, partendo dalla revisione e dall’adeguamento – che non vuol dire stravolgimento – delle sue proposte programmatiche e valoriali, saprà cogliere questa sfida, sarà all’altezza di rappresentare uno dei temi su cui è da tempo chiamata a misurarsi l’Europa stessa. E allora tornerà probabilmente anche a convincere molti elettori… Si dice che il Partito democratico debba trovare una sua identità più definita, ma finora (come ho avuto modo più volte di accennare in altri post, qui nel Blog) il dibattito ha riguardato solo problemi come le alleanze e le correnti. Sarebbe interessante, invece, sapere come la pensano coloro che si propongono per l’incarico di Segretario su alcuni temi essenziali proprio per l’identità politica di un partito riformista di sinistra e che quindi il PD non può certo ignorare (riformista di sinistra, che il riformismo liberale che poi è liberista… non c’entra proprio nulla con il riformismo in generale). Che il PD debba trovare un’identità lo dicono tutti. Lo ha ripetuto anche Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia-Romagna che si è candidato a Segretario, evocando un “partito dei territori”, formula che però non significa niente in termini di linea politica. E di identità definita hanno parlato anche vari altri esponenti di quel partito (Nardella, Ricci, De Caro) e molti altri che però non hanno poi dato seguito al discorso con qualche indicazione concreta che permetta di capire in quale direzione questa identità la si stia cercando, e si sono poi limitati a dichiarare il loro appoggio a Bonaccini. Un’uscita pubblica sui contenuti è venuta invece da un gruppo che si definisce “I laburisti”, che ha pubblicato sul Foglio (e il mezzo è già un messaggio) due intere paginate per esporre il loro programma. Basterebbe leggere le firme per intuire quale sia. Oltre a Marco Bentivogli, l’ex segretario della Fim-Cisl che firma l’intervento, tra i firmatari ci sono Enrico Morando, che da sempre incarna l’anima più liberista del Pd; Pietro Ichino, da anni portabandiera delle proposte più liberiste in tema di mercato del lavoro; Marco Leonardi e Tommaso Nannicini, i due economisti di punta del periodo renziano ed estensori tra l’altro del Jobs Act; Stefano Ceccanti, il costituzionalista tra i protagonisti della riforma istituzionale di Renzi che fu bocciata dal referendum; e altri nomi di quella che fu la corrente renziana. L’ex segretario non c’è più (ma nella realtà è l’eterno convitato di pietra), ma molte delle idee di cui si fece portavoce sono ancora presenti minoratemene nel partito. Nel capitolo sul lavoro, indicato come “il tema fondamentale”, si dice che “è l’indicatore dello stato di salute della condizione umana” e si invoca “un lavoro di qualità per tutti e non solo per una élite”, ma le proposte restano vaghe. Un po’ più chiare sono le proposte di riforma istituzionale, che ipotizzano anche soluzioni alternative. Comunque, le storie personali parlano più delle pagine scritte, e francamente il progetto appare quello di un “renzismo senza Renzi”, ossia la formula che in passato ha portato il Pd sicuramente lontano dall’area della sinistra storica… e che evidentemente anche nelle elezioni del 25 settembre u.s., ha tenuto molti ex-elettori lontani dal voto al Pd. Al momento le candidature alla segreteria del Pd sono tre. La parlamentare Paola De Micheli, la prima a scendere in campo; Il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini; ed Elly Schlein, già sostenitrice di Pippo Civati alle primarie del Pd che furono vinte da Renzi, poi europarlamentare, vice di Bonaccini e ora dopo il voto del settembre scorso siede da Deputata a Montecitorio. Quello che appare fino ad oggi, è il fiato corto della discussione congressuale del Pd… l’impressione è che proprio non ci siamo… Le elezioni del 25 settembre sono state uno dei risultati più drammatici per il centrosinistra italiano che, come coalizione, non è pervenuta. Anzi, il Pd, che è o dovrebbe essere parte fondamentale di una coalizione alternativa alla destra, pur non avendo perduto molti voti in percentuale a differenza di Lega, Forza Italia e cinque Stelle è considerato il primo e unico perdente. In quanto perdente addirittura in partenza, perché è stata assente la sua capacità politica di costruire alleanze che potessero vincere… Ecco qui un primo quesito, domandiamoci: si può costituire un’alleanza, una coalizione, senza una precisa ed evidente linea politica da parte del partito che dovrebbe esserne il promotore? La risposta che è venuta dagli elettori è stata chiara: assolutamente NO!! Ora, visto che stanno andando verso un Congresso che definiscano di rifondazione o ”costituente” secondo le due principali “sensibilità” politiche che caratterizzano la storia del Pd, c’è un’ altra domanda obbligata: il Pd attuale è in grado, così come è strutturato, di esprimere una nuova e definita linea politica? Partendo dal fatto che il partito maggiore di opposizione oggi è proprio il Partito democratico. Che ci sono anche altre forze di opposizione, ma solo il Pd ha una struttura di partito in termini di presenza territoriale, procedure e complessità organizzativa. Non vi sembra importante chiedersi se è possibile riformare un partito senza modificarne la sua organizzazione interna? Un partito non può essere un mero collettore della «voce» dei cittadini, il megafono di «quel che vuole la gente»: un partito ha il compito di formare l’opinione pubblica, di orientare il dibattito politico, di immettere idee e valori nella discussione pubblica. Certo, all’interno del partito stesso si può e si deve discutere, ci si scontra, si cerca di formare un orientamento comune, si definiscono infine quali siano le linee prevalenti. Ma la chiave di tutto è il circuito tra la discussione pubblica interna al partito e le procedure di legittimazione delle decisioni democratiche. D’altronde il partito è organizzazione. Organizzazione di interessi ed elaborazione di politiche. Ma è anche organizzazione tout court. Organizzazione di persone, di pratiche e risorse. Come si decide? Chi decide cosa? Chi agisce? Nonostante questo Congresso venga presentato come un Congresso di riforma, di rifondazione, o come dicono molti una “costituente” di un nuovo Partito democratico e della sua piattaforma valoriale e politica – questo non è vero né possibile – e nemmeno sufficiente – se non si pensa prima in maniera profonda e sistemica a una riorganizzazione dell’organizzazione del Pd. Infatti, i contenuti, la linea politica sono e saranno sempre influenzati e limitati dalla forma organizzativa del Partito… È questo un fatto intrinseco di tutte le organizzazioni… Si rischia di essere tediosi a citare lo statuto del Pd, ma è necessario per sollevare alcune questioni critiche allo statuto modificato nel settembre del 2021…

(continua)

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