Politica: è possibile un (nuovo) socialismo per il ventunesimo secolo? Qual è l’idea di progresso ai nostri giorni ed esiste una sinistra globale? Il fiato corto della discussione congressuale del Pd dà l’impressione che proprio non ci siamo. Un problema in più, la corruzione…

Parte quarta

Nello statuto si delineano gli organismi fondamentali: il Segretario/Segretaria (anche se una donna non lo è ancora mai stata), la Segreteria, la Direzione nazionale e l’Assemblea nazionale. E anche i compiti di tali organismi e come vengono nominati e composti.  Vi si accenna brevemente tralasciando il dettaglio, su come si compongono detti organismi, la composizione dell’Assemblea nazionale (articolo 6 commi 1 e 2) parte da 600 componenti eletti ai quali si aggiungono di diritto ben altri 400 e più membri. Ecco che l’Assemblea, dunque, può raggiungere dimensione ciclopiche: a conti fatti, oggi, è sopra il migliaio di membri. Una prima considerazione: oggi, i due rami del Parlamento italiano – anche grazie al voto del PD – vede in tutto 600 componenti fra senatori e deputati. L’Assemblea, almeno da statuto, è importante perché dà “indirizzo della politica nazionale del Partito” (art. 6, comma 2). La Direzione nazionale è definita come organo di esecuzione degli indirizzi dell’Assemblea nazione ed è organo d’indirizzo politico (art 11. Comma 1). È composta da 124 membri eletti (64 da Assemblea nazionale) e 60 dai livelli regionali (art. 11 comma 2). Ma la Direzione non è di “solo” 124 membri, ci son un’altra trentina di membri di diritto (art. 11 comma 3). Quindi la Direzione nazionale raggiunge i 150 membri. La Segreteria è l’organo collegiale che “ha funzioni esecutive” (art.10), può essere composta da un minimo di 12 a un massimo di 20 membri. Dunque, altra domanda obbligata: un’assemblea nazionale di più di mille componenti può veramente discutere ed elaborare idee o rischia di essere solo un ‘palcoscenico’ che rappresenti la pluralità di identità del Pd? Ha un ruolo di indirizzo, un ruolo di rappresentanza o – nel peggior caso – di coreografica testimonianza? Una Direzione nazionale di più di 150 membri può avere un vero ruolo di indirizzo politico ed esecuzione. Come fanno 150 persone ad indirizzare un partito? Come fanno ad incontrarsi ogni due mesi come da statuto? Il Partito democratico sembra aver seguito una logica tutta interna di rappresentare tutti per far posto a tutti e non scontentare nessuno. Ma dietro al mantra “la differenza è una ricchezza” si celano gravi problemi strutturali. Per non perdere questa presunta ricchezza si fa posto pro-quota a ciascuna componente o corrente che dir si voglia, negli organi dirigenti, a partire dai circoli che poi, a valanga, trasmettono numeri e componenti negli organismi provinciali, regionali e infine nazionali. Può anche sembrare questo, seppur imperfetto, un metodo democratico, se non fosse che, in realtà, a guardar bene il percorso non è dal basso verso l’alto, ma proprio viceversa, perché sono i capi corrente nazionali che tengono le fila di questa organizzazione e che, sostanzialmente, si perpetua in una progressiva ossificazione. Se le cose sono così e sono così: è un ‘gargarismo’ il perenne lamento del si devono chiudere le correnti… non vi pare? Questa prassi organizzativa porta con se, un immobilismo sulle scelte politiche e sulle riforme necessarie perché altrimenti creerebbe l’insorgere di un conflitto perenne a sorta di guerra civile. Ma poi la guerra civile ritorna proprio per via dell’immobilismo. Scegliere di non gestire i conflitti interni e le proprie contraddizioni attraverso l’istituzionalizzazione dell’ambiguità – grazie a procedure organizzative arzigogolate – tende solo ad accentuare l’ineluttabilità del conflitto e un violento sfibramento dell’organizzazione stessa. I numeri enormi degli organi centrali e le loro relative dinamiche rischiano di portare a effetti nefasti non solo per la produzione di idee e posizionamenti politici, ma anche per la selezione della classe dirigente. Il rischio è di mandare via e non attrarre intelligenze ed energie che sono refrattarie a procedure definite da complicate liturgie che si esplicano entro perimetri e percorsi rigidi. Che le persone indotte ad attraversare procedure e percorsi estenuanti le si prendano per stanchezza o per i “fondelli”, il risultato è lo stesso: in entrambi i casi il Pd ci perde. Dunque, l’organizzazione non solo influisce sui contenuti ma anche su chi vuole far parte del partito stesso e conseguentemente di chi vuole rappresentare. Il Partito democratico deve pensare a come gestire e organizzare il proprio conflitto interno: non deve essere timido e temere che questo conflitto possa fare male al Pd stesso. Finora, tuttavia, è stato fatto l’opposto e si è creata e mantenuta un’organizzazione complicata e ciclopica dove tutti appaiano rappresentati, ma dove è quasi impossibile produrre decisioni senza ambiguità. Se l’organizzazione è troppo complessa ed elefantiaca il conflitto fra tesi e politiche diverse non è possibile in maniera trasparente e costruttiva. Le scelte, quelle importanti, verranno alla fine prese dunque da pochi che per qualche ragione – non cristallina e di dubbia legittimità – contano ben oltre le idee che non hanno. Il Pd non può più pendolare fra unanimità di facciata e situazioni emergenziali: le procedure decisionali e gli aspetti organizzativi del Pd – chi e come discute, chi e come decide, chi e come agire – devono essere a partire dal congresso in corso ridiscussi e semplificati. Va da se che per modificare il modo di fare politica occorra anche ripensare la dimensione degli organi rappresentativi e la loro composizione.  Un esempio, occorrerebbe:  fondare o se volete rifondare un centro studi del Partito democratico per migliorare il chi e come si discute nel Pd. Le idee di un partito e le sfide che deve affrontare hanno bisogno di un’infrastruttura organizzativa permanente per lo studio e la creazione di proposte. E per formare anche la classe dirigente. Non si può delegare totalmente la produzione di conoscenze e di politiche da intraprendere a think tank esterni. Sono esistite nella Sinistra e nel Pd esperienze fruttuose su alcune tematiche nel creare analisi e proposte, ma sempre grazie all’impegno e alla generosità di alcuni individui, anziché organizzare strutturalmente risorse, metodi e diffusione delle analisi e proposte. Bisogna, ripensare criticamente anche le “primarie”, la procedura che apparve a suo tempo come grande soluzione ai problemi decisionali del Pd ed è ancora onnipresente nello statuto del Pd. Primarie che sono pensate per essere usate per decidere l’individuazione a candidato Presidente del Consiglio (art. 5, comma 3), la seconda fase della candidatura a Segretario nazionale (art. 12, comma 2), i candidati alla carica di sindaco e presidente di Regione (art. 24) e la selezione di candidature per le Assemblea rappresentative (art. 25). Le primarie non possono essere la scorciatoia organizzativa per risolvere difficoltà decisionali e i possibili conflitti di chi e come si decide. Segreteria e Direzione nazionale ridimensionate – e in coordinamento con le segreterie regionali – dovrebbero discutere, decidere ed agire. Una Segreteria che può avere fra 12-20 membri (sempre, comunque, troppi) non deve rappresentare solo le anime del Pd, ma avere le migliori intelligenze e affermarsi per le proprie idee e non per la loro appartenenza a una certa cordata. Non si fanno le politiche attraverso le primarie ma attraverso lo studio, la discussione e il coraggio delle scelte di una Segreteria. È necessaria una Segreteria che svolga il ruolo di “governo ombra” dove esperti – con un supporto adatto – contrastino le proposte di un governo avversario e formulino chiare alternative su questioni centrali, dalle politiche economiche alla politica estera. Anche il ruolo dei circoli territoriali va ripensato, dovrebbe ritornare ad essere il perno del Partito democratico del chi e come agire. Bisogna ripensare al ruolo dei circoli locali PD, supportarli organizzativamente ma anche con materiali prodotti dal centro studi e grazie a un confronto sistematico e più intenso con la Segreteria ma anche la Direzione ridimensionata del Pd. I circoli devono essere luoghi di palestra politica, riprendendo l’immagine data da Fabrizio Barca e dai suoi colleghi qualche tempo fa. Solo una riorganizzazione che vada dagli organi nazionali – Direzione e Assembla nazionale – passando per la creazione (e finanziamento) di un centro studi che crei proposte per riformare la società italiana e il rilancio dell’attivismo dei circoli territoriali può far iniziare un necessario percorso di riforma del Partito democratico. Il Pd ha istituzionalizzato la sua ambiguità per non affrontare i propri conflitti interni, ma così rischia anche di non poter gestire i conflitti del Paese costringendo non solo se stesso a una politica di sussistenza, ma l’intero sistema politico italiano e ciò che succede di questi tempi, costringe il Partito ad avere una perenne ‘zoppia’ e subire l’egemonia della destra… Per concludere: con la sconfitta del 25 settembre i problemi sono diventati ancor più complessi e sfaccettati, al punto tale che singolarmente ognuno potrebbe scegliersi un argomento, quello principale, che ritiene decisivo per la crisi identitaria che definisce l’ultima debacle elettorale. Il governismo a tutti i costi, il partito delle Ztl, le periferie abbandonate, il lavoro che cambia e sempre più spesso manca, i diritti civili individuali prima di quelli sociali, l’economia globalizzata e la geopolitica che cambia, i vecchi e i nuovi imperialismi economici, il blocco dello sviluppo con le ricorrenti crisi economiche, conseguentemente le diseguaglianze e la povertà che crescono anche qui da noi in Europa e in tutto l’Occidente con le crescenti paure del ceto medio che va impoverendo e la conseguente temperatura di uno scontro sociale che cresce… per finire alle temperature del clima e alla situazione ambientale, ecc. ecc. Tutto vale per una discussione ampia e approfondita alla ricerca dell’ “identità perduta”. Tuttavia, non sembra che il PD discuta e affronti, la questione vera ed eclatante che sta all’interno dello stesso PD e non solo dal giorno successivo alle ultime elezioni, ma anche di quelle del 2018 e prima ancora del 2013. E se non se ne parla chiaramente pensando che è questione solo di nuove idee e di rinnovati slogan, che aiutino a risalire la china, alla fine, anche involontariamente, diventano complici, tutti quanti complici compresa la ‘famosa’ base del partito. Quello che sta succedendo si può sintetizzare così: niente!! Non sta succedendo di fatto niente. Come già accennato, non è solo il Pd ad aver perso le elezioni ma, nei suoi confronti c’è un accanimento con comportamenti  maramaldeschi sia dall’interno che dall’esterno del Partito. Tutti lo aggrediscono. Lo fanno anche le “intellighenzie” della Sinistra… i giornali e i giornalisti d’area… Perché un così forte accanimento? Forse perché, c’è un Segretario uscente ma che ancora non è uscito e uscirà solo all’inizio/fine del congresso. Dunque Enrico Letta è rimasto anche lui prigioniero di un gruppo dirigente che “si interroga, si interroga, s’interroga” ma non si dimette mai da niente. Ad ogni sconfitta il PD, cambia solo il Segretario… sì solo lui. Così i tempi del vero rinnovamento del gruppo dirigente non vengono mai e sono praticamente infiniti. Il tono del Partito diventa sempre più dimesso all’interno dello stesso e sui giornali, come ha scritto Francesco Piccolo su Repubblica: “imperversano sempre gli stessi, con i loro rancori, i loro specchietti retrovisori, ciascuno con la propria copia del Principe di Machiavelli in mano che, come diceva già ai suoi tempi Vitaliano Brancati: “è il libro di tutti i perdenti”. Questi temi, insieme ad altri, dovrebbero essere al centro degli interrogativi sul futuro del Pd. Se si tratta di quella che viene definita “fase costituente”, ma che a parere di molti non è mai cominciata e mai comincerà. Quindi si va ancora verso un congresso ordinario, in tempi straordinari, che di fatto si esaurisce nella scelta del nuovo Segretario/Segretaria, quando invece, prima dei nomi, si dovrebbe dare risposta alle mille domande che la situazione pone. Due giorni fa al Nazzareno c’è stato il primo confronto  tra i candidati segretari: Com’è andato? Bonaccini, De Micheli e Schlein i tre candidati alla segreteria del Pd, si sono confrontati: per Bonaccini bisogna ritrovare la “vocazione maggioritaria”, per De Micheli va anticipato il Congresso e la Schlein chiede di “ridare voce alla comunità”. Lo stesso gran parlare di “identità” ha poco senso se non si tirano giù dalle nuvole della vaghezza le questioni concrete che dovrebbero caratterizzare una forza riformista/progressista (se riformista vuole essere). È interessante che negli ultimi giorni le analisi di personaggi molto diversi tra loro siano sembrate orientate nella stessa direzione. È stato Marco Bentivogli a stigmatizzare le abitudini di un ceto politico che tende a perpetuarsi attraverso meccanismi di cooptazione, senza volontà di legittimarsi attraverso un bagno nella volontà popolare. Né il ricorso alle “primarie”, peraltro sganciate da un autentico confronto sui temi (la fase costituente che non c’è), è in grado di cambiare le cose. Anche la forma partito è ormai ampiamente superata”. I circoli sono “abbandonati a sé stessi” e di conseguenza “la segreteria da tempo è priva di autorevolezza”. Esempi concreti: il “populismo” per cui il Pd ha votato la riduzione del numero dei parlamentari senza pretendere una contestuale nuova legge elettorale; il fatto che i candidati alla Segreteria, a cominciare da Bonaccini, finora non abbiamo parlato con chiarezza di politica estera (la guerra, l’Ucraina e le alleanze militari), quando è da lì che si dovrebbe partire, come fu in passato. E poi la carenza di un pensiero politico forte, che non ha bisogno di un esercito parlamentare per affermarsi, come hanno dimostrato un tempo Aldo Moro, capo di una piccola corrente della Dc, e Ugo La Malfa, alla guida di un partito repubblicano le cui percentuali elettorali erano modeste. Infine, un’altra voce. È quella Sinistra del partito anch’essa frammentata, quella: di Andrea Orlando, di Goffredo Bettini, di Beppe Provenzano e di Gianni Cuperlo, (da ieri 4° candidato a Segretario), tutti esponenti del partito che ancora, non si erano (tranne Provenzano per la Schlein) schierati e che sollecitano di ritrovare un’identità riformista e progressista del PD di domani “socialista ed ecologista” altrimenti non sarà ancora chiaramente definita l’anima del Partito democratico…

(continua)

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