Politica: Il Decreto Lavoro del Governo Meloni è un buco nell’acqua. Il 23,7% dei nostri ragazzi non trova lavoro, perché?

Prima parte…

Il governo ha approvato nel Consiglio dei ministri convocato il primo maggio, il giorno della Festa dei lavoratori, il cosiddetto “Decreto lavoro” che interviene sulla riduzione del cuneo fiscale, sulla sostituzione definitiva del reddito di cittadinanza e sull’ampliamento delle possibilità per prorogare i contratti a tempo determinato. In attesa della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il governo ha presentato in un comunicato stampa i contenuti del decreto-legge, le cui bozze erano già state anticipate dalla stampa nei giorni precedenti. Il lavoro è uno dei temi centrali nel dibattito politico italiano. E uno sguardo rapido ai dati permette di capire perché: produttività ferma così come i salari, elevata incidenza di lavoratori poveri ed elevata disoccupazione rispetto alla media europea. A questo si aggiungono problemi contingenti: la contrazione dei salari reali dovuta all’inflazione sta peggiorando ulteriormente la situazione salariale e dei consumi nel nostro paese. Per questo il governo Meloni ha deciso di convocare un Consiglio dei ministri nella giornata del Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, per presentare il Decreto Lavoro. Secondo le anticipazioni, filtrate in questi giorni dalla stampa, sono di fatto tre le aree su cui il governo intende intervenire. In primo luogo, forte del tesoretto individuato dal Documento di Economia e Finanza (DEF) di 3.4 miliardi provenienti dall’extra deficit, un taglio del cuneo fiscale. Intervenendo sui contributi come fatto con la manovra di bilancio, il governo punta a un aumento delle retribuzioni per i lavoratori dipendenti con redditi medio bassi. Il secondo riguarda invece i contratti a tempo determinato. Il governo Meloni, infatti, vorrebbe alleggerire le regole oggi in vigore, in particolare quelle sulle causali richieste per la proroga del contratto a tempo determinato: si tratta delle ragioni per cui un’impresa giustifica il ricorso a un contratto a tempo determinato rispetto a uno a tempo indeterminato. Secondo quanto scrive Il Sole 24 Ore, le causali verrebbero stabilite già all’interno dei Contratti Collettivi. Inoltre, vi è l’allungamento del limite per il ricorso al tempo determinato, dai 12 mesi del Decreto dignità a 24 mesi. Il provvedimento più importante riguarda il superamento del Reddito di Cittadinanza, che il governo Meloni avrebbe voluto archiviare già a partire dall’inizio del 2023. Come scrive su Fanpage Roberta Covelli, il governo Meloni sostituisce il Reddito di Cittadinanza con tre strumenti. In primo luogo, la Prestazione d’accompagnamento al lavoro (PAL) destinata a chi precedentemente prendeva il Reddito di cittadinanza, ma con un taglio sostanziale a livello pecuniario: si parla infatti di 350 euro. Il secondo strumento è la Garanzia per l’Attivazione Lavorativa (GAL) destinata invece a chi versa in una condizione di povertà assoluta: per un solo componente familiare si parla di 350 euro al mese, il secondo vedrà invece l’indennità ridotta a 175 euro al mese. Infine, la Garanzia per l’Inclusione (GIL) che riguarda i cosiddetti non occupabili, quindi chi ha un minore a carico, un ultrasessantenne, un disabile o con una patologia che conferisce la possibilità di un assegno civile. Con una diminuzione però della soglia ISEE da 9.360 a 7.200. Avevamo già visto in precedenza su un altro post a marzo le perplessità sulla riforma del reddito di cittadinanza; perciò, qui mi concentrerò sugli altri due fronti toccati dal Decreto lavoro. Partiamo dall’annosa questione del cuneo fiscale, una delle più discusse della politica italiana degli ultimi anni. Innanzitutto, è necessario chiarire di che cosa parliamo. Si tratta del rapporto tra il quantitativo di imposte pagate da un singolo lavoratore medio e il totale del costo del lavoro. Quindi della somma di contributi e imposte che è necessario pagare per remunerare un lavoratore da parte dell’impresa. Il cuneo fiscale medio misura la quota in cui la tassazione sui redditi da lavoro scoraggia l’occupazione. Nel grafico riportato sotto, tratto dalla Voce, si può vedere come il cuneo fiscale varia tra i paesi europei. Come è spiegato, l’aumento delle remunerazioni nominali (quelle al netto dell’inflazione) ha spinto verso l’alto il cuneo fiscale. In tutti i paesi europei, l’aumento delle retribuzioni, a causa dell’inflazione sostenuta, ha ridotto l’ammissibilità per i lavoratori ai trasferimenti di denaro e alle detrazioni d’imposta, aumentando in ultima analisi il cuneo fiscale. In Italia si è spesso intervenuti sul cuneo fiscale. Ultimo in ordine di tempo è stato proprio il governo Meloni, che ha confermato il taglio  voluto dal governo Draghi e lo ha ulteriormente ridotto nella finanziaria, per i lavoratori più poveri. Il problema, d’altronde, è stato recentemente fotografato dai dati Eurostat sull’aumento dei salari nel 2022, anno in cui l’inflazione ha colpito di più: l’Italia è assieme a Malta e Finlandia il paese in cui i salari sono cresciuti di meno. Non sorprende quindi che lo sforzo del governo sia di aumentare le retribuzioni. Con il Decreto lavoro punta a un ulteriore taglio. Ma, in virtù di risorse tutt’altro che abbondanti, il taglio del cuneo fiscale non è sostanzioso. Basandoci sulle simulazioni Fondazione Nazionale Commercialisti, riportate dal Corriere della Sera, l’impatto di questo nuovo taglio va dai 10 euro al mese per chi ha un reddito di 15 mila euro fino ai 16 per chi ha un reddito di 35 mila euro. Questo, ripetiamo, è l’impatto del nuovo taglio promesso dal governo Meloni, a cui vanno aggiunti i tagli già in vigore. A confermare l’impatto esiguo del taglio è Sergio Nicoletti Altimari, capo dipartimento Economia e Statistica di Banca d’Italia: secondo il modello di micro-simulazione, afferma Altimari nel corso dell’audizione sul DEF alla Commissione Bilancio, si parla di un aumento medio di poco inferiore a 200 euro su base annua. Anche Francesco Seghezzi, presidente della fondazione ADAPT, ritiene che il taglio abbia un impatto impercettibile tanto che questi fondi potrebbero essere utilizzati altrove. Già durante la campagna elettorale, d’altronde, gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti avevano criticato il taglio del cuneo fiscale, proposto da PD e Azione, per aumentare le retribuzioni degli italiani. I due economisti hanno infatti fatto notare come un alleggerimento del cuneo fiscale vada più a favore del datore di lavoro, nonostante l’esborso da parte dello Stato. Una strategia differente, ma più efficace, sarebbe introdurre un salario minimo legale che non avrebbe costi ingenti per lo Stato ma garantirebbe un aumento delle retribuzioni più basse dei lavoratori nel nostro paese. C’è poi una questione più profonda, ovvero se la strategia consista nel classico “passare la nottata” – aumentando quindi le retribuzioni in un contesto di elevata inflazione, tenendo sempre presente il rischio, oggi non concretizzatosi, di una spirale prezzi salari – o, come invece ribadito più volte, ragionare in un calcolo di lungo periodo per ridurre la pressione fiscale e ridare linfa vitale all’economia italiana, che versa in uno stato di stagnazione ormai da 30 anni. Se già per il primo intento la situazione è complicata, lo è ancora di più se si pensa che, come è stato fatto ripetutamente nel corso degli anni, il cuneo fiscale sia uno dei problemi principali del nostro paese. Nonostante il cuneo fiscale rimanga tra i più alti a livello europeo, è tuttavia in linea con quello di Francia e Germania, paesi da prendere a riferimento per l’Italia. Come spiega Leonzio Rizzo, Professore Ordinario di Scienze delle Finanze a Ferrara, nonostante un alleggerimento del cuneo fiscale – fatto però in maniera sistematica e non con le scarse risorse racimolate dal governo – sia benvenuto, i problemi sono ben più profondi. Il costo del lavoro, spiega Rizzo, non è un problema in sé, semmai sarebbe necessario concentrarsi sulla forza lavoro poco qualificata, sugli investimenti in innovazione e capitale umano scarsi o assenti e sul contesto generale d’impresa in Italia. Paesi come Francia e Germania, infatti, presentano un panorama ben più roseo, con imprese di più grandi dimensioni in grado di puntare su formazione e investimenti, coadiuvate da un sistema di formazione e ricerca in grado di lavorare a stretto contatto con le imprese e il mondo del lavoro. L’Italia guida la classifica per numero delle imprese attive, ma il nanismo delle imprese compromette la resilienza delle aziende. I contratti a tempo determinato: perché sono un problema (e non da oggi)? Sui contratti a tempo determinato il governo Meloni vuole riprendere una strategia messa in atto a partire dagli anni ‘90 nel nostro paese, che punta sulla flessibilità del mondo del lavoro. Proprio per questo una panoramica e una valutazione della stagione della precarietà mostra quanto possano essere dannose le mosse di Meloni. Se già all’inizio degli anni ‘90 la situazione comincia a cambiare, è con il Pacchetto Treu del Governo Prodi I che si apre la stagione della flessibilità in Italia, motivata da problemi interni all’Europa che dopo la crisi petrolifera aveva visto un rallentamento della dinamica occupazionale rispetto agli Stati Uniti: quello che gli economisti chiamarono euro sclerosi. Anche il centrodestra, al tempo dei governi Berlusconi, intervenne in materia con la Legge Maroni del 2003. Come fa notare Pasquale Colloca su Il Mulino, queste riforme hanno contribuito a creare una miriade di contratti precari, con poche garanzie e basso costo per il datore di lavoro. Ciò ha portato a un dualismo nel mondo del lavoro italiano, tra garantiti e precari, che secondo gli osservatori è causa della bassa competitività del nostro paese. Oggi anche la letteratura economica ha evidenziato i limiti della strategia perseguita dai governi italiani. Un lavoro pubblicato recentemente, che copre gli anni dal 1995 al 2016, evidenzia come nel nostro paese i contratti a tempo determinato non siano una via per un’occupazione stabile. Non solo: proprio la precarizzazione ha rappresentato un duro colpo all’accumulazione di capitale umano, garantendo una forza lavoro poco qualificata e contribuendo alla pessima performance della produttività nel nostro paese. Come mostra il caso svedese, infatti, se si permette alle aziende non di competere su innovazione e formazione, ma su salari e tutele, vi saranno dei contraccolpi su tutta l’economia. Questa tendenza era stata interrotta dal cosiddetto Decreto Dignità, provvedimento fortemente voluto dal ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico del tempo, Luigi Di Maio. In particolare, il provvedimento introduce limiti al tetto di utilizzo del contratto a tempo determinato, passando da 36 a 24 mesi, una riduzione delle proroghe da 5 a 4 e un maggior costo per ogni rinnovo con tanto di una causale esplicita per l’utilizzo di un contratto a tempo determinato dopo l’anno. Che cosa dire, quindi, rispetto all’intento di Meloni? Un alleggerimento della normativa sulle causali, secondo un articolo di due ricercatori del think-tank Tortuga, andrebbe a peggiorare la situazione dei lavoratori, diminuendone le tutele. La causale introdotta dal Decreto Dignità, infatti, viene percepita come un costo notevole da parte delle imprese che quindi riducono l’utilizzo dei contratti a tempo determinato superiori all’anno. Ciò ha comportato sia minori tempi di trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato sia sostituzione, ovvero utilizzo direttamente di tempo indeterminato senza un precedente contratto a tempo determinato. Al di fuori dell’Italia, il caso spagnolo è d’interesse: proprio agendo sulle limitazioni ai contratti a tempo determinato, la Spagna ha visto una notevole riduzione al ricorso di tempo determinato, contrastando così il fenomeno del precariato. Quindi il Decreto lavoro non migliorerà il paese, anzi. L’analisi fatta finora suggerisce come la strada perseguita dal governo di Giorgia Meloni non solo non vada a risolvere i problemi che affliggono il nostro paese: andrebbe in realtà a cancellare i pochi passi in avanti fatti in questi anni, proponendo nel mentre riforme salvifiche la cui efficacia è però tutt’altro che confermata dalla realtà. Non ci si può di certo aspettare altro dall’estrema destra di governo: d’altronde le valutazioni, oltre a un aspetto tecnico imprescindibile, non possono che nascere da differenti visioni del paese. Il programma è cercare da una parte provvedimenti che si prestano bene alla propaganda, ma simbolici come il taglio del cuneo fiscale voluto da Meloni, mentre si tenta di indebolire le già tutt’altro che solide garanzie lavorative. Se l’ultima volta che la destra si è trovata al governo, con il Berlusconi IV, il rischio era di mandare a gambe all’aria il paese da un momento all’altro, questa volta sembra intenzionata a proseguire verso un lento e inesorabile declino… Un ulteriore sguardo su: Disoccupazione, Formazione, Incentivi, Innovazione, Investimenti, Lavoro, Mercato del lavoro, Occupazione giovanile, PNRR lavoro. Il 29,4% dei giovani tra i 20 e i 34 anni in Italia non ha un lavoro, non studia, e non è coinvolto in altri tipi di percorsi formativi: è la percentuale più elevata dell’Unione Europea. Gran parte di quelli occupati, invece, lamenta di lavorare in un posto che non soddisfa a pieno le aspettative economiche. C’è di più, perché anche il titolo di studio sembra non aiutare a trovare una collocazione soddisfacente nel mercato professionale. Un giovane su tre, infatti, svolge un’attività per la quale basterebbe un titolo di studio inferiore a quello posseduto. Di conseguenza, è sempre più difficile staccarsi dal nucleo familiare d’origine, che spesso aiuta a sostenere i ragazzi finanziariamente. «L’utilizzo dei fondi del PNRR non può essere la panacea per tutto», dice Benedetto Di Iacovo, Segretario Generale del sindacato CONF.I.A.L. «Ma va mirato a interventi strutturali e duraturi per modernizzare il Paese…

(continua)

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