Politica: il dopo elezioni. Il voto alle Camere e l’alta tensione nel centrodestra…

Quelli di centrosinistra prima litigano e poi perdono, quelli di centrodestra prima vincono e poi litigano. Lo schema classico della politica italiana si sta ripetendo in queste settimane, rafforzato dall’esito del voto del 25 settembre. Ma nemmeno gli osservatori più pessimisti si aspettavano che i contrasti all’interno della coalizione vincitrice esplodessero con questa rapidità e con questa virulenza. La verità è che non erano “pronti”. Sono bastati pochi giorni perché i fatti smentissero lo slogan elettorale sui manifesti di Giorgia Meloni. Oggi si insedia il nuovo Parlamento e la trattativa nella destra per l’accordo complessivo su presidenze delle Camere e ministeri è ancora da chiudere, sospesa tra veti e pretese reciproche, condotta ben oltre la fisiologica soglia di tensione che caratterizza sempre queste fasi. A guastare il clima successivo al trionfo di Meloni ha contribuito la somma di due fattori: il primo è l’impreparazione nella scelta delle figure chiave della squadra di governo, il secondo è l’ansia di riscatto dei due soci di minoranza che si sono rassegnati a starle sotto. Si sono rassegnati? Oggi inizia la XIX legislatura della Repubblica, e sarà una legislatura storica: prima volta di una donna e prima volta di una personalità di destra-destra alla guida del governo. Si comincia stamattina, poco dopo le 10, con l’elezione dei presidenti delle due Camere: al Senato si chiude oggi perché basta da subito la maggioranza assoluta, alla Camera domani, alla quarta votazione, dopo le tre di oggi (una a maggioranza dei due terzi degli eletti, due a maggioranza dei due terzi dei presenti). In una frase si spiega perché da questi voti capiremo subito molte cose decisive: «Il voto segreto sarà indicativo del grado di compattezza dell’alleanza, una sorta di test dal quale si capirà anche la forza propulsiva del prossimo gabinetto». I nodi, infatti, non mancano. Punto per punto, sono questi: L’accordo sulle Camere. Dopo una lunga giornata di incontri tesi e incontri mancati, alla fine l’intesa per il fratellista Ignazio La Russa al Senato e il leghista Riccardo Molinari alla Camera dovrebbe tenere. Ma è molto importante capire come terrà. Meloni ha chiesto agli alleati «una prova di compattezza assoluta». Vuol dire che se mancheranno dei voti a La Russa, lo prenderà come un segnale di ostilità per niente beneaugurante. E per lei inaccettabile. «L’offerta generosissima» È quella che la presidente del Consiglio in pectore ritiene di aver fatto a entrambi i partner, in particolare alla Lega, che dovrebbe uscirne con la guida di Montecitorio e sei ministeri. Un retroscena di cui si parla, riporta questa frase di Meloni, al telefono con Salvini e faccia a faccia con Berlusconi: «Se non vi vanno bene nemmeno le caselle che vi ho proposto allora vuol dire che ce l’avete con me, e non si può fare un governo insieme…». Il messaggio sbalordisce per la precocità: com’è possibile essere già a questi toni ultimativi, a partita nemmeno iniziata? L’ambiguità di Salvini. Alla Lega dovrebbero andare Interno, Economia, Infrastrutture, Affari regionali, Famiglia, più uno tra Università, Scuola e Ambiente: una manna per un partito che ha dimezzato i voti delle Politiche 2018 e in tre anni è passato dal 34% delle Europee a meno del 9%. Ma il leader non si rassegna al ruolo di junior partner e non digerisce il veto opposto a un suo ritorno al Viminale. Così ieri ha innervosito Meloni riproponendo sia la questione personale sia quella di Roberto Calderoli alla presidenza del Senato. Alla fine, potrebbe spuntare per lui un posto da vicepremier. Ma non basta a diradare la sua inquietudine. Giorgetti mister Mef L’eterno numero 2 della Lega potrebbe andare davvero al ministero dell’Economia, che quattro anni fa, consigliato anche dalla madre, rifiutò. Meloni lo vuole lì perché non trova un tecnico di spessore e forse anche per mettere in difficoltà Salvini. Che ufficialmente deve esprimere «orgoglio» per l’ipotesi, ma in realtà sa che Giorgetti in quel ruolo diventerebbe ufficialmente il leghista più importante, più che mai interlocutore privilegiato di tutti i poteri che contano, da Roma a Bruxelles, passando per il Nord produttivo. Certo, con la recessione tecnica in arrivo e le mille grane associate al ministero, non è scontato che l’amletico Giorgetti alla fine dica sì. L’ira di Berlusconi Meloni è andata ieri in visita al patriarca del centrodestra, nella sua casa romana: un gesto distensivo, dopo aver detto più volte che i vertici si fanno nelle sedi istituzionali. Ma è andata malissimo. L’ex premier vuole ministeri importanti: Giustizia, Sviluppo economico, Salute, Infrastrutture. Soprattutto, insiste per un posto chiave alla sua fedelissima Licia Ronzulli. Meloni dice no e Berlusconi si sfoga così con i suoi: «Lei non può pensare di comandare su tutto e tutti. Deve rispettarci, non può trattarci così». Ma perché si litiga tanto su Ronzulli? Meloni ripete da giorni che cerca «competenza» e «alto profilo», e ritiene che questi due requisiti escludano automaticamente l’ex infermiera, che tutti sembrano detestare tranne Berlusconi, di cui in questi anni è diventata l’ombra. La leader si è spinta al punto che «cedere farebbe venire meno la sua credibilità». L’impressione è che voglia contrastare fin d’ora l’ascesa ronzulliana: si tratta di capire chi controllerà i parlamentari di Forza Italia se in questa legislatura il già ottantaseienne Berlusconi non sarà più in grado di farlo (pensarci non è né cinismo né cattivo gusto, ma realismo politico). In altre parole: Meloni trema al pensiero di dipendere in futuro da Licia Ronzulli per la stabilità del suo governo. Come interlocutore forzista preferisce di gran lunga Antonio Tajani. Il ritorno al Senato. Intanto Berlusconi si gusta il rientro a palazzo Madama, nove anni dopo la decadenza subita per la condanna definitiva per frode fiscale. Una rivincita celebrata sui social: «Eccomi di nuovo al Senato». Gli altri ministeri. Il nome più sicuro sembra quello di Tajani agli Esteri: l’ex presidente dell’europarlamento potrebbe anche essere l’altro vicepremier con Salvini. Alla Salute monta il nome di Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa, in ballottaggio con l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso. All’Interno resta favorito il prefetto Matteo Piantedosi, già capo di gabinetto di Salvini al Viminale e dunque considerato in quota Lega. Adolfo Urso e Guido Crosetto restano in cima alla lista meloniana per Difesa e Sviluppo economico. La leghista Erika Stefani va verso gli Affari regionali. Ma è ancora presto per tutto questo. Il presidente della Repubblica potrebbe iniziare le consultazioni dal 19 ottobre, e l’incarico a Giorgia Meloni non arriverà prima del 21 ottobre. A questo punto vale quanto scrive sul Corriere della Sera Massimo Franco, si intravvede: l’ombra dei «due governi, rischiano di prendere corpo due governi in uno. Il primo, plasmato dalla leader della destra finora d’opposizione, con una cerchia di ministri politici ma anche tecnici, in grado di accreditare la nuova maggioranza anche all’estero. Il secondo governo, composto da ministri salviniani e berlusconiani, inclini ad assecondare, appoggiare o contrastare di volta in volta le scelte della premier. Ma con un’ostilità di fondo». E l’opposizione? Si rafforza la sensazione che si darà soprattutto alla guerra civile, con 5 Stelle e polo calendian-renziano intenti a provare a spolpare il Pd come la sinistra di Mélenchon e il centro di Macron hanno fatto con i socialisti francesi. Giuseppe Conte pensa proprio a un’«Opa ostile» sui dem e punta a tornare al 30%. Intanto però i 5 Stelle si accordano proprio con i dem per le vicepresidenze delle Camere, e Matteo Renzi protesta per l’esclusione del terzo polo. La pagina politica sarà spesso lunga nelle prossime settimane…

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