Politica: la grande confusione che c’è nella discussione sul “riformismo”, lascia aperti tutti gli enigmi politici che ne bloccano ancora il cantiere…

“Liberalismo democratico”, “liberalismo sociale”, “socialismo liberale” non sono espressioni letteralmente sinonime, ma indicano tuttavia uno stesso campo. È su questo terreno che ha senso lo sforzo di “unire i riformisti italiani”…

L’impressione è sempre la stessa… si fa un gran parlare della costruzione di un nuovo blocco “riformista” ma: “Grande è la confusione sotto il cielo” diceva Mao Zedong “e quindi la situazione è eccellente”. Il dibattito – ma chiamiamola per quello che è una animata discussione – che ancora non si vedono coordinate comuni – nei tanti discorsi dei vari protagonisti che si muovono sulla scena di un rinnovato riformismo che sia la base di un nuovo ‘clear agreement’. Cosa intendo dire? Che siamo ancora in una fase prepolitica, nello stesso rapporto fra i maggiori esponenti di quella che dovrebbe essere l’agognata ricostruzione dell’area riformista, che nel nostro Paese sta dentro e fuori il Partito democratico. Al momento sono tre i principali enigmi politici che ancora bloccano il cantiere riformista. Primo. Nessuno ha ancora chiaro cosa Enrico Letta (forse nemmeno lui del tutto compiutamente) abbia realmente in testa, al di là della volontà di ascoltare tutto il mondo, senza però ancora indicare una chiara linea politica al Partito democratico. Secondo. Non si conoscono ancora le intenzioni sulle alleanze del Pd nelle prossime amministrative a partire dai grandi Comuni e aree metropolitane. Terzo. A tutt’oggi, anche i più esperti renziani, non sanno quale sarà la prossima mossa di Matteo Renzi. Infatti: Italia viva, è passata dalla ribalta mediatica ad una silenziosa crisi. Nel  partito c’è chi teme l’addio di Renzi. I sondaggi sono in calo nonostante l’operazione della mandata a casa del Conte 2 e l’entrata in campo di Draghi. Dentro Italia viva, sono sempre più agitati dalle voci su un futuro del leader lontano dalla politica. Ma l’ex premier per il momento dice: “non lascio”. E si prepara all’incontro di stamattina con Enrico Letta. Vedremo se ne scaturirà qualcosa di nuovo. Accennavo a una situazione tutta prepolitica proprio a partire dal rapporto personale prima che politico fra i maggiori esponenti dell’area riformista. Ma, per maggiore chiarezza, voglio dirlo non è dovuto tout court, come sarebbe pensabile,  alle sole legittime ambizioni personali dei vari leader scesi in campo. E’ come se, invece, con tutta la buona volontà del mondo, nessuno di loro, se la sentisse ancora di gettare il cuore oltre l’ostacolo e prendere in mano la situazione per portare la discussione a livello di un vero dibattito sulle linee organizzative e politiche da intraprendere… tutti sostanzialmente concordano sul punto di fondo: sconfiggere definitivamente il bi-populismo, che ha attraversato destra e sinistra in questi anni, non solo nel nostro Bel Paese, ma praticamente in gran parte dei Continenti del Globo. Infatti, quando si deve passare al “che fare” i passi avanti dei “nostri eroi” risultano millimetrici. La difficoltà sta proprio nell’individuazione dello strumento politico per far avanzare le idee e le proposte, e questo ben     al di là delle varie ricette organizzative che: per Emma Bonino sono una federazione di forze riformiste, per Carlo Calenda un vero nuovo partito riformista, per altri un “campo aperto”  dove discutere di tutto quel che può essere considerato riformismo economico e sociale. Francamente, è, come se si avesse tuttora poco chiaro, il destino di un’area politica che, seppure ancora minoritaria, già esiste e insieme peserebbe se diventasse espressione di una nuova offerta politica, da contrapporre al blocco delle destre di FdI, Lega e FI. Nel campo riformista, Marco Bentivogli ex Fim-Cisl forse è quello più impaziente di tutti, e la sua idea di una fase costituente di quest’area come fatto di popolo e non di sigle politiche ha almeno il pregio di cominciare a delineare una road map, uno stile di lavoro memore dell’esperienza dell’Ulivo. Ma quali sono i punti di maggiore difficoltà che rendono questo processo ancora così accidentato? Sorvolando sulla questione, pure importante, della legge elettorale, che poi alla fine tutto modella (persino in quest’area tradizionalmente maggioritarista spunta l’opzione proporzionalistica di Calenda), direi che un primo enigma riguarda come al solito il Partito democratico. Se fosse vero quello che ha osservato Giorgio Gori, cioè che con l’avvento di Enrico Letta è più facile «spostare il baricentro del Pd» su posizioni più avanzate (non viene detto: ma significa meno spostato a sinistra) di quelle del biennio zingarettiano, ecco che l’area riformista (ex renziana) potrebbe avere una sponda importante e la possibilità persino di influenzare Letta, per esempio, nello svincolarsi definitivamente dall’abbraccio strategico con il Movimento 5 stelle seppure rivestito con la retorica contiana. Qualcosa si sta dunque muovendo anche nel partito di Letta? Forse la nascita di una nuova corrente ultrariformista di Andrea Marcucci? Sarebbe un evento paradossale dopo l’evocazione di Letta di Schwarzenegger quale “Terminetor” contro le correnti… Dicevo che nessuno ha chiaro cosa il neosegretario del Pd voglia fare in prospettiva oltre l’ascolto di tutto ciò che si muove nel mondo politico italiano e internazionale, ma che non ha per il momento indicato una chiara linea di azione politica al “nuovo” Pd. Salvo quella di sanare velocemente come si è visto:  la frattura interna sulla differenza di genere, createsi con l’emarginazione, in questi ultimi tempi, dai posti di potere interni ed esterni al partito delle Donne, risolto per il momento, con le due nuove Capo gruppo Simona Malpezzi al Senato e Debora Serracchiani alla Camera. Tutto ciò resta una grande incognita, che non agevola la costruzione di un nuovo progetto ma che impone un’attesa sull’evoluzione, o meno, del primo partito del centrosinistra. E come segnalato, l’enigma Renzi è questione che, al di là di tutte le polemiche, rappresenta una variabile non da poco per il futuro di quest’area riformista. Che vuole veramente fare il leader di Italia viva? Lo ha chiesto per due volte Carlo Calenda, senza però ottenere risposta. Qui c’è poco da inseguire i “si dice” da cui si evince tutto e il contrario di tutto. Ma è vero che dall’alternanza anche del comportamentale del senatore fiorentino è impossibile indovinarne il futuro politico e la mission di Italia viva: e questa, obiettivamente, è un’altra incognita che non aiuta un progetto politico nuovo; sebbene Ivan Scalfarotto abbia proposto di iniziare a lavorare e a concordare su temi concreti per dare un’anima a quest’area. Il che in realtà non sarebbe molto difficili: dalla giustizia, ai diritti, alle riforme economiche fra Bonino e Tinagli, fra Scalfarotto e Bentivogli, fra Calenda e Gori, non ci sarebbero distanze abissali…  ma tra tutti questi personaggi esistono ancora molte differenze importanti a partire dai singoli richiami alle teorie economiche e sociali e sulla stessa natura delle politiche riformiste da adottare per il rilancio dell’economia e della società italiana in una post pandemia che continua a ritardare arrivare. Infine, un altro scoglio (restiamo ancora al Pd) riguarda le prossime amministrative di Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trieste e le regionali in Calabria. Che scelte farà, il Nazareno? Quello che si intravvede ora è una specie di patchwork, un po’ con candidati grillini (Napoli), un po’ con candidati propri (Bologna), un po’ con candidati civici (Torino) o Verdi (Milano). In questo quadro Roma è speciale, perché il Pd (almeno i Pd romani) vorrebbero un nome del Partito democratico – Roberto Gualtieri – contro un altro candidato riformista Carlo Calenda, e contro quello ancora sconosciuto delle destre nonché contro la ricandidatura di Virginia Raggi fatta dai 5stelle con Beppe Grillo in testa. E’ chiaramente uno schema kamikaze e molto molto rischioso. Ha destato perciò qualche sorpresa che Irene Tinagli, neo vicesegretaria del Pd, abbia spezzato una lancia in favore di Calenda e «non solo per amicizia» ma proprio per un giudizio politico: la cosa ha enormemente irritato i “duri” della Capitale, intervenuti prontamente con grossolani tweet di rimprovero e poi chissà quanto privatamente, visto che il Nazareno e la stessa Tinagli hanno dovuto precisare che decideranno le primarie (verosimilmente ristrette al Pd e compagni di strada), un modo per dire no a Calenda che correrà per conto suo con l’appoggio di alcune delle forze riformiste e, stante il doppio endorsement di Gori e Tinagli, anche si è capito di alcuni pezzi dell’elettorato democratico… come si vede cambiato il Segretario, per il momento l’anima del Pd continua ad essere alquanto divisa su molto. La discussione è comunque in corso e alla fine potrebbe essere persino un omaggio a una dinamica inevitabile che una quadra la si trovi. Possibilmente prima che i populisti rimontino la china. E bisognerebbe trovare anche un accordo anche sulla lettura politica della fase governativa in corso imperniata sulla figura e sulle idee di Mario Draghi… Perché? E’ noto che alcuni auspicano che Draghi duri più a lungo possibile, certamente fino al 2023 e anche oltre. Mentre altri, fissano il tempo di durata del Governo in carica da poco più di un mese, alla prossima elezione del Capo dello Stato, auspicando il trasferimento di Draghi da Palazzo Chigi a quello del Quirinale. Ma vengo al dunque. Dopo aver letto e ascoltato in queste ultime settimane quanto dicono per l’appunto Carlo Calenda, la Tinagli, Marco Bentivogli, Emma Bonino, Giorgio Gori e Ivan Scalfarotto e alcuni altri sulle possibili conseguenze politiche del Governo Draghi, sono personalmente arrivato alla conclusione che, la principale conseguenza politica del Draghi 1 è la necessità che ci possa essere un Draghi 2. I liberali, i democratici, i repubblicani tutti riformisti più o meno aggettivati, ma anche Enrico Letta e la Sinistra del Pd se non vogliono riconsegnare la politica italiana ai “populisti a rotelle” o inseguire “progetti unitari”, destinati comunque a fallire, in un quadro politico alquanto complesso, dove anche, come già accennato, persino un Andrea Marcucci qualsiasi, si sente Capo corrente nella corrente di Base riformista, in un anelito incontenibile di leadership post renziana… E nel Pd potranno fare certamente tutte le importantissime iniziative che credono: sui territori e contro le diseguaglianze, tutti i dibattiti sulle leggi elettorali e le riforme, tutti i posizionamenti necessari sulle favolose transizioni ecologiche e digitali, senza dimenticare niente delle politiche attive sul lavoro e delle annose vertenze aziendali, ma tenendo ben saldi due principi al momento non ancora negoziabili, fondamentali, indiscutibili. La road map per il Pd e quanti si richiamino al riformismo liberal-social-democratico (continuando a far finta che le economie liberale e socialista per quanto fondate sulla democrazia parlamentare, siano la stessa cosa e non abbiano differenze contraddittorie destinate a segnare l’identità riformista di qualsiasi Governo e delle componenti sociali che lo dovrebbero sorreggere (chiamiamole con il loro nome: classi sociali da rappresentare complessivamente nel Parlamento come nel Paese reale). E’ proprio il tentativo di evitare il possibile ritorno del bipopulismo italiano di destra e di sinistra,  che chiede per l’appunto con forza di non abboccare all’offerta di eleggere l’ex banchiere centrale al Quirinale, ma di fargli completare il lavoro e andare al voto nel 2023, indicandolo già come prossimo presidente del Consiglio. Già, proprio così, il primo principio non negoziabile è che Draghi dovrà restare in carica fino alla fine della legislatura, nel 2023; il secondo è quello di indicare Draghi come Premier anche dopo le elezioni del 2023. E’ un primo punto decisivo, perché disarma proprio il tentativo di riscatto dei populisti di destra e di sinistra, che passa proprio attraverso l’elezione di Draghi al Quirinale a inizio 2022, lo scioglimento successivo delle camere e le elezioni politiche nazionali con uno schema che contenga ancora in piedi elementi di populismo perfetto. Com’ è lo scontro tra i Cinquestelle in posizione di valvassori del Pd vs i sovranisti russi-e-orbaniani della Lega e di FdI. Infischiandosene del fatto che da qui ad allora, in un solo anno di governo, molto difficilmente le capacità politiche ed economiche nonché il buon senso di Draghi, potranno farci uscire dalla pandemia e dalla catastrofe economica e sociale che ne seguirà… Chi ha a cuore realmente il futuro del paese, nei prossimi dodici mesi dovrà scongiurare l’ipotesi di promoveatur ut amoveatur Draghi, cominciando subito a ripeterlo già da adesso come fosse un mantra: “il Governo durerà fino alla scadenza costituzionale della legislatura”. Lavorando già intanto a una soluzione per il Quirinale 2022 che vada da una rielezione alla Napolitano di Sergio Mattarella (pur con la sua contrarietà), all’individuazione di una figura di altrettanta autorevolezza, qualcuno come Sabino Cassese o perché no Emma Bonino, finalmente una Donna. Evitando  (è un caldo consiglio) tentazioni neo Uliviste, di sanare torti del passato nei confronti di Romano Prodi – idea alla quale ciò che resta della Ditta con i Lettiani vecchi e nuovi non sono affatto scevri. Il Pd esploderebbe per via degli ex renziani (di quei 101 che non votarono Prodi segando Bersani e poi Letta, molti di loro siedono ancora sugli scranni del Pd al Senato e alla Camera. Inoltre, quel che resta di Forza Italia impatterebbe definitivamente sulla destra di Salvini e Meloni. Berlusconi non dimentica che Prodi è il suo grande nemico di sempre… Quindi? Ognuno faccia i propri nomi, ma la questione non è chi andrà al Quirinale, la questione è che non dovrà andarci per il momento Draghi. Il secondo principio non negoziabile è altrettanto decisivo è evitare che nel 2023 a Palazzo Chigi ci vadano Conte o Salvini o Meloni: scaduta l’attuale legislatura, non importa con quale legge elettorale si andrà a votare né chi sarà il capo politico della coalizione di centrosinistra… il Pd e l’area liberal-democratica (Calenda, Bonino, Bentivogli) più chiunque altro ci vorrà stare, dovranno indicare come Presidente del Consiglio meritevole della fiducia parlamentare il professor Mario Draghi, possibilmente con una maggioranza coerente con il risultato elettorale, ma anche senza, come del resto è già capitato con tutti e sei i governi dell’attuale e della precedente legislatura. E dovranno cominciare a indicarlo politicamente prima del voto, specificando che si tratta di punto fondativo della proposta di governo e poi formalmente alle consultazioni con il Capo dello Stato. Una cosa che consentirebbe a Enrico Letta di respingere le tentazioni di un semplice ritorno al recente passato, mantenendo di fatto una identità riformista liberal-democratica in economia, ma non avendo alcun appeal per una società fatta di persone (un riformismo senza il popolo), dove nuove e vecchie diseguaglianze con l’aumento dello stato di povertà per molti italiani, già sono e ancor più saranno motivo di  ulteriore divisione di un’identità sociale, che sia anch’essa protagonista e partecipe alla ricostruzione del Paese… Non cambiare realmente, significherebbe continuare ad accapigliarsi solo sulle varie leadership e così facendo, impedire all’Italia civile, di poter contare su un’alternativa seria e credibile ai fratelli magiari Salvini e Meloni… e ad un nuovo riformismo che a partire dalla forma della sua rappresentanza sia radicale nei contenuti.  Ma c’è davvero  ancora qualcuno che pensa di poter reggere la nostra democrazia senza infingimenti cercando quel ‘clear agreement’ già prima accennato… basato su strumenti e scelte politiche precise che chiedano a “chi ha di più, di dar di più”, per un riequilibrio sociale contro le diseguaglianze e la povertà  in Italia e in Europa? Cambiando una volta per tutte proprio quelle leadership personali da “uomo solo al comando” che sono state una delle basi della crescita dei populismi qui da noi e a guardar bene in ogni luogo del Globo?!

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