Politica: la mezz’ora più buia. Il discorso di La Russa, l’interminabile fine delle ideologie e l’eterno ritorno degli anni 90…

Il neopresidente del Senato spazia non agilmente dall’ambiente («che non è solo flora e fauna») alla violenza sui minori e sulle donne (che è «lo squallore della società»), ma soprattutto, citando Violante, esorta alla riconciliazione, come se negli ultimi trent’anni non fosse accaduto nulla… Ignazio La Russa comincia il suo primo discorso da presidente del Senato dicendo: «Non ci crederete, ma non l’ho preparato minimamente». E infatti non ci crede nessuno. Quindi inizia a ringraziare «tutti quelli che mi hanno votato, quelli che non mi hanno votato, quelli che si sono astenuti e, se me lo consentite, quelli che mi hanno votato pur non facendo parte della maggioranza di centrodestra». È verosimilmente il ringraziamento più sincero, e certo non l’unico che i destinatari attendono. Già, l’elezione di La Russa, mostra anche un’opposizione che è in frantumi almeno quanto la stessa maggioranza. Ora il fantomatico centrosinistra cerca i nomi di chi ha votato come presidente del Senato uno dei fondatori di Fratelli d’Italia. Ma la destra dimostra che l’alleanza del 25 settembre già non c’è più… La “discussione” nel centrosinistra gira su un interrogativo poco esaltante: chi ha tradito? Impossibile avere le prove, tutti negano, sembra di essere in un famoso romanzo di Orhan Pamuk (“Il mio nome è rosso”) o più prosaicamente in un’aula delle elementari, chi ha fatto la spia? I soliti sospetti sono caduti soprattutto su Renzi, che finirà con l’essere accusato, come lamentava Giulio Andreotti riferendosi a sé stesso, di essere stato la causa delle guerre puniche: «È un manovriero», hanno spiegato i giornalisti nelle varie dirette televisive. Calenda ha negato («Mai i liberali voterebbero Ignazio La Russa») e anche il diretto interessato («Lo rivendicherei»). Eppure, i voti in più a La Russa, tali da sopperire a quelli mancanti di Forza Italia, sono troppi. Poi i sospetti sono caduti su un altro professionista della politica, Dario Franceschini, e sul tuttora ministro grillino Stefano Patuanelli. Ma le smentite sono di quelle che non lasciano dubbi… La ricostruzione che circola è questa: nella ventina di voti che La Russa ha avuto in più ci sarebbero stati esattamente le impronte di Renzi, Franceschini e Patuanelli che non a caso si erano visti nella mattinata e presumibilmente erano in contatto con la regista di tutta l’operazione che è naturalmente Giorgia Meloni, un segreto quasi di Pulcinella. Sarà vero? Il Terzo Polo dicono che punti alla presidenza della Vigilanza Rai, Franceschini e Patuanelli alla vicepresidenza del Senato: votando per La Russa avrebbero dato un segnale chiarissimo. E girano anche i nomi dei senatori franceschiniani, del Pd, del Terzo Polo. Inutili farli, perché fino a quando non saranno loro a dirlo saranno solo supposizioni non riscontrabili, e tra l’altro i sospettati smentiscono. E tuttavia il dato che balza agli occhi non è nemmeno tanto in questo scambio, ammesso che ci sia stato, ma nel clima di livore e di screditamento persino morale di quelli che in teoria dovrebbero essere alleati, tanto da far pensare che si sia ormai superato quel livello di guardia al di sotto del quale sarebbe possibile una qualche ricomposizione tra le tre forze dell’opposizione. Ma c’è ovviamente che una lettura più nobile della vicenda, cioè dimostrare da subito che la maggioranza del 25 settembre non c’è già più, complice un Berlusconi travestito da Gian Burrasca, e che all’occorrenza ce n’è una, o più d’una, alternativa, trasformando quindi il governo Meloni da governo di centrodestra a “governo del Parlamento”, un gioco sottile, forse troppo… Precisato ciò, il retorico discorso di insediamento di La Russa è proseguito con un «pensiero deferente», al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al suo predecessore, Giorgio Napolitano, e di qui ai predecessori dello stesso La Russa, Maria Elisabetta Alberti Casellati («una cara amica, ma più che un’amica una persona di grande spessore umano e culturale») e Marcello Pera («che saluto e ringrazio, come tutti i presidenti che lo hanno preceduto»). E poi ancora «coloro che con me hanno fatto i vicepresidenti della presidente Casellati: la senatrice Rossomando, la senatrice Taverna e, in particolare, lo capirete benissimo, il mio amico Roberto Calderoli» (il motivo è chiaramente il suo passo indietro nella corsa alla presidenza del Senato), e infine, un attimo prima che il discorso prenda definitivamente la piega del saluto alla quinta B e a tutti quelli che mi conoscono, un «deferente omaggio» al Papa, seguito da un pensiero per le forze armate, in particolare ai caduti, con «deferente omaggio» anche a loro. La lunghezza e la solennità dei ringraziamenti preliminari si accorda perfettamente con i quasi trenta minuti di discorso – la mezz’ora più buia, almeno dal punto di vista retorico – che spazia non agilmente dall’ambiente («che non è solo flora e fauna») alla violenza sui minori e sulle donne (che è «lo squallore della società»), dalla guerra in Ucraina agli anni di piombo, con diverse incursioni autobiografiche, quasi intimiste, che ruotano però sempre attorno allo stesso tema: le divisioni del passato e la necessità di una riconciliazione nazionale. Al riguardo, La Russa cita in conclusione il famoso discorso pronunciato da Luciano Violante dopo l’elezione a presidente della Camera, omettendone tuttavia, pudicamente, i passaggi più controversi (come quello in cui Violante invitava a «sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà»). Discorso che risale tuttavia al 1996, quasi trent’anni fa. Possibile che siamo ancora a quel punto? Ovviamente no. Per convinzione o per consunzione, la questione della riconciliazione nazionale direi che possiamo darla per chiusa, almeno quella, che si tratti della guerra civile combattuta ottant’anni fa o anche dei suoi rigurgiti degli anni Settanta (anacronistici già allora, e comunque risalenti pure quelli, ormai, a mezzo secolo fa). La Russa è già stato ministro della Difesa nel 2008 e vicepresidente della Camera addirittura nel 1994. È un decano del parlamento e sarebbe ridicolo considerare la sua elezione al vertice di Palazzo Madama come un pericolo per la democrazia o anche solo il simbolo di chissà quale cambiamento intervenuto nella politica italiana, che questa è, piaccia o no, da almeno tre decenni. Quel che preoccupa di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia sono le parole ambigue su Donald Trump e l’assalto al parlamento americano del 6 gennaio 2021, assai più che quelle su Benito Mussolini e la marcia su Roma del 1922. È l’ammirazione e l’amicizia per gli autocrati ungheresi e polacchi di oggi, che dopo essere stati eletti hanno tentato di imprimere, spesso con successo, una torsione autoritaria e illiberale alle loro democrazie. Ma questo è un problema che riguarda la stretta attualità, un ambito cui la politica italiana si conferma ancora una volta perfettamente impermeabile…

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