Politica: Meloni è la nuova Italia? L’opposizione di governo ha 18 mesi per costruire un’alternativa al melonismo…

Il 25 settembre scorso le elezioni sono andate come sappiamo e al governo c’è la destra destra con a Capo Giorgia Meloni insieme ai suoi due vassalli Salvini e il vecchio Berlusconi. Il Pd celebra un Congresso scialbo e il Terzo Polo ha tra le mani forse l’unica occasione di colmare il vuoto dei suoi numeri creato dal bipopulismo nostrano. I 5 stelle restano una forza politica a parte che aggrega la metà dei voti che prese nelle elezioni del 2018 e che dopo aver governato con la destra e la sinistra nella finita legislatura, oggi guarda sospettosamente tutti quanti e soprattutto il Pd. Il loro obiettivo ormai è chiaro: far perdere il Pd per lucrare sulle sue difficoltà, sperando di potergli sottrarre voti e poter essere così la prima forza di opposizione. Un anno e mezzo. In un anno e mezzo le opposizioni di governo (leggi Partito democratico 5 stelle e Terzo Polo) devono costruire un progetto alternativo a quello di Giorgia Meloni, che più che un progetto è un assemblaggio messo su alla bell’e meglio – lo abbiamo visto alla conferenza stampa di fine anno, detto sinceramente: “una delle più noiose degli ultimi anni”. Un anno e mezzo è il tempo che separa questo finale di 2022 alle elezioni europee del 2024, primo vero test per il melonismo di governo, vero bivio della legislatura. Non c’è dunque molto tempo. Carlo Calenda e Matteo Renzi hanno ben chiara la scadenza: è la prova decisiva per il Terzo Polo, lì si capirà se il progetto italiano di Renew Europe ha un futuro oppure no, allora si saprà se c’è davvero un pezzo d’Italia che investe su di loro o meno. Sarà il trampolino verso la grande politica o lo scivolo verso la definitiva irrilevanza. È una prova decisiva e senz’appello. Il 2023 dunque dovrà essere per Calenda e Renzi l’anno di un protagonismo all’insegna della coesione crescente tra Azione e Italia viva, tuttora un po’ pigramente separate, al momento ancora espressioni di gruppi dirigenti, troppo poco radicati, popolari. Una dignitosa rappresentanza parlamentare e nulla più. Non basteranno i tweet. Servirà la forza di un partito, ancorché in formazione, con tutto quello che ne consegue: programmi, organizzazione, strumenti, persino disciplina. Ci vorrà un salto di qualità, la fine dell’età dell’innocenza e dei rancori. O i nuovi centristi diventano adulti o non sopravviveranno a loro stessi. E d’altro canto, l’anno che viene è quello davvero decisivo – un aggettivo che si usa sempre ma stavolta non ce n’è un altro – anche per il Partito democratico che terrà il 19 febbraio p.v. le sue primarie, che sono sempre più avvolte nel disinteresse del Paese in modo inversamente proporzionale all’agitazione che regna tra gli apparati. Il Pd. sta facendo una campagna congressuale praticamente finta, solo in attesa della conta finale: inutile tornare qui sugli errori di Enrico Letta quelli fatti dopo la batosta elettorale. Che quelli di prima, sono nella realtà intestabili più ad altri che non a lui medesimo. Ma una volta chiusa questa pratica di un nuovo Segretario veramente pensano che potrebbe seguirne uno scatto di apertura e di ricerca, di «rigenerazione» o come si usa dire adesso «costituente» oppure assisteremo al prolungamento di un’agonia politicista, di un tran-tran politicamente innocuo per la maggioranza di governo e sentimentalmente sconnesso dalle ansie del popolo. Non è improbabile nemmeno che si avrà un po’ di rigenerazione e un po’ di continuismo, qualche faccia nuova in mezzo a tante facce vecchie, magari con un’inedita diarchia al comando tra vincitore e vinto, probabilmente in questo caso un tandem Bonaccini-Schlein, comunque depotenziato nelle leadership per entrambi.  Il punto di fondo però riguarda cosa vuole fare l’opposizione da grande, è su questo che si misurerà la forza del/della nuovo/a leader perché è sulla forza delle sue ambizioni che il Pd potrà contare se vorrà veramente sventare l’Opa ostile di Giuseppe Conte. Il quale proseguirà la sua marcia nel deserto del populismo e del consenso a buon mercato illudendosi che sia una scorciatoia quando in realtà è uno stagno in cui annegare chiacchiere in libertà, nulla che faccia i conti con la storia, e anche poco con la cronaca, per questo lui e il Movimento continuona ad essere fuori dall’ottica del riformismo di governo. Si tratta dunque, prioritariamente per Pd e Terzo Polo, di riannodare ciascuno per proprio conto i fili di un progetto per l’Italia e la sua modernizzazione, quei fili trovati a suo tempo da Walter Veltroni e dipanati poi da Matteo Renzi e Mario Draghi, e con questi sfidare il centrodestra sul terreno del governo, quel centrodestra meloniano che di progetti veri in tasca non possiede. C’è dunque come un vuoto nella politica italiana che non riguarda la gestione del potere quotidiano – lì Meloni, Salvini è Berlusconi bastano e avanzano – ma è un vuoto di idee sul futuro del sistema industriale, delle infrastrutture, della conoscenza, del sistema sanitario, della ricerca. E anche dei diritti, della giustizia e delle riforme istituzionali: cosa contrappone l’opposizione al vago presidenzialismo di Giorgia Meloni? Accetterà la sfida parlamentare o si rifugerà sull’Aventino? E così il vuoto va riempito su tutto il resto: l’idea di Giorgia è il galleggiamento dell’Italietta che si fa i fatti suoi, quella dei riformisti è il Paese che raccoglie e vince la sfida della modernità. C’è un anno e mezzo. Bisognerebbe cominciare a correre, se non si vuole arrivare al traguardo con il fiatone e perdere un’altra volta…

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