Politica: non è una novità ma viviamo l’epoca in cui la verità non conta più nulla. Esiste una logica in politica contro la distorsione della realtà?

Da quando, nel 2016, l’Oxford Dictionary ha eletto post-truth a parola dell’anno, non si fa che parlare di fake news e per l’appunto di post verità… È come se tutti avessero aperto gli occhi all’improvviso sul potere dell’informazione e della disinformazione; sull’uso che se ne può fare, prima di tutto a livello politico ed economico; sulle potenzialità e i rischi legati ai social media e alle nuove tecnologie; sul fatto che il controllo delle notizie, la verifica dei fatti, il cosiddetto fact-checking, che dovrebbe essere imprescindibile per qualunque giornalista è in realtà un lusso che pochi si possono permettere, o su cui pochissime testate vogliono davvero puntare o investire… Purtroppo, però, non si tratta solo di avere accesso a una corretta informazione. Indipendentemente dal fatto che i dati corretti siano diffusi o no, oggi più che mai si creano schieramenti su qualunque tema, dalla politica alla salute, e, in ognuno di questi casi, ciascuna delle fazioni usa il termine fake news per screditare gli argomenti della controparte, impedendo qualunque confronto costruttivo… Ne hanno scritto in molti, soprattutto ricorrendo ai meccanismi neuro cognitivi alla base delle trappole mentali che ci portano a distorcere i dati di fatto, anche quando questi ci sono presentati con chiarezza. Si torna sull’argomento approfondendo i fattori che hanno condotto alla situazione attuale, ma anche gli studi che ci permettono di interpretarla e potenzialmente contrastarla, a partire dalla conoscenza di quei meccanismi neuro cognitivi di cui si diceva, euristiche e bias (*), messi in luce fin dalla fine degli anni Cinquanta, che alterano la nostra percezione e accettazione della realtà. Da sempre, nella storia dell’umanità, sono state diffuse e usate notizie false per ottenere i propri obiettivi, soprattutto a scopo di propaganda politica. Qual è la novità che porta addirittura a considerare questa come l’epoca della post-verità? Che le persone mentano, e che la politica usi la propaganda per perseguire i propri fini non è certo una novità. Per post-verità però s’intende qualcosa di molto diverso: un contesto in cui l’ideologia ha la meglio sulla realtà perché quale sia la verità interessa poco o niente. Quando si mente, si cerca di convincere qualcuno che quel che si sostiene è vero. Con la post-verità, tutto questo è irrilevante. Non occorre sforzarsi di ingannare nessuno. Non si devono costruire prove false. Quel che conta è avere la forza di imporre la propria versione, indipendentemente dai fatti. Basta ripetere concetti semplici e accattivanti, anche se infondati, perché a nessuno conviene verificarli. Personalmente non ho mai pensato che i sostenitori di Trump fossero davvero convinti di molte sue affermazioni, per esempio riguardo all’assoluta necessità di costruire il muro ai confini con il Messico, ma traevano piacere ascoltandolo, e il fatto che dica il vero o il falso è indifferente. La post-verità è questo: preferiamo credere alle cose che si accordano alla nostra mentalità, ai nostri valori o pregiudizi, senza preoccuparci che siano fondate o no. Non è essenziale sapere se sia un fenomeno del tutto nuovo, ed è probabile che le sue radici siano sì nella propaganda politica classica, ma oggi, a partire dalla politica statunitense, degli ultimi decenni, tutto ciò ha senza dubbio assunto un rilievo inedito e preoccupante”. Spesso si attribuisce la responsabilità di questo clima a internet e ai social network. Non si può negare che i social media facciano la loro parte, soprattutto perché diffondono le informazioni false, anche più delle vere a un maggior numero di persone e in maniera più rapida. Inoltre, facilitano la formazione di camere dell’eco, bolle o silos informativi, in qualsiasi modo li si voglia chiamare, cioè ambienti virtuali in cui le persone si trovano sulla base di un’affinità ideologica che dall’incontro esce rafforzata. Ma uno degli effetti più rilevanti della crescita dei social network, a partire da Facebook, e poi con YouTube e Twitter, è che questi strumenti col tempo sono diventati sempre più aggregatori di notizie la cui fonte è spesso incerta e in cui il confine tra opinioni e informazioni è sempre più sfumata. In questo senso i social network sicuramente contribuiscono a creare il mondo della post-verità. Personalmente, sono convinto che subordinare la verità alla politica sia il primo passo per andare verso un regime autoritario. Penso che questo sia molto pericoloso… E non solo dal punto di vista americano. In Italia abbiamo la stessa percezione che i fatti e i dati non abbiano più alcun potere rispetto agli slogan ripetuti dai politici o da altri soggetti che vogliono acquisire consenso. Ed è così anche in altri paesi del mondo! Si tratta di un fenomeno globale. La post-verità ormai regna anche in Turchia, Polonia, nelle Filippine, o nella Russia di Putin, forse il primo ad aver intuito il potere che poteva derivare da questo fenomeno, o in Cina. In questo, i leader mondiali sembrano oggi sostenersi l’un l’altro. Alla post-verità in ambito politico, segue (vista l’esplosione pandemica di questi ultimi 2 anni) anche quella in ambito sanitario, quindi di fake news è pieno anche il mondo della scienza e della medicina. Occorre cercare di capire perché la gente nega l’evoluzione o crede alla frode provata del legame tra autismo e vaccini, oppure ancora nega il riscaldamento globale o il ruolo delle attività umane in questo. A mio parere il legame tra la persistenza di queste false credenze e la crescita della post verità in politica è forte. Ci sono voluti decenni perché si accettassero i dati scientifici che dimostravano i danni del fumo di sigaretta, contro gli slogan delle aziende che raccontavano ai consumatori proprio quel che si volevano sentir dire. Gli stessi consulenti hanno quindi consigliato alle aziende petrolifere di fare lo stesso con i cambiamenti climatici, creando e finanziando istituti di ricerca che fornissero dati sufficienti ad alimentare il dubbio. Per ottenere lo scopo bastava sostenere la tesi che ci fossero due possibili interpretazioni dei fatti, che la scienza fosse in qualche modo divisa e che quindi si potesse credere al fatto che gli aumenti di temperatura registrati negli ultimi 150 anni facciano parte delle normali fluttuazioni che il pianeta ha avuto nel tempo, non che stiamo andando per nostra responsabilità incontro a una catastrofe. I politici non ci hanno messo molto a capire che questo stesso metodo poteva essere usato per ottenere consenso e potere: mettere in dubbio i fatti con affermazioni non provate, rispondere ai dati con le opinioni, immedesimandosi nelle percezioni del pubblico, funziona sempre. Per spingere il pubblico ad accettare una riduzione di libertà in cambio di maggior sicurezza, per esempio, si può enfatizzare il rischio della criminalità. E davanti ai numeri che mostrano un calo delle rapine o dei delitti violenti, rispondere che questa non è la percezione della gente. Chi ascolta percepirà empatia nei propri confronti, senza accorgersi di essere ingannato. Confrontato con i dati, ricorderà un episodio di cui è stato testimone o vittima, a conferma di un dato generale. Un errore di ragionamento di cui, tuttavia, la maggior parte delle persone non è consapevole o che non riesce a dominare. Un approccio scientifico potrà aiutarci a difenderci anche dalle conseguenze politiche della post-verità? La scienza si basa su fatti dimostrati. Non è una verità assoluta, in alcuni casi si può evolvere nel tempo, ma non prescinde mai da dati oggettivi. Si basa sul rispetto di quella che chiamiamo evidenza scientifica, ma anche sulla flessibilità dello scienziato, capace di cambiare idea quando è messo davanti a nuovi risultati che smontano la sua precedente interpretazione della realtà. Il cuore della scienza è il pensiero critico, più che qualunque altro metodo o teoria, cioè esattamente il contrario dell’ideologia che anima e sostiene la post verità… Chi nega le verità scientifiche o sostiene pseudoscienze può negare anche qualsiasi altro dato di realtà. Chi è attaccato a un’ideologia farà qualunque cosa per difendere dalle critiche le idee a cui è affezionato. Un bravo scienziato, al contrario, deve sempre essere pronto all’eventualità che le sue teorie si dimostrino sbagliate. Personalmente penso che diffondere questa attitudine scientifica, l’adesione ai fatti con un atteggiamento critico, possa servire a contrastare la post verità anche in ambito politico… La domanda diventa quindi: “ESISTE UNA LOGICA IN POLITICA CONTRO LA DISTORSIONE DELLA REALTÀ?” L’economista Dambisa Moyo, nel suo libro “Edge of chaos”, teorizza la pratica di “un voto ponderato”, da calcolare in base al grado di conoscenza e informazione in materia di politica da parte degli elettori. La proposta provocatoria è volta a riporre maggior peso e valore al voto dei cosiddetti “elettori informati” rispetto a coloro che informati e consapevoli non sono; «se ti interessa la politica, se le dedichi tempo, energie e passione, è giusto che la tua voce, le tue scelte, il tuo voto, abbiano peso nel dibattito». L’espressione ironica – che forse più o meno tutti abbiamo pronunciato almeno una volta – “il problema è che il mio voto vale tanto quanto il tuo”, trova una sua definizione nell’opera dell’economista americana. Il tentativo dell’autrice è quello di risanare una democrazia ormai malata ed inefficace, vittima dei populismi del nostro tempo. Il popolo viene oggi esaltato in maniera mistica per condurlo dove si vuole, attraverso falsa informazione ed errori di ragionamento. Viviamo in un mondo caratterizzato da pensieri banalmente scorretti, ragionamenti inesatti e dialoghi sterili. Uno dei problemi più significativi è l’assenza di capacità di ragionamento, piuttosto che un effettivo disinteresse per le tematiche politiche. Se pur ci interessassimo e ci informassimo attraverso i più disparati canali di informazione, mantenendo tuttavia un modo di ragionare scorretto, tutta la nostra conoscenza sarebbe inutile. La pratica provocatoria del “voto ponderato” non apporterebbe alcun genere di miglioramento, anzi, esalterebbe i populismi e ci consegnerebbe un biglietto di sola andata per il 1892 (nel 1893 la Nuova Zelanda fu il primo stato al mondo a introdurre il suffragio universale). Quale potrebbe essere una soluzione? Aumentare i diritti; occorrono passi avanti e non indietro. La logica, l’arte del buon ragionare, può essere insegnata; la retorica, l’arte del buon parlare può essere appresa. L’obiettivo cui tendere dovrebbe essere non solo conoscenza dei fatti, ma conoscenza del modo di ragionare sui fatti. Individuare il corretto ragionamento come strumento per esser accolti nel processo decisionale democratico. Esso si qualificherebbe anche come linguaggio universale, quindi la definizione di un quadro unitario volto a superare le incomprensioni di comunicazione tra populisti e no. Un esempio di mancanza di comprensione è il dialogo tra sordi sul tema dell’immigrazione. La maggior parte degli italiani pensa che la presenza di stranieri in Italia superi il 25%, nonostante le statistiche affermino una percentuale dell’8, come riportato dallo studio “Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione” dell’Istituto Cattaneo1. La percezione sulla sicurezza è nuovamente fallata. Sebbene l’Italia diventi ogni anno più sicura, paura e senso di insicurezza continuano ad aumentare. L’unica cosa che rimane da fare (come sostenne recentemente un esponente politico italiano) per arginare quell’emotività che spesso rischia di distorcere la percezione della realtà sembrerebbe quella di continuare a presentare questi dati, a parlarne con le persone, a presentare i fatti…

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(*) Le euristiche sono, dunque, escamotage mentali che portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo. Quindi, i bias sono particolari euristiche usate per esprimere dei giudizi, che alla lunga diventano pregiudizi, su cose mai viste o di cui non si è mai avuto esperienza.
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