Politica: Paura e delirio in Ue. Ci si chiede, chi guiderà l’Europa? Il progetto per spostare a destra il Ppe, con l’alternativa di Macron e la palla nel campo socialista. In Italia la diatriba sul Pnrr è lo specchio dell’accentuarsi della crisi italiana e rispetto a quanto c’è in partita, con un pizzico di ridicolo in più…

L’attacco del governo alla Corte dei conti è l’ennesimo segnale della sua insofferenza a controlli e contrappesi, ma anche la replica di uno schema trentennale (Berlusconismo), in cui il leader di turno comincia invocando pieni poteri e finisce cercando capri espiatori… L’attacco del governo ai magistrati della Corte dei conti, colpevoli di averne certificato i ritardi nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è l’ennesimo segnale della sua insofferenza nei confronti di ogni autorità terza, ogni funzione di controllo, ogni potere indipendente. L’ira di Fitto: «La Corte dei Conti sia costruttiva». Meloni: «Siamo nei tempi, modifiche fino al 31 agosto». Una tendenza tanto più inquietante perché manifestata da chi vorrebbe al tempo stesso ridisegnare la Costituzione, ma anche un classico di tutti i governi populisti del mondo, a cominciare dal governo gialloverde a guida Cinquestelle, partito che nel 2018 chiedeva in piazza la messa in stato d’accusa del capo dello stato e denunciava in tv improbabili «manine» della burocrazia, per giustificare epurazioni e occupazioni a ogni livello. Ancora più preoccupante, inoltre, è che al centro di questo irresponsabile gioco delle tre carte ci sia oggi il Pnrr, cioè la principale e forse ultima occasione di far uscire l’Italia dalla sua trentennale stagnazione. Da giorni nel governo meloni si discute della possibilità – prevista dalla coalizione composta da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati – di ridiscutere il Piano nazionale di ripresa e resilienza: ecco cosa prevede il documento comune e le reazioni che ha suscitato. Senza nulla togliere alla gravità di questi comportamenti e di queste dichiarazioni, che confermano una costante tentazione autocratica della destra, con l’avvento meloniano, bisogna anche dire però, che la tentazione ungherese, è fin troppo consueta. Tanto da suggerire l’ipotesi che, al di là di tutte le motivazioni e le responsabilità già menzionate, vi sia alla base una ragione sistemica. Da molti anni si alternano in Italia governi politici e governi tecnici (o comunque di unità, responsabilità o salvezza nazionale che dir si voglia). Singolare forma di alternanza. È peraltro degno di nota che l’emergenza in grado di giustificare tanti improvvisi rimescolamenti parlamentari è in fondo sempre la stessa: il governo Dini nacque per non perdere l’aggancio all’unione monetaria europea; il governo Monti, per non esserne sbalzati fuori; il governo Draghi, per superare l’impasse che proprio sul Pnrr (oltre che sul piano di vaccinazioni) rischiava di riportarci al punto di partenza. Tale singolare forma di alternanza tra governi politici e governi tecnici si rispecchia poi in un’altra distorsione tipica di questi ultimi decenni, che riguarda tutti i maggiori leader di partito che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Dal loro punto di vista, infatti, la consapevolezza di questa sorta di spada di Damocle si è trasformata molto presto nella convinzione – fondata o infondata, ma io credo comunque sincera – di rappresentare non già il vertice del potere, ma la sua vittima sacrificale, il corpo estraneo da eliminare con ogni mezzo. Contribuisce a questa strana sindrome da accerchiamento, con ogni probabilità, un problema tanto banale quanto sottovalutato. Un deficit strutturale caratteristico del bipolarismo italiano, tale da non consentire quello che avviene ad esempio negli Stati Uniti, quando all’avvicendamento del capo della Casa Bianca seguono migliaia di nomine, a cascata, a tutti i livelli dell’amministrazione pubblica. Cosa significa ciò? Lo spoils system necessita infatti di una classe dirigente di ricambio, per dir così, pronta a subentrare all’indomani delle elezioni. In Italia però l’adozione improvvisa del maggioritario e delle prassi connesse all’inizio degli anni Novanta, in un sistema che non aveva mai conosciuto né l’uno né le altre, ha finito forse per rovesciare il rapporto di forze, o quanto meno per dare a molti questa impressione: non già politici eletti dal popolo che sulla base del loro mandato, e con tutti i contrappesi del caso, nominano e danno l’indirizzo all’insieme delle classi dirigenti, ma al contrario una classe dirigente sostanzialmente unica, e perciò immutabile, capace di condizionare e all’occorrenza persino cambiare i vertici politici, in misura largamente indipendente dagli esiti elettorali. Fondata o meno che sia, si direbbe che questa generale convinzione, paradossalmente, alimenti tutti i tentativi di forzare ulteriormente il sistema in direzione maggioritaria e presidenzialista, in un circolo vizioso, o meglio, in un gioco di azione e reazione, in cui il leader carismatico di turno s’illude ogni volta di poter fare cappotto, conquistare i pieni poteri e uscirne come padre della grande riforma. Senza avvedersi di come, in tal modo, non faccia altro che allestire l’ennesima battuta di caccia alla volpe, proprio nei panni della volpe. Il gran casino che il governo Meloni sta combinando sul Pnrr potrebbe essere in fondo solo un caso particolare – ancorché drammaticamente rilevante – di tale regola generale. Prima ostinandosi a centralizzare ogni decisione a Palazzo Chigi (proprio come voleva fare Giuseppe Conte, guarda un po’) e poi cercando di scaricare su altri la responsabilità dei ritardi e delle inefficienze (che sono indubbiamente anche di altri, ma che non si possono denunciare dopo avere preteso di fatto i ‘pieni poteri’). E Giorgia Meloni sembra apprestarsi a ripetere il solito copione di questi trent’anni, in cui leader di fatto sempre più deboli pretendono di volta in volta poteri sempre più estesi, finendo per non combinare nulla e dando pure l’impressione di cercare alibi (nella migliore delle ipotesi), sollevando comunque contro di sé potenti e non sempre infondate reazioni di rigetto (persino in coloro che li hanno votati)… Questa volta questo disegno di accentramento di potere nelle mani del leader, qui descritto, è corroborato da un interrogativo politico legato alle prossime elezioni europee, che si terranno tra un anno. L’interrogativo è: Chi guiderà l’Europa? Come va delineandosi sempre più chiaramente, c’è un progetto per spostare a destra il Ppe, con la sola alternativa di Macron e la palla buttata nel campo socialista… Proprio Giorgia Meloni, sta lavorando con Weber a un’alleanza tra Destra e Popolari che passa dal togliere la fiamma dal simbolo di Fratelli d’Italia. Renew Europe (Macron con qui da noi i ‘resti’ del Terzo Polo e le briciole di +Europa e qualche altro cespuglio) prova a fare da argine, mentre il Pse deve scegliere se inseguire l’estremismo o cercare un’intesa con i liberali. Lo scoop di Maurizio Molinari sulla Repubblica: «La premier tratta con il Ppe sulla fiamma nel simbolo» (proprio oggi, Meloni risponde che, “la fiamma non si tocca”) mostra il punto sullo stato d’avanzamento lavori per questa inedita alleanza strategica a livello europeo tra i Popolari e i Conservatori. Per una serie di condizioni favorevoli a questo progetto, a partire dalla crescente perdita di peso dei socialisti, Giorgia Meloni da tempo si è inserita nel grande gioco europeo come protagonista di una possibile svolta a destra dell’Unione europea che potrebbe portare – si dice ma è tutto da vedere – Antonio Tajani alla guida della Commissione europea. E va dato atto alla premier italiana di un buon tempismo nel sapersi piazzare al centro della trattativa con un Ppe alla ricerca di una linea politica: per la “famiglia” di Helmut Kohl e Angela Merkel l’interrogativo riguarda se confermare l’ispirazione centrista e democratica o virare a destra, non esattamente un dettaglio. Nella trattativa – lo spiega bene il direttore di Repubblica – viene chiesto alla leader di Fratelli d’Italia di togliere la fiamma almirantiana dal simbolo, che è il simbolo della continuità con il Movimento sociale italiano a sua volta incarnazione della eredità del fascismo italiano. I simboli sono solo simboli ma spesso la loro caduta esemplifica una svolta politica e ideale. In fondo, quando nell’Ottantanove i rumeni lasciarono un buco nelle loro bandiere – laddove prima c’era la falce e martello – fecero un gesto storico, e sempre in quell’anno i comunisti ungheresi del Posu facendo cadere la “u” si denominarono socialisti. Sono gesti. Dietro i quali poi ci deve essere la sostanza, ed è qui il punto dolente del “melonismo”: inutile girarci intorno, il tema non è mai stato quello del rapporto più o meno nostalgico con il fascismo del Ventennio ma con il neofascismo dell’ultimo mezzo secolo: è su questa abiura, che non le chiedono i “comunisti” (??), ma i popolari europei, con la Meloni ‘machine’ che inchioda le sue ruote e non va né avanti né indietro rimanendo impantanata nella fanghiglia di un passato che non passa. Sembrava che qualche cauta disponibilità a togliere la fiamma ci fosse, addirittura qualcuno prevedeva il grande annuncio alla vigilia del 25 aprile, cosa che poi non è accaduta, e qualcun altro – lo spiega sempre Molinari – potrebbe aver insufflato alle orecchie di Meloni che togliere quel simbolo agevolerebbe una “costituzionalizzazione” di Fratelli d’Italia utile, tra l’altro, a raccogliere ciò che resterà di Forza Italia. Dall’altra parte, però in FdI, temono di perdere un pezzo della base più nostalgica del partito (da ciò la negazione di detta disponibilità). Vedremo come evolverà questa trattativa da cui in buona sostanza dipende l’esito delle Europee dell’anno prossimo che già da adesso si prospettano come uno spartiacque addirittura storico: il voto in Italia dovrà essere tra queste opzioni, la destra o l’asse liberal-socialista-popolare. L’onda conservatrice e di destra appare infatti quasi irresistibile (da ultimo lo abbiamo visto con le elezioni in Grecia) per ragioni varie e complesse che investono il “senso comune” (tutt avrebbe detto il Manzoni tanto citato in questi giorni, cioè un orientamento di massa a favore della chiusura nazionalistica e della rimessa in discussione di diritti che parevano acquisiti. Parallelamente – perché un piatto della bilancia sale mentre l’altro scende – c’è da osservare che la cosiddetta “maggioranza Ursula” imperniata sul tradizionale asse socialisti-popolari sta andando in frantumi sotto il peso della crisi delle forze democratiche e segnatamente dei socialisti europei. Praticamente i socialisti ormai reggono solo in Portogallo e Spagna, anche se a Madrid cresce l’opposizione del partito popolare (come mostrano i test amministrativi in corso), governano ancora in Germania ma sempre più con un certo affanno (il Paese di Olaf Scholz è persino entrato in recessione), nel Nord Europa c’è stata una sconfitta dietro l’altra, ad est la destra impera, in Francia c’è di tutto tranne appunto i socialisti, da noi il Partito democratico, che pur non essendo un partito socialista è molto a suo agio nel Pse, sta lì all’opposizione senza per ora costituire una potenziale alternativa di governo. In questo quadro, al fine di fare argine ai potenziali vincitori di destra supportati dai popolari, ci possono essere nuove forze democratiche e liberali guidate da Emmanuel Macron, l’uomo che pur con tutti i problemi e gli errori ha salvato per ora la Francia dalla estrema destra di Marine Le Pen e dal populismo estremista di sinistra di Jean-Luc Mélenchon, la figura che può fare da cerniera tra socialisti e popolari: è in ogni caso questa l’area che deve reggere l’urto dei nazionalisti, deve fare barrage in Francia e altrove alla nuova destra: per questo forse Meloni ha seppur tardivamente capito che con il presidente francese è meglio non fare a botte, come ha raccontato ieri Marco Galluzzo sul Corriere della Sera. Macron vuol dire il progetto di Renew Europe, che nei prossimi mesi dovrà sapersi incuneare nello sghembo bipolarismo europeo. «Noi di Renew Europe – ci dice un sempre più “impavido” Sandro Gozi – vogliamo costruire un’Europa sovrana e democratica, proseguire la transizione ecologica e digitale e dotarci di una potenza autonoma. Per questo è necessaria una nuova maggioranza europeista. Meloni, Weber, Metsola e Tajani vogliono spingere il Ppe all’estrema destra e dividere l’Unione ma penso che non ci riusciranno»: messa così, ed è così, anche per i socialisti si pone una scelta di fondo, se inseguire l’estremismo autocondannandosi all’emarginazione politica o cercare un’intesa con le forze democratiche e liberali. È chiaro che togliere l’aggettivo “democratici” dal nome del gruppo parlamentare lasciando solo “socialisti” sarebbe un passo indietro, e infatti non si dovrebbe fare (ma già solo il tentativo di qualcuno la dice lunga). Insomma, di fronte alla forza del progetto di Meloni e Weber, e alla proposta di Renew Europe, la parola è ai socialisti, che stavolta rischiano – e non sarebbe la prima volta nella storia – di consegnare l’Europa alla destra estrema a causa della difesa di una propria “purezza identitaria” ormai alquanto offuscata. Alla fine, c’è sempre qualcuno più puro che ti epura… questa è la vera partita in gioco nel Risiko geopolitico che va definendosi in questo primo quarto di secolo del terzo millennio bisognerebbe (che le opposizioni italiane) Pd in testa, cominciassero a prenderne coscienza e a pensarci senza perdere ulteriore tempo…

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