
Seconda parte
La paura del trumpismo e della Cina sono le ragioni alla base del riallineamento del centro-sinistra americano. Ma per capire la direzione di marcia del mondo post-neoliberale e la
forma del nuovo interventismo statale è anche necessario esaminare il contenuto programmatico di questa nuova visione politica. Questo si può riassumere in due concetti: una visione dell’infrastruttura come nuova priorità essenziale e un’inversione topologica dell’idea di sviluppo del periodo neoliberista, in cui la ricetta elitista del gocciolamento verso il basso (trickle-down economics), viene sostituita da una visione che si focalizza sul rafforzamento della base economica e della domanda.
Ridotto rispetto alle aspettative iniziali, il piano bipartisan da 1,2 trilioni di dollari al momento in discussione nel Congresso, punta non solo a riparare ponti, strade e linee ferroviarie, ma anche a mettere le basi per la transizione a un’economia post-petrolio, con energie rinnovabili e auto elettriche. Dare priorità a tali investimenti deriva dalla condizione precaria di buona parte delle infrastrutture essenziali (trasporti, energia, utilities, eccetera) a causa di decenni di progressivo disinvestimento. Come notato da Deese nell’intervista precedentemente citata, una delle principali ragioni per la percezione di declino vissuta dagli Stati Uniti è proprio la condizione pietosa del suo sistema di trasporti. Mentre la Cina ha ormai decine di migliaia di chilometri di treni ad alta velocità,
gli Stati Uniti non ne hanno neppure uno. E mentre tutte le città cinesi sono dotate di trasporti pubblici di ultima generazione, in città statunitensi come New York e San Francisco si usano metropolitane antiquate con treni risalenti agli anni ’70 e primi ‘80.
Se un tempo si andava negli Stati Uniti per vedere il futuro adesso vi si va per vedere il passato, mentre l’opposto vale per la Cina. Il ritardo infrastrutturale degli Stati Uniti è un problema noto ormai da tempo. Già Obama aveva promesso di metterci mano, ma gli investimenti ammontavano a appena un quarto di quanto messo in campo da Biden. Anche Trump, che aveva promesso di investire in infrastrutture, finì per fare interventi molto limitati, e c’è chi sostiene che la mancata realizzazione di questo piano, che avrebbe goduto di grande popolarità presso i lavoratori, gli sia costata la rielezione. Biden sembra intenzionato a evitare gli errori dei suoi predecessori, ma resta da vedere cosa uscirà dai negoziati bipartisan. Oltre a trasporti e rete elettrica, anche altre questioni – come la cura di malati e anziani – vengono spesso presentati come questioni infrastrutturali. Interventi a favore dei “lavoratori della cura” sono stati inseriti nel pacchetto sulle infrastrutture e i consiglieri economici di Biden spesso fanno riferimento al bisogno di rafforzare l’“infrastruttura sociale”.
La logica è che il disinvestimento in servizi pubblici essenziali, come la cura, l’educazione e la salute, ha contribuito a minare le basi dell’economia, ad esempio rendendo difficile alle donne conciliare maternità e lavoro. Questa enfasi su bisogno di investimenti in infrastrutture è estremamente rilevante anche nel contesto europeo. Se in diversi paesi la situazione dei sistemi di trasporto non è ancora così malconcia come negli Stati Uniti, negli ultimi anni si sono viste le conseguenze di decenni di disinvestimento pubblico. Ne è esempio il crollo del
Ponte Morandi a Genova nell’agosto 2019, che ha causato la morte di 43 persone. La manutenzione era a carico della società privata Atlantis controllata dalla famiglia Benetton e l’evento è diventato una parabola sugli effetti nefasti delle privatizzazioni dissennate degli anni ’90 e l’incapacità del mercato nel garantire servizi essenziali… La questione climatica rende ancora più urgenti interventi infrastrutturali, e questo spiega perché buona parte dei fondi di Next Generation EU siano finalizzati a questo scopo. La transizione verso un’economia “carbon neutral” richiederà enormi investimenti in nuove reti elettriche, in energie rinnovabili e in stazioni di ricarica per la mobilità elettrica. Inoltre, come reso tragicamente evidente dalle devastanti alluvioni in
Germania di luglio 2021, (nonché per quel che ci riguarda da molto vicino, la più recente alluvione dell’ Emilia e Romagna) saranno necessari
enormi progetti di manutenzione del territorio, per fare fronte al dissesto idrogeologico, prepararsi all’innalzamento dei livelli dei mari e eventi meteorologici sempre più estremi. Questa urgenza, tuttavia, cozza con il conservatorismo fiscale che continua a tenere banco in molti paesi – a partire proprio dalla Germania. Armin Laschet, il successore di Angela Merkel alla guida della CDU e governatore della regione Nord Reno Vestfalia, colpita duramente dalle inondazioni, vuole ritornare il prima possibile all’austerità e al cosiddetto “freno sul debito” (Schuldenbremse), costringendo gli altri paesi europei a seguire il capofila. È vero che i sostenitori più fanatici dell’austerità sono oggi più isolati a livello europeo.
Nel dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità e di Crescita sospeso a inizio pandemia e fino a fine 2022, si parla di non contabilizzare nel deficit la spesa per investimenti per la transizione ecologica e digitale come proposto dal Commissario all’economia Paolo Gentiloni. Tuttavia, bisogna aspettarsi forti resistenze dai cosiddetti paesi frugali e dai conservatori tedeschi, che alla visione dell’Unione Europea come mezzo di sviluppo preferiscono una
UE votata alla disciplina dei paesi membri e in particolare quelli del Sud Europa accusati di pigrizia e sprechi. Insomma, se gli Stati Uniti sembrano proiettati verso l’orizzonte post-neoliberista, il vecchio continente arranca. L’altro elemento caratterizzante del nuovo consenso bipartisan che si va profilando a livello internazionale è la promessa di prendere di petto la crescente diseguaglianza economica, vista ormai come un serio limite alla crescita e alla credibilità delle democrazie capitaliste occidentali.
Lo scontro geopolitico e ideologico con la Cina sembra stia portando pezzi dell’establishment a più miti consigli, per il timore che i lavoratori comincino a simpatizzare per il modello cinese; una sorta di riproposizione dello schema della Guerra fredda, in cui i paesi occidentali fecero concessioni ai lavoratori al fine di pacificare il conflitto sociale. È significativo che al vertice del G7 di quest’anno si sia sottolineato il bisogno di lottare contro “l’abbassamento degli standard lavorativi e ambientali per ottenere un vantaggio competitivo”. Scende in campo anche: Henry Kissinger, il veterano della diplomazia per la sua «ultima missione» in Cina.
Il centenario ex Segretario di Stato Usa ha incontrato il presidente Xi Jinping dopo un volo di 15 ore. Saprà far ripartire il dialogo tra Washington e Pechino? Questa la domanda esiziale… Venti anni fa, durante il G8 di Genova del 2001 finito in una “macelleria messicana”,
come ammesso da un dirigente della polizia, quando si parlava di povertà ci si riferiva ai paesi del Terzo Mondo. Oggi la povertà è un problema che i paesi industrializzati vivono a casa propria. Se i neoliberisti della prima ora vedevano la diseguaglianza come un fatto potenzialmente positivo perché avrebbe messo in moto l’imprenditorialità, oggi essa è vista più come un rischio per la tenuta del capitalismo e un freno alla domanda. Questo cambio di percezione aiuta a capire l’immaginario che sottende i nuovi slogan della politica post-pandemica. Negli Stati Uniti di Biden si parla molto della necessità di sollevare i livelli minimi o “raise the floor” (sollevare il pavimento), laddove fino a poco tempo fa l’urgenza sembrava essere solo quella di innalzare il “soffitto” delle aspirazioni imprenditoriali: “lift the ceiling”.
Ne è esempio la promessa fatta da Biden – ma per il momento bloccata nel Congresso – di portare il salario minimo a $15 all’ora e favorire una spinta al rialzo degli stipendi anche grazie a un rafforzamento del Sindacato. La risposta del centrodestra è ben rappresentata invece dallo slogan usato insistentemente da Boris Johnson quando era il leader inglese del governo britannico: “levelling up”, ovvero un “appianamento verso l’alto”. In qualche modo (meno maldestramente rispetto all’opinione pubblica) replicato dall’attuale Primo Ministro
Quello che condividono questi slogan è la convinzione che le diseguaglianze prodotte dalla globalizzazione sono ormai diventate dannose per il bene del capitalismo. Ma le soluzioni che propongono sono piuttosto diverse. La promessa di Biden ha un sapore più universalista e punta a costringere gli imprenditori a mettere la mano al portafoglio. Quella di Sunak si focalizza invece sulla diseguaglianza territoriale e la divaricazione metropoli/periferie che ha alimentato molti movimenti populisti. Il leader del Labour Keir Starmer ha accusato più volte Johnson e palesemente ciò vale ancor di più per il “ricchissimo”
Sunak, in odore di conflitto di interessi, di fare politiche clientelari. Ma il problema del Labour è che, al contrario dei Democrats di Biden, invece di guardare avanti è tornato al blairismo, e sembra addirittura intenzionato a soffiare ai Tories il ruolo di partito della rettitudine fiscale…
Infine, il ritardo con cui la socialdemocrazia europea sta affrontando questo cambio di fase dimostra che il cambiamento ideologico è molto preoccupante e rischia di spalancare le porte a una nuova ondata del populismo di destra. Il pericolo è che un capitalismo più statalizzato e nazionale possa essere
messo a servizio dell’agenda reazionaria della nuova destra come sostenuto recentemente da James Meadway. È significativo che, mentre abbandonano alcuni dogmi neoliberisti, i Tories stiano estremizzando le loro posizioni sull’immigrazione e alimentando la guerra culturali sui valori. Lo scenario da evitare è quello di una sorta di riproposizione post-globale dello stato corporativo in cui un’alleanza sempre più stretta tra governo e compagnie nazionali vada a spesa dei lavoratori e della democrazia. Anche il piano di Biden, per quanto sia molto più ambizioso di quello delle sue controparti europee, rischia di essere insufficiente allo scopo di sollevare l’economia da una stagnazione che ormai sembra in fase cronica. Se investimenti pubblici e politica industriale sono un componente necessario di un neostatalismo progressista, è anche necessario mettere in moto politiche redistributive radicali, minando il potere degli oligopoli e dei nuovi baroni dell’economia come
Jeff Bezos e Elon Musk, e rimettendo in circolo risorse che possano stimolare la domanda. Una mancanza di coraggio su questo fronte potrebbe presto proiettarci in un decennio ancora più disperato dei 2010, riaprendo le porte della Casa Bianca a Trump o a un suo successore. La pandemia sembra avere rimesso in moto la ruota della storia.
Ma se la nuova epoca sarà di segno progressista o regressivo rimane in forse. Quello che appare certo è che il dibattito si incentrerà non tanto sul mercato, ma sul ruolo dello Stato nel contesto post-pandemico e su quale tipo di società debba essere ricostruita sulle macerie del neoliberismo; a partire dalle fondamenta o, per usare la retorica bidenista, dall’infrastruttura…
(continua)
Bibliografia:
Joseph E. Stiglitz, The End of Neoliberalism and the Rebirth of History, Project Syndicate, 4 novembre 2019; Paolo Gerbaudo, The Great Recoil : Politics After Populism and Pandemic, Verso Books, in pubblicazione ad agosto 2021; The Ezra Klein Show, « The best explanation of Biden’s Thinking I’ve Heard », The New York Times, 9 aprile 2021; Joshua Kurlantzick, State Capitalism. How the Return of Statism if Transforming the World, Oxford University Press, 2016; Jeff Stein, « Trump’s 2016 campaign pledges on infrastructure have fallen short, creating opening for Biden », The Washington Post, 18 ottobre 2020; Ben Wright, « Levelling up : Boris Johnson promises more power for local leaders », BBC News, 16 luglio 2021; James Meadway, « Neoliberalism is Dead and Something Even Worse is Taking Its Place», Novara Media, 29 giugno 2021; Mario Agostinelli e Debora Rizzuto, “Il mondo al tempo dei quanti. Perché il futuro non è più quello di una volta” (prefazione di Gianni Mattioli e Massimo Scalia, postfazione di Carlo Galli), Mimesis Edizioni, 2017.
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