Politica: Senza Calenda cosa devono fare i Democratici e progressisti? Devono fare solo una cosa, chiedere un voto “per” e non solo contro…

Scelte chiare, specie sui temi sociali e ambiente. Ora più che mai, un’identità nitida è la sola via per non lasciarsi definire dagli apparentamenti fatti o mancati. È facile ora irridere il complicato tentativo di Enrico Letta di costruire attorno alla lista unitaria promossa dal Pd, da Articolo Uno e da altre forze, quella dei Democratici e Progressisti, un quadro di apparentamenti il più largo possibile nelle condizioni date. Condizioni segnate pesantemente da due macigni che il centrosinistra si è ritrovato sulla strada. Il primo è l’improvvida decisione di Conte di togliere la fiducia al governo Draghi a pochi mesi dalla scadenza naturale della legislatura, decisione che – forse perfino al di là delle intenzioni dell’autore, ma per una inesorabile logica della politica – ha spinto inevitabilmente il M5S verso l’illusione di un ritorno alle origini in chiave antisistema. Il secondo è il precipitare verso elezioni anticipate in vigenza del pessimo Rosatellum (che Letta peraltro è uno dei pochi a non aver votato nella scorsa legislatura, a differenza, ad esempio, di Lega e Forza Italia). In un quadro del genere, è difficile contestare la ragionevolezza del tentativo di creare un sistema di apparentamenti che eviti di regalare alla destra un vantaggio preventivo e incolmabile nei “finti” collegi uninominali del Rosatellum, in cui diverse liste, che non devono presentare né un programma né una leadership comune, possono collegarsi a un unico candidato, rispetto al quale non è possibile alcun voto disgiunto o personale, ma che semplicemente riceve la somma dei voti delle liste apparentate. In presenza di un sistema elettorale così opaco e irrazionale, è stato giusto provarci fino in fondo con Calenda, enfatizzando i punti di contatto sul programma e accettando una sovra-rappresentazione del suo partito nei collegi uninominali, ed è stato giusto non accettare i suoi veti preventivi su altre forze, come Sinistra Italiana e Verdi, che non hanno appoggiato il governo Draghi ma non hanno tratto da questa posizione il rifiuto a una posizione costruttiva e a un’intesa tecnico-elettorale con il Pd. Si può rimproverare a Letta di non aver tenuto conto del fatto che il livello di irrazionalità e imprevedibilità di Calenda è superiore perfino alla lotteria dei resti del Rosatellum, ma i rilievi sarebbero stati ben più corposi se il tentativo non fosse stato fatto. E, in ogni caso, l’accordo rispetto al quale Calenda ha fatto marcia indietro consentirà al centrosinistra l’apparentamento con la componente di +Europa guidata da Emma Bonino. Ora, fatto che si poteva umanamente fare per limitare i danni dell’errore esiziale compiuto ai tempi del Conte II (quando ci si è accodati alla demagogia del taglio secco dei parlamentari promosso dai 5S senza esigere una contestuale riforma della legge elettorale, anche in quel caso peraltro con il voto favorevole di tutta la destra…), per la lista dei Democratici e Progressisti si tratta di voltare pagina e di impostare una campagna elettorale che metta al centro la novità e l’ambizione del proprio progetto politico, riducendo il tema degli apparentamenti a ciò che deve essere, pura tecnica elettorale per evitare di giocare una partita truccata in partenza. Gli apparentamenti non delineano un compiuto progetto di governo, questo è vero. Ma è un progetto di governo il patto di potere che Berlusconi e Salvini hanno stretto con la Meloni in 24 ore, senza uno straccio di idea comune sulla politica estera, sull’Europa, sui conti pubblici, sul giudizio sul governo Draghi, sul rapporto fra Stato e mercato, perfino su ciò che per i sedicenti “sovranisti” dovrebbe essere un valore sacro, quell’unità dell’Italia minacciata da sgangherati progetti di autonomia differenziata? Dal lato del centrosinistra c’è al momento un evidente svantaggio numerico, ma pure un potenziale grosso vantaggio politico, quello di un baricentro chiaro e di una lista che con la sua dimensione può imprimere la sua impronta a tutto il campo dell’alternativa alla destra, senza le cacofonie e i controcanti che già stanno caratterizzando i primi passi della campagna del centrodestra. Da questo punto di vista, l’abbandono di Calenda può rivelarsi perfino un’opportunità. A condizione che si cominci da subito a fare quel che lui ha imputato al Pd di non voler fare, ma che in realtà la sua presenza incontinente avrebbe più complicato: una campagna non “contro” ma “per”, basata su una chiara idea di Italia, di Europa, di società, senza messaggi contraddittori e senza che sia in discussione chi ha in mano il timone dell’alternativa alla destra. È naturale che ogni campagna “per” è allo stesso tempo anche “contro”, ma un conto è impostare la battaglia sulla contrapposizione alla destra delle idee che si propongono in materia di lavoro, lotta alla precarietà, fisco, sanità e istruzione pubblica, transizione energetica, politica industriale, integrazione, diritti, Mezzogiorno e unità dell’Italia, altro è centrare la campagna elettorale sull’emergenza democratica e antifascista o solo sull’affidabilità internazionale. Che il Pd e i suoi più stretti alleati siano forze responsabili e che il Paese potrà farvi affidamento in altre situazioni di emergenza, gli italiani lo sanno già. Così come nessuno può mettere in discussione che queste forze siano quelle che hanno sostenuto con maggiore lealtà il governo Draghi, ben più di chi oggi si richiama propagandisticamente alla sua “agenda”. Per convincere quella larga maggioranza di italiani che o pensa di rimanere a casa o non è del tutto convinta di votare la destra, bisogna provare però a parlare alle loro vere preoccupazioni. Che non sono quelle della svolta autoritaria o del cambio di alleanze internazionali, a cui in fondo nessuno crede. Chi non ha già deciso di votare il centrosinistra e non è convinto di questa destra, in fondo pensa che ancora una volta quest’ultima non reggerà la prova di governo. E le stanche litanie sul blocco dell’immigrazione e sulla flat tax non sembrano accendere stavolta grandi entusiasmi. Letta, Speranza e gli altri protagonisti dei Democratici e Progressisti sono chiamati ora a proporre alla larga area di italiani incerti o disillusi non solo l’affidabilità di una lista che può risultare realisticamente la più votata, ma soprattutto un progetto di cambiamento fatto di scelte chiare, specie sui temi sociali e dell’ambiente. Come dice Gianni Cuperlo: “Adesso parleremo al Paese di salari, diritti e ambiente”. Ora più che mai, un’identità nitida è la sola via per non lasciarsi definire dagli apparentamenti fatti o mancati. Peraltro, se la lista si avvicinasse o superasse il 30%, il sistema degli apparentamenti potrebbe rivelarsi utile a produrre un risultato sorprendente rispetto a quello che oggi molti danno per scontato. A quel punto, sulla base dei rapporti di forza decisi dagli elettori, nessuno potrebbe avere dubbi su quali sarebbero le priorità programmatiche e le discriminanti internazionali di un governo guidato dai Democratici e Progressisti. Se invece la destra dovesse ottenere la maggioranza, almeno sapremmo che si è gettato il seme di un progetto alternativo, di cui (presto) l’Italia potrebbe avere comunque bisogno, quando la durezza della realtà interna e internazionale presenterà il conto alla demagogia di Meloni, Salvini e Berlusconi…

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Commenti

  1. Massimo Nozzi  Settembre 4, 2022

    Mi spiace ma sono preda delle loro contraddizioni tra Bettini e ritorno al Pci
    Renzi lo ha capito e li ha lasciati al loro destino è al loro immobilismo

    rispondere

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