Politica: spesso un motore immobile. La politica ci riguarda tutti da vicino (anche se spesso non sembra). Difendere i diritti delle famiglie omogenitoriali equivale a tutelare le libertà individuale e collettiva…

Complessa, noiosa, ripetitiva, litigiosa e faziosa: la politica appare spesso distante anni luce dalle nostre preoccupazioni quotidiane, ma è uno strumento essenziale per far valere i nostri diritti di cittadini. Sempre più spesso si pensa che la politica sia una cosa lontana… solo un gruppetto di persone, uomini e donne, che parla tanto ma che fa poco… Poi, a volte un po’ per caso, ci si trova a comprendere che non solo la politica è alla base di quasi tutto, quante tasse paghiamo, il nome che portiamo sui documenti, quanto costa un filone di pane, e che imparare le regole ufficiali e quelle informali di dove la politica si esercita (i palazzi del governo, il Parlamento, i bar del centro, i ministeri e le banche centrali) aiuta a prevedere un po’ il nostro futuro, come si suole dire: “tutto quanto fa politica”. I meccanismi in politica si ripetono, come le stagioni, e conoscerli permette di capire se un governo sta per entrare in crisi, su quali leggi e su quali riforme punterà, e che tipo di alleanze faranno i partiti (spoiler: non c’entra la simpatia personale, ma la legge elettorale in vigore). Ma partiamo dall’inizio: che cos’è la politica? Tutti noi intuitivamente sappiamo cosa vuol dire, ma trovare una definizione unica è quasi impossibile. È un termine che fa parte del vocabolario di base e lo usiamo sia per indicare il governo in carica e i partiti politici che lo compongono, sia per dare un’etichetta alle nostre idee e alla nostra identità. Anche se a volte la diamo per scontato, «politica» è una parola potente in quanto è sia scienza, quella di governare, sia emozioni, in quanto le leggi approvate dal Parlamento, le decisioni di un governo, e le sentenze dei tribunali hanno un impatto diretto sulla nostra vita. La parola «politica» deriva da quella greca pólis, città-stato, e il percorso dallo Stato – ovvero l’organizzazione politica e giuridica che regola la convivenza di una popolazione in un territorio delimitato da confini – ai cittadini avviene attraverso il governo e le leggi in vigore, che determinano i diritti e i doveri di ognuno di noi. In italiano la stessa parola, «politica», identifica entrambi i concetti, ma basta tradurla in inglese per sdoppiare il significato in due termini ormai entrati nel nostro vocabolario: politics, la politica che indica il consenso popolare, e la policy, la politica pubblica, quella delle decisioni pratiche che risolvono questioni concrete. Se questa è la definizione teorica, c’è un momento esatto in cui ognuno di noi entra in contatto con la politica per la prima volta. Non è il momento in cui nasciamo, ma quello in cui veniamo registrati con un atto di nascita, e iniziamo a esistere per lo Stato con un nome, un cognome e un codice fiscale. Ogni giorno in Italia si firmano circa mille atti di nascita, e nulla nel processo con cui si redige questo documento è lasciato al caso. Non lo è la dimensione delle pagine del registro in cui l’atto viene conservato – 32 per 44 centimetri come stabilito da un decreto ministeriale del 1958 – e non lo è la procedura, che non è quasi cambiata da quella indicata in un decreto regio del 1939, quando l’Italia è un regno, e a capo del governo c’è Benito Mussolini. Siamo al mondo da poche ore, e la politica ha già una regola che cambia le nostre vite: come registrare la nostra nascita. Quando nasce un bambino, i genitori hanno a disposizione dieci giorni per dichiarare l’evento negli uffici del comune di residenza, dove firmano l’atto insieme all’ufficiale di stato civile, che può essere il sindaco o una persona da lui delegata. Si tratta dello stesso ufficiale che celebra matrimoni e unioni civili, e che firma gli atti di morte. A quel punto, trasmette una copia dell’atto originale che viene depositata nella Prefettura che ha competenza nella zona. Nel 1997 la procedura è stata modificata così che adesso è possibile dichiarare la nascita direttamente nell’ufficio amministrativo dell’ospedale; sì, proprio quella stanzetta difficile da trovare, nascosta in fondo a mille corridoi tutti uguali, tra un ambulatorio e un centro analisi. Questa è ormai la procedura più comune, ma esistono molte eccezioni che riflettono come le regole in vigore in un Paese si plasmino sull’unicità di un cittadino. Le formule utilizzate in un atto di nascita sono standard, ma modulabili in base della famiglia. Se i genitori del neonato sono sposati si usa la formula «nato dalla donna coniugata con», e questo è l’unico caso in cui un atto di nascita può essere firmato solo da un genitore, per esempio il padre, in quanto l’altro genitore è «presunto». In altre parole, se due persone sono sposate si dà per scontato che entrambi siano i genitori. Invece, se un uomo e una donna non sono sposati, devono firmare entrambi e di persona l’atto, che in questo caso usa l’espressione «unione naturale». È solo dal 2012 che i figli nati da un uomo e una donna non coniugati hanno gli stessi diritti legali dei figli legittimi, quindi nati all’interno del matrimonio, e questo è stato reso possibile con una modifica del Codice civile che ha anche riconosciuto i vincoli parentali derivati, quindi con i nonni e gli zii. In altre parole, fino al 2012 i figli nati da genitori sposati avevano maggiori tutele legali rispetto ai figli nati da un uomo e una donna non sposati. Se per alcuni ci sono voluti diversi anni per capire quanto la politica cambi la nostra esistenza, nel caso dei nostri figli bastano poche ore dalla loro nascita per comprenderlo. La legge che regola la registrazione dell’atto di nascita di ogni nuovo nato, infatti, non prevede un caso, ossia quello in cui i genitori siano dello stesso sesso: due mamme o due papà. Non esiste una legge nazionale che contempli la possibilità che due persone dello stesso sesso figurino come genitori, ma non ne esiste neanche una che lo vieti, e in questo caso la decisione spetta all’ufficiale di stato civile, quindi al sindaco. È questo il caso di un certo numero di famiglie ed è il motivo per cui, per poter firmare l’atto con cui un loro figlio inizi a esistere per la politica, quando lui ha poche ore di vita, due mogli o due mariti… si rechino negli uffici comunali dove il sindaco o un suo delegato (e sono ancora pochi in Italia) firmi l’atto di nascita che indichi come genitori di quel figlio due donne o due uomini. Firmare un atto di nascita con due mamme o due papà è un quindi un preciso gesto politico, una dichiarazione di intenti che può segnare l’inizio di una lunga battaglia civile, contro ogni discriminazione… anche se in quel momento ancora quei figli non lo sanno. Fino a pochi giorni addietro, il giorno della loro nascita, alcuni bambini venivano riconosciuti dalla politica con due mamme o due papà come genitori, con i loro due cognomi e con la formula «progetto familiare». Ora: la Commissione Politiche europee del Senato ha detto no alla proposta Ue di riconoscere i diritti dei figli coppie gay e ha respinto il certificato europeo di filiazione. Ma non basta: Dai bambini delle coppie omosessuali ai figli delle detenute, la destra dimostra di essere oscurantista e molto indietro rispetto al Paese.  In una coazione a ripetere intollerabile per la rozzezza delle argomentazioni, la ferocia e la disumanità degli obiettivi, l’oscurantismo ideologico delle premesse, la destra al governo – o almeno due dei suoi pilastri, FdI e Lega – annichilisce il disegno di legge di iniziativa del Pd immaginato per cancellare la vergogna dei bambini costretti a nascere e trascorrere la loro prima infanzia in carcere o in strutture para-carcerarie per la sola colpa di essere stati generati da madri condannate a pene detentive. E lo fa riproponendo lo stucchevole canovaccio agitato ogni qual volta, in questi mesi, la discussione parlamentare ha incrociato il tema dei diritti della persona. Che si trattasse di migranti piuttosto che del regime carcerario del 41 bis, di bambini figli di coppie omogenitoriali, o, appunto, di figli minori di detenute. Con una grossolana manipolazione, FdI e Lega sono infatti riusciti a rovesciare sull’opposizione l’accusa grottesca di voler “proteggere”, alternativamente, “i mafiosi al 41 bis”, “gli scafisti e i trafficanti di esseri umani”, “il commercio di bambini comprati con uteri in affitto” e ora, niente di meno, che le “borseggiatrici recidive che usano i loro figli per sfuggire alla galera”.  La politica italiana dovrebbe essere concreta e pratica.  È codice fiscale, è fascia di reddito sulla quale sono calcolate le tasse, è sussidio in caso di disoccupazione e maternità, è diritti civili… o diventa vessazione e discriminazione nella vita dei cittadini. Adesso, da una settimana e qualche giorno, la politica vissuta da un certo numero di famiglie italiane è cambiata contemporaneamente e all’improvviso… E’ questa un’ottima occasione per scoprire le regole che fanno girare la politica. La polemica sulla gravidanza assistita per le coppie “omogenitoriali” con il corredo di parolacce televisive (vedasi l’Annunziata a ½ ora) è l’ennesima occasione sprecata per la solita inutile battaglia ideologica, priva di ogni concretezza fatta dal Governo Meloni. Per i quattro lettori che avessero voglia di approfondire i temi provo a spiegare una questione complessa che politica e Media avvolgono di ipocrisia. Il tema ormai è vecchio di quasi quarant’anni: era il 1988 quando un ancora inesperto avvocato romano si trovò di fronte una giovane coppia di neogenitori terrorizzati. Il loro ginecologo era divenuto improvvisamente celebre grazie al mitico giornalista Sergio Zavoli che in televisione lo aveva indicato alla nazione come autore della prima inseminazione eterologa in Italia. Non era stato fatto il loro nome, ma vista la cagnara mediatica e la notorietà del medico, temevano di essere individuati. La Procura di Roma non si era fatta scappare l’occasione per aprire un fascicolo, come d’abitudine, ipotizzando il reato di «alterazione dello Stato civile» che prevede un massimo di dieci anni di reclusione, presupponendo che il neonato fosse stato dichiarato con una falsa attribuzione di maternità. Dopo aver meditato a lungo, il giovane legale prese il coraggio a due mani e parlò col procuratore delegato, presentandosi come il difensore di due indagati (non identificati). ma che assicurava essersi presentati da lui per farsi assistere. Per sua fortuna il Pubblico Ministero lo prese sul serio e invece di cacciarlo in malo modo lo ascoltò pazientemente mentre gli spiegava come si era svolta l’inseminazione (la prima tecnica FIVET di trasferimento di un ovulo donato e fecondato nell’utero della madre) Il PM condivise la tesi difensiva secondo cui la ipotizzata “falsa attestazione di maternità” in realtà non ci fosse, al massimo si trattava di una compartecipazione di due madri. Dopo circa 35 anni quella pratica è diventata legale grazie a uno dei primi interventi “manipolatori” della Corte costituzionale contro una legge del 2004 che a sua volta aveva reso illegale la pratica per un decennio. Tradotto: oggi la fecondazione “eterologa” (per le coppie tradizionali), con la partecipazione di un donatore estraneo alla coppia è consentita con la solita pudibonda limitazione ai casi di acclarate patologie di infertilità. Colpisce che le motivazioni e le condizioni poste dalla Corte costituzionale ricordino assai da vicino quelle che la Consulta ha posto per il fine vita. Seppur collocate in due poli estremi dell’arco esistenziale, in entrambi i casi per la Corte sono uguali i motivi legati alla scelta tra una nuova vita e quella di porvi fine: la libera autodeterminazione, così come sono uguali i limiti: l’inevitabilità della malattia cui l’interessato ha diritto di opporsi. Vale la pena leggere l’argomentazione centrale riguardo alle possibilità di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita; sul punto la Corte afferma che «la scelta di tale coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che, come questa Corte ha affermato, sia pure ad altri fini e in un ambito diverso, è riconducibile agli articoli 2, 3 e 31 della Costituzione, poiché concerne la sfera privata e familiare. La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima e intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo, perché anch’essa attiene a questa sfera». Giuseppe Tesauro ne fu l’estensore e Gaetano Silvestri il presidente, detto a loro eterno merito: orbene proprio leggendo quella motivazione così asciutta e profonda è giusto chiedersi cosa impedisca oggi il medesimo riconoscimento anche alle coppie omosessuali dopo che la legge sulle unioni civili ha riconosciuto uniformità di diritti anche alle coppie dello stesso sesso. È quindi un abominio giuridico ipotizzare che le coppie omosessuali commettano un reato universale accedendo alla procreazione medicalmente assistita, quando questa pratica è consentita e perfettamente legale per le coppie eterosessuali. Il senso etico di una maggioranza non può essere imposto a tutti. Questo oggi è il tema di un feroce scontro politico per stessa ammissione dei contendenti: il ricorso alle pratiche procreative per le coppie omosessuali e soprattutto il riconoscimento della piena affiliazione per la Destra della Garbatella costituisce l’estrema utopia della difesa della famiglia e dei valori di identità politica, mentre la liberalizzazione è diventata la bandiera della sinistra. Un’ottica sicuramente deformata. Una precisazione obbligata: non c’entra nulla il dibattito etico, almeno non per chi scrive: cattolico non osservante sicuramente imperfetto e comunque incline alla umana “compassione” requisito indispensabile per una umana e sociale convivenza… ma anche coloro per il quale il modello di famiglia è unico ed è quello tradizionale, dovrebbero tenere conto che quando in gioco c’è la libertà dell’individuo, la tutela dei suoi diritti e delle sue scelte di vita. È in ballo un elementare principio in base al quale ciò che non nuoce e danneggia la libertà degli altri è consentito e ancora, il senso etico di una maggioranza non può essere imposto a tutti quanti. Ma se le cose stanno così può uno Stato democratico permettere a una donna di interrompere una gravidanza e al contempo impedirle di donare una vita? Vediamo di capire come hanno ragionato sino a oggi le corti regolatrici del diritto, la Corte europea, la Consulta e le sezioni unite della Cassazione. Si sono tutte attestate su una comune e fin troppo facile trincea: “il benessere del minore” che ha diritto a una famiglia senza discriminazioni di alcun tipo, neanche sessuali e peraltro non potrebbero fare diversamente perché da tempo è caduta ogni barriera divisoria sul concetto di famiglia. Ciò che manca (ed è incomprensibile) è l’ultimo miglio che è, allo stesso tempo, breve e obbligato da percorrere: riconoscere anche alla coppia omosessuale la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa in Italia come avviene per la coppia normale e la possibilità anche per il genitore “d’intenzione” di riconoscerlo come proprio. Certo, bisognerebbe passare per la non indolore equiparazione dell’omosessualità a una patologia d’infertilità ma non sarebbe ostacolo insormontabile perché, come detto, la Corte costituzionale ha introdotto la fecondazione eterologa alla stregua di un mezzo per la realizzazione di una famiglia come espressione di bene comune più che come cura. Sorprende allora che con le loro più recenti sentenze la Corte costituzionale e le Sezioni unite civili (sia detto con il dovuto rispetto) si siano abbandonate a invocazioni retoriche sulla «dignità femminile» e ad argomentazioni come «la gestazione per altri lede la dignità della donna e la sua libertà anche perché durante la gravidanza essa è sottoposta a una serie di limiti e di controlli sulla sua alimentazione, sul suo stile di vita, sulla sua astensione dal fumo e dall’alcol e subito dopo il parto è sottoposta a limitazioni altrettanto pesanti causate dalla privazione dell’allattamento e dalla rescissione immediata di ogni rapporto con il bambino». che fanno pensare più a un pregiudizio patriarcale che alla logica asettica del giurista (sempre col dovuto rispetto). E sia consentito anche a un dilettante e umile scribacchino del diritto, com’è il sottoscritto, osservare una evidente contraddizione tra la ostentata tutela dei bisogni del minore come bene supremo e l’accettazione forzata di una soluzione come l’adozione, ripetuta ipnoticamente dalla Ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità Eugenia Maria Roccella, che non equipara la condizione del minore a quella dei coetanei di nascita eterologa. La consulta si è invece sino a oggi cautamente astenuta aspettando che il ‘Godot’ parlamentare pubblichi una legge che non arriverà, come è puntualmente successo per temi come il fine vita o su un altro versante l’ergastolo ostativo. Alla fine, si aspetta furbescamente che la magistratura vi ponga rimedio, ma stavolta il tema è fin troppo scottante e divisivo. È un tema politico e va oltre il tema della parità di genere. Si dice a volte con ironico disprezzo della sinistra dei diritti quasi che principi come l’uguaglianza e le libertà fondamentali fossero roba da popolo delle ZTL. Invece sono il sale di una democrazia. E parliamo di libertà perché ipotizzare un reato universale per una pratica consentita e perfettamente legale per le coppie “normali” può andare bene per l’Ungheria di Viktor Orbàn non certo per la settima potenza industriale. Eppure, non è stato sempre così e mi sia consentito un ricordo personale rimasto caro al sottoscritto: una coppia di amici cattolici osservanti calabresi, fedeli elettori democristiani, facente parte della piccola dignitosa borghesia meridionale di mezzo secolo fa che si recava a votare per il divorzio dopo decenni di vita insieme, perché una cosa è la fede personale, altro la libertà di tutti. Erano parte di quel 60 per cento di italiani non di sinistra e cattolici che votarono No al referendum abrogativo. Era un’Italia che come scriveva Francesco De Gregori: «Viva l’Italia, l’Italia che lavora, l’Italia che si dispera, l’Italia che si innamora, l’Italia metà dovere e metà fortuna, viva l’Italia, l’Italia sulla luna. Viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre, l’Italia con le bandiere, l’Italia nuda come sempre, l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste… ». Un’Italia che non aveva paura della libertà come sembrerebbe averla l’Italia di oggi…

E’ sempre tempo di Coaching! 

Se hai domande o riflessioni da fare ti invito a lasciare un commento a questo post: sarò felice di risponderti oppure prendi appuntamento per una  sessione di coaching gratuita

 

0

Aggiungi un commento