Politica: Tutti apprendisti stregoni. Ragionare sulla nostra economia. La piaga perenne e trasversale del populismo economico…

La stagione del Movimento 5 Stelle come primo partito del Paese e della Lega arrivata al 40 per cento ai tempi del Papeete sulle spiagge romagnole è finita da un pezzo, ma non ci siamo mai davvero liberati del populismo, soprattutto in economia. L’idea di proporre soluzioni semplici a problemi complessi è un male della politica italiana fin dalla Prima Repubblica (se non addirittura dal Fascismo). La differenza è che oggi non è più possibile soddisfare tutti con il semplice clientelismo, perché lo spazio di manovra economica del Governo si è estremamente ridotto, sia a causa delle regole europee, sia, soprattutto, per l’enorme debito pubblico che ci troviamo a gestire, eredità di politiche demagogiche ormai insostenibili. Negli ultimi trent’anni, la politica italiana ha ignorato questo mutamento del contesto economico, tentando in tutti i modi di proteggere i privilegi acquisiti nel tempo dalla popolazione più anziana (che è anche quella politicamente più attiva) e provando a far quadrare i conti tagliando buona parte della spesa per le generazioni che sarebbero arrivate dopo. Ne è un esempio la riforma Dini delle pensioni, che prevedeva un quadro sostanzialmente immutato per chi stava già lavorando (e ha mantenuto in tutto o in parte l’insostenibile regime di calcolo pensionistico retributivo all’italiana), mentre cancellava ogni tipo di vantaggio per chi avrebbe iniziato a lavorare da lì in poi (che avrebbe utilizzato il ben più equo e sostenibile metodo contributivo). Nessun ricalcolo per le pensioni già in essere, che arrivano a volte a valere il doppio rispetto a quanto spetterebbe secondo i contributi versati, nessuna riforma per eliminare categorie protette e ingiustamente tutelate. Anche questo è populismo. Sta poi a noi decidere se le persone che si sono avvantaggiate di queste scelte (tendenzialmente baby boomers che sono entrate nel mercato del lavoro a condizioni molto migliori rispetto alle generazioni successive) rappresentino davvero il popolo. L’aumento della precarietà e il generale peggioramento delle condizioni di lavoro hanno portato alla nascita di un mercato del lavoro duale: da una parte, le persone con un alto grado di protezione, spesso più anziane, dall’altra i precari, che hanno tutele quasi nulle. Questo conflitto ha portato a un netto cambio di comunicazione nella politica italiana: la semplice demagogia portata avanti con il clientelismo si è trasformata in populismo. A beneficiare di più di questa ondata di proteste sono stati il Movimento 5 Stelle e la Lega, anche se le conseguenze del loro agire politico sono state diverse. Per quanto mal disegnata ed evidentemente frutto più del senso comune che di una profonda riflessione, la proposta di bandiera del M5s tentava di sanare parte delle disuguaglianze scaturite dalla fine della fase clientelare della nostra politica economica. Per contrastare l’aumento della povertà e della disoccupazione, infatti, si è proposto il Reddito di cittadinanza. L’idea della misura in sé non è populista: in molti paesi del mondo si parla o si è già sperimentata l’introduzione di un reddito minimo universale. Il problema è che il RdC attuato dal Movimento 5 Stelle è stato basato sul peccato originale della politica economica italiana: cercare soluzioni semplici a problemi complessi. La parte semplice del lavoro – distribuire le risorse ai cittadini in povertà – è partita subito; per la parte più complessa della soluzione – la riforma dei centri per l’impiego e il rilancio di politiche adeguate a favorire occupazione di qualità – stiamo invece ancora aspettando. Nel frattempo, il nostro Paese ha speso ulteriori risorse per una misura poco efficace, quando il poco spazio di manovra di cui dispone il Governo dovrebbe spingerci a valutare attentamente ogni mossa che riguarda i conti pubblici. Il populismo della Lega è ancora più paradossale. L’obiettivo del RdC era perlomeno quello di dare sollievo a persone in difficoltà, quello di Quota 100 era di soddisfare l’ultimo desiderio di una generazione che già aveva goduto di condizioni estremamente favorevoli del mercato del lavoro, ma che si era vista sottrarre un solo privilegio: quello di andare in pensione prima. Anziché aiutare il “popolo”, con Quota 100 si è deciso di non negare neanche l’ultimo dei vantaggi di essere nati negli anni Cinquanta e Sessanta, anche in questo caso utilizzando risorse fondamentali per politiche efficaci che continuiamo a rimandare. Il populismo, però, non è solo una caratteristica dei partiti antisistema, ma pervade ormai tutta la politica italiana. Un esempio è quello dei partiti di Centrosinistra sul salario minimo. Anziché seguire le raccomandazioni da parte della teoria economica, infatti, ci si concentra soprattutto sul proporre un livello più alto dei propri concorrenti, ignorando le conseguenze pratiche di minimi troppo elevati. Un salario minimo di 9 euro netti, per esempio, coprirebbe circa il 25 per cento dei lavoratori. È un’indicazione piuttosto chiara che il livello è troppo alto: non perché sia giusto pagare poco il lavoro, ma perché non si può nemmeno pensare di pagare troppo per mansioni a basso valore aggiunto, altrimenti si perde l’equilibrio tra diritti dei lavoratori e sostenibilità economica dell’impresa. Anche qui, però, ci si affida al senso comune. C’è poi una nuova forma di populismo economico, che più che proporre ulteriore spesa si concentra sul taglio con l’accetta di misure mal digerite dall’elettorato. Il governo di Giorgia Meloni si è già dimostrato specializzato in questo senso. Un primo esempio è quello del Superbonus: la misura è estremamente iniqua e ha un costo enorme per le casse pubbliche. Rivedere in senso restrittivo il Superbonus era la scelta da fare e già in passato ci aveva provato Mario Draghi. Anziché capire come modificare al meglio la misura, però, il Governo si è limitato a eliminare una serie di metodi per accedervi, impedendo di fatto alle famiglie meno abbienti di usufruirne, senza però modificarne quasi per niente gli aspetti iniqui. Così, le persone più ricche continueranno a beneficiare di una misura sbagliata, mentre all’elettorato si potrà presentare la “stretta” sul Superbonus come una grande vittoria. Qualcosa di simile sembra avverrà con la revisione del Reddito di cittadinanza. Le bozze viste finora suggeriscono che il Governo non abbia alcuna intenzione di risolvere il vero problema strutturale della misura: il fatto che le persone che lo ricevono non hanno a disposizione alcun percorso professionale per reinserirsi all’interno del mercato del lavoro. Non c’è traccia di riforme dei centri per l’impiego o di riorganizzazione delle politiche attive, ma ci si limita a definire occupabili persone che potrebbero non esserlo, così come si fa con i cosiddetti non occupabili. L’importante non è rendere la Misura di inclusione attiva – così si chiamerà il nuovo RdC – una versione migliorata e finalmente efficace del Reddito di cittadinanza, ma semplicemente ridurre il più possibile il costo dello strumento, ignorando il fatto che ogni euro tolto alla misura è un euro tolto al contrasto alla povertà. Ciò che è davvero importante è che l’elettorato percepisca che si è fatto qualcosa per aiutare il popolo, anche se questo significa togliere delle risorse al popolo stesso. Finora, il populismo istituzionale del governo Meloni sembra funzionare. Ne è esemplare il confronto con il governo Conte 1. Si tratta essenzialmente di esecutivi di destra e le soluzioni ai problemi del paese non sono molto diverse (basti pensare alla gestione degli sbarchi o alla flat tax), ma l’attuale governo è molto più apprezzato rispetto a quello gialloverde. Questo perché forse una parte consistente degli italiani non si riconosce nelle parole d’ordine del populismo, ma, nei fatti, ne apprezza le soluzioni, così come ha fatto fin dagli anni Cinquanta. Insomma, la politica parla al popolo ed è normale che sia un po’ populista. Dopo trent’anni di declino, però, sarebbe l’ora di renderci conto che le soluzioni semplici ai problemi complessi non esistono e che forse è il caso di pretendere di più da chi ci rappresenta. Non solo nella forma, che sarebbe già un passo avanti, ma soprattutto nella sostanza.

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