Quirinale: Il bis di Mattarella di fronte ai partiti che capitolano salva il soldato Draghi e ora il suo governo può essere più forte. Vince l’Italia…

Il paese è salvo (e anche il premier) ma è l’ennesimo collasso del sistema politico, incapace di produrre soluzioni fuori dall’eccezionalità. Anche se non tutti i leader sono uguali. L’Italia è salva, perché Sergio Mattarella è un grande presidente, punto. Poca retorica, siamo asciutti, perché proprio l’eccezionalità lo impone. È salvo il governo, che non era scontato in queste consultazioni segnate da un revival dell’alleanza gialloverde. Ed è salvo anche Draghi che, una volta preso atto dell’impossibilità di essere il kingmaker di sé stesso, ha contribuito a preservare la stabilità attraverso un appello, privato, a Mattarella. E adesso può tornare a “fare Draghi” recuperando slancio in quell’azione di governo che si è perso proprio nel momento in cui la sua candidatura al Quirinale gli ha tolto la forza della terzietà, costringendolo ad estenuanti mediazioni nelle ultime settimane… Niente rimpasto e due Consigli dei Ministri a settimana: il premier tornare più determinato di prima. Ben sapendo a questo punto chi sono i nemici e chi gli alleati. Per come si era messa, poteva andare male, anzi malissimo. Perché, come ripetuto in ogni dove, una spaccatura sul Quirinale, avrebbe comportato una drammatica spaccatura nella maggioranza di governo, con inevitabili conclusioni sulla durata della legislatura. È andata bene, perché Mario Draghi può rimanere a Palazzo Chigi nelle condizioni migliori, nell’ambito di quel tandem istituzionale che, fin qui, ha consentito di portare l’Italia fuori dai marosi dell’emergenza sanitaria ed economica. Il tempo porterà anche qualche riflessione su come il premier, sin dall’imprudente auto-candidatura alla conferenza stampa di fine anno, si sia pericolosamente esposto al rischio di una “trattativa” politica, che prima ne ha logorato il decisionismo costringendolo a qualche mediazione di troppo poi, nell’impossibilità oggettiva di essere il kingmaker di se stesso, lo ha costretto a diventare uno dei kingmaker del bis. La riflessione di oggi però è sugli strascichi di questa storia, anzi di questo passaggio traumatico. Chi ha una certa consuetudine con Palazzo Chigi non nasconde l’impressione che, di certo, non si può considerare una parentesi, chiusa la quale tutto torna come prima. La vicenda del Quirinale ha fatto emergere un’onda di ostilità e revanchismo imprevista da quelle parti, davvero fuori da ogni fisiologica dialettica politica. Non da parte di tutti, certamente. Si è capito chi sono gli avversari e chi sono gli alleati, che albergano trasversali negli schieramenti. Alla fine, con la conferma di Sergio Mattarella hanno vinto le tribù governiste dei vari partiti, nella settimana della grande eccitazione delle tribù sfasciste. L’andazzo però è chiaro, annunciato dalle voci di richieste di rimpasto, “fase 2”, incontri per fare il punto della situazione chiesti da Salvini e Conte, principi dello sfascismo nazionale. Certo Draghi non li negherà e troverà un modo garbato per dire che il solo termine rimpasto suscita orticaria, magari con un “ne riparliamo al momento opportuno, ora, visto che si è perso parecchio tempo, abbiamo degli adempimenti da svolgere”. Ma di certo trapela un umore stizzito rispetto a chi, consapevolmente o meno, si è messo in testa di trasformarlo in un novello Monti da bruciare nel gran falò di una campagna elettorale lunga un anno sul terreno del governo. L’ennesimo capitolo del collasso dei partiti consente al governo una vera ripartenza. E non a caso già per questa settimana sono previsti due cdm: lavorare, accelerare su tutti i dossier, recuperare la forza della terzietà che gli consente di mediare meno con i partiti, senza farsi rosolare. Sia chiaro, questa è l’intenzione, l’animus: nella grande capitolazione del sistema politico, costruire una ripartenza attorno all’asse istituzionale con Mattarella, unico punto fermo nel terremoto, la cui forza sta proprio nell’immutabilità e nel fallimento delle ipotesi alternative. Perché è vero che Draghi non è riuscito ad andare al Colle ma è anche vero che qualcuno non è riuscito, pur provandoci, a mandarlo a casa. Però si apre una fase nuova, per tutti, non il ritorno al passato. Draghi può tornare a fare Draghi, dedito solo agli obiettivi per cui è stato chiamato. Ma il logoramento non è finito, anzi. Da domani ci sarà chi mettere all’ordine del giorno, di qui al 2023, la costruzione di un’alleanza più politica attorno a Draghi e con Draghi, col proporzionale, chi lavorerà ad andare “oltre”, chi continuerà a lavorare contro. Non è una parentesi, appunto, ma un’altra fase. Dicevo che, un successo per il paese coincide con un ennesimo collasso del sistema politico, incapace di produrre soluzioni fisiologiche fuori dall’eccezionalità. Da ricostruire dalle fondamenta. Non è accaduto dopo il bis di Giorgio Napolitano né dopo l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi, entrambe grandi occasioni per un riscatto della politica, proprio sul terreno di un governo fondato su una collaborazione mai diventata reciproco riconoscimento. Adesso un nuovo bis, il secondo in un decennio, cui è stato costretto il capo dello Stato, in una situazione in cui la necessità è stata più forte della volontà. Evviva, dicono adesso tutti, vincitori e sconfitti, secondo l’antico tic dell’immediata rimozione delle responsabilità o, se preferite, della polvere sotto il tappeto. Se fosse stata una scelta arrivata per “convinzione” lunedì avrebbe avuto il sapore di una scelta consapevole e di una politica capace di esercitare una funzione. Arrivata per “consunzione” è la fotografia di una classe dirigente de-strutturata in un sistema destrutturato, di cui neanche i migliori – Draghi e Mattarella appunto – possono fare le veci. È vero, non tutte le leadership escono ammaccate alla stessa maniera. Hanno vinto Enrico Letta, che con pazienza ha giocato di rimessa considerati i rapporti di forza, e Luigi Di Maio, abili nell’assecondare la “saggezza del Parlamento” e nel far precipitare i tentativi di spallata, reiteratamente messi in campo dal revival gialloverde. In fondo, è così: “o Draghi o Mattarella” disse il segretario del Pd una settimana fa, e lì si è arrivati. Mentre Salvini, il grande sconfitto, ha dimostrato, all’ennesima prova di maturità non superata, di non riuscire a incarnare una leadership propositiva, capace di costruire. E non c’entra il populismo, perché esistono anche i populisti in grado di costruire trame politiche. Con lui Giorgia Meloni, che ha vincolato il sostegno a Draghi non a un progetto politico ambizioso di ricollocazione e legittimazione europea, ma alla richiesta di elezioni anticipate per finire a votare Nordio da sola. Salvini a 48 anni e Giorgia Meloni a 45, nella reciproca competizione hanno contribuito a terremotare il centrodestra italiano. A proposito, Conte: al dunque è riuscito solo ad aderire alle altrui posizioni, rivelando la natura di una leadership senza principi solidi di riferimento. Il vero vincitore è l’astuzia della ragione, che ha trovato il veicolo giudicato in questi anni meno presentabile: quel tanto vituperato Parlamento, di cui è stato detto di tutto in un’orgia di qualunquismo – gli stipendi, le pensioni, la volontà di conservazione – che, in regime di quasi autogestione ha dato il meglio di sé rispetto al tavolo delle alchimie dei leader… Proprio questo ennesimo capitolo del collasso dei partiti consente al governo, ad agire solo sulla base di una visione dell’interesse nazionale e non dell’interesse dei partiti; perché nessuno, dopo quello che è successo può permettersi di mettere in discussione questo assetto, tantomeno leadership deboli dopo la capitolazione quirinalizia; perché Draghi stesso, ora che non ha più l’orizzonte del Colle, ha come obiettivo solo gli obiettivi per cui è stato chiamato. Si capisce che, soprattutto per la destra, ma tra un po’ accadrà a tutti, finito il Quirinale arriverà la campagna elettorale. E ricomincerà l’andazzo di bandierine più o meno legittime se, proprio oggi, Salvini e Giorgetti chiedono un incontro per lamentarsi dal fuoco amico della sinistra. Un’agenda del Nord cui qualcun altro contrapporrà un’agenda del sud e qualcun altro un’agenda del centro, e così via. Il governo esce ammaccato dalla conflittualità di questa settimana ma proprio la conferma di Mattarella consente al premier di non apparire bocciato, agli occhi dell’opinione pubblica, cosa che sarebbe stata con qualunque altro presidente. E di trovare, nell’ambito di una coppia istituzionale che finora ha consentito di uscire dal momento peggiore della crisi, una ripartenza vera…

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