Quirinale: l’aria sembrerebbe cambiare. Si comincia a ragionare seriamente su Draghi al Quirinale. Con buona pace di Silvio…

Quella del Colle è un’elezione che spesso si riduce a una sfida giocata da una decina di persone, ma ormai è diventata sempre più mediatica. La base sta a guardare, senza nessun coinvolgimento, nemmeno emotivo, come a siglare la profondità del distacco dai vertici. Un esempio: che cosa deve pensare un iscritto o un elettore del Pd a cinque giorni dalla prima votazione per il Quirinale? «Ma noi per chi siamo?», immaginiamo si chieda quell’iscritto, quell’elettore. Sicuramente soddisfatto per lo sbarramento opposto al nome di Silvio Berlusconi (ma ci mancherebbe pure), ma poi c’è il buio più profondo. «Un Presidente autorevole», hanno twittato ieri con tre tweet identici (ma perché non farne uno solo?) Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza. Però a questo punto sono capaci tutti di dire questa banalità… Nel dibattito tra e nei partiti sulla scelta del prossimo Presidente della Repubblica sembra costantemente mancare un fattore che invece dovrebbe essere teoricamente decisivo. L’interesse nazionale. Cosa serve al Paese? Quali sono le sfide che lo attendono? Quali gli obiettivi? Interrogativi basilari in un fisiologico confronto democratico. Domande che indirizzerebbero non tanto la scelta del candidato, ma che libererebbero proprio le forze politiche da quel fardello di sospetti che le appesantisce anche nel rapporto con l’opinione pubblica. Manca, appunto, la ragion di Stato. Che può assumere e può essere rappresentata con vesti e con nomi diversi. Ma il punto è che quella ragion di Stato manca e basta. Non solo nel caso specifico. Ogni indicazione, ogni tentazione, ogni nome avanzato e ogni nome scartato, il gioco avviato e poi ritirato sul bis di Mattarella, tutto risponde alle esigenze particolari e non al vantaggio che potrebbe trarre il Paese. Il capo dello Stato non può essere il mero prodotto di un bilanciamento tra i bisogni delle forze politiche. Soprattutto in questa fase in cui l’Italia vive da osservata speciale in Europa e nel resto del mondo, la discussione dovrebbe assumere una dimensione più elevata. Draghi, Mattarella, o chiunque altro dovrebbe essere scelto per quel che può fare a tutela del Paese e non per quel che può fare a tutela dei partiti… Questo sarebbe l’obbligo di una vera classe dirigente. Ora, nonostante i tanti, troppi proclami, bisogna prender atto che oggi, non esiste una maggioranza politica in grado di eleggere autonomamente il capo dello Stato. Non lo è di certo il centrodestra e non lo è il centrosinistra. È una situazione senza precedenti. Mai nella storia della Repubblica, il Parlamento aveva affrontato questo voto senza un blocco maggioritario. In passato c’è sempre stata una coalizione che poteva contare su più voti e poi provava – o fingeva di provare – ad allargare il consenso anche alla minoranza. Stavolta non è così. Centrodestra e Centrosinistra si devono necessariamente mettere d’accordo… Orbene, sembrerebbe che la candidatura del Cavaliere sia agli sgoccioli. Anche Meloni è disponibile a cercare “convergenze più ampie”. L’operazione di Silvio Berlusconi vacilla, il Cavaliere prende tempo, rimane ad Arcore, i boatos di un incontro del centrodestra già nella giornata di domani vengono spazzati via, allo stato attuale delle cose nessuno si sente di confermare che si tenga venerdì, nessuna convocazione è stata diramata. Contemporaneamente salgono vertiginosamente le quotazioni di Mario Draghi, a Palazzo non si parla d’altro. La candidatura del Cavaliere è agli sgoccioli? Ma no! “Non molla”, fa sapere il cerchio magico, ma a sentire la rabbia di uno dei suoi la partita è praticamente persa: “Spero che non si ritiri fino all’ultimo, gliela deve fare sudare a quei due”. I due sono Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che da giorni fanno sapere di lavorare a un piano B. La prima ha riunito l’esecutivo nazionale di Fratelli d’Italia, un vertice dal quale è trapelata la disponibilità a cercare “convergenze più ampie”. “Aspettiamo la scelta di Berlusconi”, dice invece il leader leghista, mentre un suo colonnello spiega: “È solo questione di quando, poi si ritira e l’unico nome che mette d’accordo tutti è quello di Draghi”. Comunque, gioco forza, è il primo giorno che si ragiona seriamente l’ipotesi di un trasloco del premier a Palazzo Chigi. Di buon mattino è Enrico Letta a squadernarla davanti a Roberto Speranza e a Giuseppe Conte, nel summit di un’ora che si è tenuto a casa del capo politico del Movimento 5 stelle. “E se fosse Draghi?”, ha sondato il segretario Dem, consapevole che non tutto il partito è allineato (una parte del Pd pensa al Mattarella Bis e c’è chi volendo anch’esso tenere Draghi a Palazzo Chigi pensa (senza esplicitarlo) alla riserva della Repubblica Giuliano Amato) ma che di fronte a un’ampia convergenza le resistenze sarebbero superate. Via libera dal ministro della Salute, l’altolà è arrivato dal presidente 5 stelle: “Enrico, noi Draghi non lo reggiamo”. Ma molti segnali che arrivano dal centrodestra vanno anch’esse in quella direzione. C’è chi scommette addirittura su un’elezione al primo scrutinio, ed è più di uno. Letta tratta la materia con cura, la preoccupazione è quella di non trasformare l’ex presidente della Bce in un candidato di bandiera, non bruciarlo prima che si aprano le danze. Fonti dell’entourage di Conte si affrettano a precisare che il suo non è affatto un veto, lui stesso lo ripete ai microfoni del Tg3, aggiungendo che “va garantita una continuità dell’azione di governo”. Pesa l’umore dei gruppi, sintetizzato dal monito dell’ex ministro Vincenzo Spadafora: “Non torni in assemblea con quel nome perché non lo reggiamo”. Passano poche ore e l’ex premier arriva alla Farnesina, dove Luigi Di Maio intitola la Sala dei trattati europei a David Sassoli. Dopo la cerimonia i due si fermano a parlare per oltre un’ora. Non è un mistero che il ministro degli Esteri sia favorevole all’opzione Draghi, non è un caso che Conte si confronti con lui faccia a faccia per la prima volta da quando è iniziata la rumba in vista del Colle. “Non lo dobbiamo dare in pasto ai tatticismi”, avverte Di Maio, i due preparano un piano d’azione e convengono su un punto: è necessario trovare un punto di caduta affinché la legislatura continui, i gruppi devono essere rassicurati su questo punto affinché si possano superare altre resistenze. Non è un mistero che il capo delle feluche abbia ottimi rapporti con Giancarlo Giorgetti, i parlamentari che fanno capo al numero due della Lega non avrebbero alcuna difficoltà a dare semaforo verde al premier. “Ma Salvini che fa?”, si chiedono preoccupati nel Pd. Il segretario leghista gioca su più tavoli, assicura di avere nomi in tasca nel caso Berlusconi si ritirasse, Riccardo Molinari, capogruppo alla Camera, ne snocciola due: “Elisabetta Casellati e Letizia Moratti” (entrambe improbabili visto che sono entrambe di Forza Italia e che Berlusconi non ci pensa nemmeno a dare loro un pass). Un suo compagno di partito sorride quando gli si chiede se sia l’assessora lombarda la preferita dal partito: “Hai visto che ha detto Riccardo? Sarà pure la preferita, ma se la vuoi portare sul Colle il suo nome lo fai il meno possibile, e invece…”. E invece c’è tutto un fronte che lavora pro Draghi, che non è il piano A di nessuno pur essendo il piano B migliore per tanti, al punto che già ci si pongono domande sul patto di legislatura, sul governo dei leader o meno che dovrà seguire l’eventuale trasloco, su chi sarà il nuovo inquilino di Palazzo Chigi. Ieri il presidente del Consiglio ha incontrato Marta Cartabia dopo essere stato da Sergio Mattarella e da Roberto Fico, alimentando speculazioni smentite dal suo staff. Eppure, già si specula su chi incaricherebbe qualora salisse al Colle, e proprio Cartabia sarebbe uno dei petali della rosa, nella quale va annoverato anche Vittorio Colao. Sono indubbiamente le ore nelle quali i partiti fanno i partiti, non c’è niente che gli piaccia di più che disegnare organigrammi di governo su pizzini (o Whatsapp) che volano di qua e di là, e già c’è la corsa a fare il ministro, mentre i segretari non vorrebbero stare accanto ad altri segretari: e poi chi, Conte o Di Maio? Letta o Zingaretti? Salvini o Giorgetti? Siamo ritornati alla primissima Repubblica. Tutti quanti appesi a Berlusconi. Mentre, il Presidente del Consiglio Mario Draghi cerca alcune garanzie minime: ma in questa situazione chi può dargliele? Nel buio totale della nostra politica, la partita si complica… quindi la strada da percorrere è ancora lunga e cinque giorni per queste fasi della politica sono un’era geologica, oggi è tutto un Draghi, domani chissà. Ma per lo meno il punto di partenza è meno velleitario di quando si guardava a Villa Grande…

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