Quirinale: Salvini dopo ad essersi autoassegnato il ruolo di kimgmaker con una strategia confusionaria porta la Casellati sotto le macerie della Destra. “Altro che nome condiviso” non prende nemmeno i voti da tutto il centrodestra. E c’è chi sintetizza rapidamente: “E’ stato un salvinicidio!”

Il leader della Lega si è autoassegnato il ruolo di regista dell’elezione del presidente della Repubblica, ma sta combinando solo disastri. I leader trattano. Il Parlamento chiama Mattarella. Salvini con la sua strategia confusionaria porta la Casellati sotto le macerie della Destra. La Seconda carica dello Stato non prende nemmeno i voti da tutto il centrodestra. E come non bastasse si arroga il potere di proporre nel pomeriggio di ieri anche il nome del capo dei Servizi, Elisabetta Belloni. Ma gli altri partiti della maggioranza lo bocciano, tranne Conte, non condiviso da Di Maio. Mentre nel luogo principale della democrazia sale l’onda per il bis di Mattarella. Camicia sbottonata, anche con un freddo cane, eccolo Matteo Salvini, con la voglia di essere il king maker a tutti i costi, dopo nove candidati bruciati, caccia l’ennesimo coniglio dal cilindro: “Lavoro per una presidente donna e in gamba”. E subito, ca van sans dire, gli fa eco il socio dell’alleanza gialloverde, in un grande revival del loro asse: “Magari, dice Conte, grande occasione per l’Italia”. Evviva l’Italia, dice pure Beppe Grillo. E la donna ha le sembianze del capo del Dis, Elisabetta Belloni, che qualche giorno fa ha incassato il sostegno di Giorgia Meloni. Nel primo incontro a tre – Letta, Salvini, Conte – per la prima volta dall’inizio di questa elezione per il Colle lascia intendere che si è iniziato a discutere di una rosa di nomi e che l’accordo è possibile c’è un motivo se Enrico Letta non ha parlato di uomini e donne, lasciando intendere che “non sarà breve” e auspica un presidente “all’altezza di Mattarella”. Tradotto: o Mattarella stesso o Draghi. Punto. E immediatamente anche Matteo Renzi mette agli atti che “non è un problema di stima, ma il capo dei servizi non può diventare presidente”. E lo stesso fa Forza Italia. E anche Luigi Di Maio ci va giù duri sul metodo che rischia di bruciare una grande personalità. Ci risiamo con la tentazione di un asse gialloverde, che spacca l’alleanza di governo, nella stessa giornata in cui è fallito il blitz sulla Casellati in modo piuttosto rovinoso per la presidente del Senato ma soprattutto per Matteo Salvini, che in quei settanta voti in meno rispetto ai voti potenziali a disposizione ha vissuto i suoi personali “101”. Con conseguenze devastanti su una coalizione, quella di centrodestra, che nei fatti non c’è più. E dove si registra un solco crescente con Silvio Berlusconi, per nulla ostile alla soluzione di un Mattarella bis, nelle condizioni date. Il cuore della questione è il nuovo schema gialloverde messo in campo che prevede, in nome dell’ostilità all’ascesa al Colle del “tecnico” Draghi, un combinato disposto di due tecnici, piuttosto hard in una democrazia occidentale con il tecnico da silurare che sta a Chigi e un altro tecnico, che guida i servizi, al Quirinale. La fotografia di un protagonista politico disposto a tutto pur di salvare sé stesso, che si arroga il diritto di proposta quando cioè che è successo glielo nega: dopo ben nove candidati bruciati. Quello che è successo ieri è la cronaca di un azzardo, con la presidente del Senato come candidato di parte, la cui elezione avrebbe avuto incorporata la crisi di governo e la fine della legislatura. E di una cocente sconfitta. Potere di proposta che Salvini non ha più e che, con ogni evidenza Pd, Forza Italia e Renzi non gli riconoscono. È in atto “una trattativa dura”, fanno sapere dal Pd. Senza giraci attorno: gli altri nomi sono Casini, Draghi e Mattarella. Ma con ogni evidenza, il tema è il bis dell’attuale inquilino del Colle, in una situazione davvero senza precedenti. Al tavolo dei leader l’asse gialloverde disegna un perimetro istituzionale senza politici, peraltro mai passati al vaglio della sovranità popolare (bel paradosso dei presidenzialisti nostrani), mentre il cuore pulsante della democrazia, il Parlamento sta producendo un’onda su Mattarella. A proposito di titolarità del potere di proposta. Sono ben 336 i voti all’ultimo (il sesto) scrutinio. Con il centrodestra assente, altrimenti andrebbero sommati i 46 di questa mattina, anzi sicuramente di più, senza il vincolo di una indicazione. È un’onda che nasce soprattutto come spontanea. Bastava farsi un giro nei Palazzi per respirare come, più passa il tempo più sia destinata a crescere: per insofferenza rispetto allo spettacolo di una politica che gira a vuoto in piena pandemia, per pressione ambientale di chi avverte come per l’opinione pubblica lo spettacolo sia indecoroso, per stima e affetto verso Mattarella. Ma è anche pilotata perché pezzi interi di partiti, a sinistra come a destra – si è visto nei voti per Mattarella nello scrutinio dove si è schiantata la Casellati – ha iniziato a far votare il capo dello Stato uscente come elemento di pressione. Ormai c’è un fatto politico, ineludibile ormai anche per chi è chiamato a gestire le trattative. Al di là delle alchimie ai tavoli e tavolini c’è un Parlamento, il cui sentimento forse va ascoltato, interpretato. Finalmente, in uno spiffero affidato a fonti del Nazareno “il Pd invita a prendere atto di questa spinta trasversale”. È chiaro che non può essere eletto così, però è una sveglia per leader cervellotici che finora non hanno deciso nulla. Oggi doveva essere il giorno della verità per uscire dalle «nebbie» in cui i partiti si sono impantanati. La mancanza di generosità: è questo che colpisce in questa strana vicenda dell’elezione del Capo dello Stato. È un momento che, al netto delle legittime aspirazioni di ciascuno, richiederebbe un minimo di – non mi viene un’altra parola – generosità. Quel qualcosa che nei momenti difficili dovrebbe essere nell’animo dei protagonisti, come è sempre stato nelle fasi drammatiche della vita del Paese, perché sempre a un certo punto i partiti hanno saputo guardarsi in faccia e deporre le armi. E invece non c’è generosità perché nessuno si muove, aspettando la mossa dell’altro per farla a brandelli e tuttavia prima che la casa bruci quel momento unitario sarà oggi, a detta di tutti. A meno che non si voglia davvero infliggere un altro durissimo colpo alla credibilità del sistema… Ma come si risolve questo film dell’orrore? Ieri sera, per riprendere il filo rosso del discorso sulla generosità, prevalevano ancora gli egoismi, le furbizie, le bugie, peggio che su un ballatoio di un caseggiato malfamato, un clima di tutti contro tutti, di bocciature incrociate, sgambetti e ripicche. Ne sono tutti responsabili ma c’è uno che è più responsabile di tutti: Matteo Salvini, l’uomo che si è autoassegnato il ruolo di “regista” della partita pur essendo molto al di sotto della bisogna, promettendo e smentendo in un colpo solo, diventando oggetto degli strali di tre quarti del Parlamento – fino alla diagnosi di pazzia – e marcatamente proprio da parte di quella destra di cui si è impancato a leader. Anche il degente Silvio Berlusconi se n’è accorto, per esempio contraddicendolo quando il capo leghista era parso sul punto di rimettere in pista Mario Draghi e il povero Antonio Tajani è dovuto andare a Palazzo Chigi per spiegare al presidente del Consiglio che «la linea di Forza Italia non è cambiata, lei deve restare a Palazzo Chigi». Dopodiché Salvini è tornato su Franco Frattini, già affondato lunedì da Enrico Letta e Matteo Renzi congiuntamente (chi se l’immaginava una sintonia così forte tra due leader che certo non si amano), e ri-bocciato in serata dal Partito democratico, a dimostrazione che sembra di essere in un infinito girotondo che sta estenuando in primo luogo le centinaia di parlamentari che non hanno il benché minimo ruolo, non sanno niente di niente e attendono disposizioni dai generali che però si ingarbugliano tra loro e abbattono sistematicamente qualunque figura si stagli all’orizzonte come i cecchini nelle guerre civili: e in questo Full metal jacket recitato a Montecitorio rischiano di lasciarci le penne personaggi illustri, nomi come Sabino Cassese o Elisabetta Belloni dopo che quest’ultima era parsa poter far quadrare il cerchio con il sì di Salvini, Meloni e Conte ma bloccata da pezzi importanti del Pd, da Renzi e Forza Italia a causa della sua attuale collocazione alla guida dei servizi segreti. In tutto questo non si capisce bene cosa pensi il Movimento 5 stelle, che ormai sono tre o quattro M5s, un gruppone di sbandati come quelli dei romanzi di Beppe Fenoglio, con un capo, l’avvocato Giuseppe Conte, che occhieggia a Salvini e di cui il Pd con qualche tempo di ritardo comincia a diffidare ma che Letta non intende perdere per non restare completamente solo: e però quando questa vicenda sarà chiusa è difficile che non intervenga un chiarimento tra i due perni di un campo largo ancora tutto da costruire. Oggi, dunque, è il giorno della verità per uscire dalle «nebbie» (Bersani dixit). C’è sempre Draghi in campo, ma che verrebbe eletto più per disperazione che per convinzione, con inevitabile ammaccamento della propria immagine, ammesso e non concesso che superi agevolmente i 505 voti necessari. Così come c’è, sempre meno in teoria, Sergio Mattarella, che l’altro ieri era già cresciuto fino a 166 voti, e ieri fino a 336, un segnale netto che molti parlamentari ritengono che a questo punto l’alternativa vera sia tra il Presidente uscente e il caos. E forse hanno ragione… Visto che oggi il rischio è di bruciare definitivamente dopo la seconda carica della Repubblica anche Elisabetta Belloni… colpendo un altro caposaldo delle nostre istituzioni i servizi segreti e di intelligence italiani…

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