Società: l’Italia e le classi sociali. Come siamo cambiati…

Il titolo potrebbe essere anche: “le classi sociali del condominio Italia”. Come siamo e come siamo cambiati secondo l’Istat. Abbiamo acquisito che le classi sociali si sono frammentate, spezzettate, non contano più e non si percepiscono più come tali. Come scrive l’Istituto di statistica: “In linea con la maggiore segmentazione (in termini di profili occupazionali, di reddito e adeguatezza del titolo di studio) all’interno delle stesse classi sociali ciò che sembra essersi profondamente modificato è il senso di appartenenza a una data classe sociale e ciò è particolarmente vero per la classe media e la classe operaia”. Questo ha determinato la crisi della classe media, che invece di proiettarsi verso l’ascesa sociale si manifesta sia in termini di autopercezione, sia di redditi e consumi effettivi. Per mettere a fuoco la situazione attuale delle classi sociali l’Istat ha proposto una nuova classificazione per gruppi sociali che oltre alla posizione professionale tiene in considerazione alcune caratteristiche della società attuale: giovani ad alto titolo di studio occupati in posizioni precarie; stranieri di seconda generazione; stranieri con background formativo frequentemente non riconosciuto in Italia, ma che sono una parte della nuova piccola imprenditoria del nostro Paese; giovani che lavorano in agricoltura di qualità e nelle attività ad essa connesse; impiegati che si sentono sempre meno classe media, ma soprattutto il bacino di giovani disoccupati e atipici (occupati con contratti di collaborazione o a termine) che frena la crescita non solo demografica, ma anche sociale del Paese. Quindi cos’è successo? Seconde e terze generazioni rispetto ai baby boomers, i figli di una varietà di ceti della classe lavoratrice – commercianti, piccoli imprenditori, maestri di scuola, negozianti, rappresentanti, commessi viaggiatori, ma anche operai e artigiani, meccanici, carrozzieri, fabbri, falegnami – sono transitati in una classe sociale diversa da quella di origine. Sono diventati, grazie all’accesso a un’istruzione più alta e allo studio tanto più duro quanto più lontana era la cultura di provenienza, professionisti, giornalisti, avvocati, consulenti, magistrati, docenti universitari: almeno in teoria quindi, borghesi. Degli Eroi per le orgogliose famiglie da cui venivano, eroi che, come nel famoso viaggio di cui parla Joseph Campbell (saggista e storico statunitense), avevano lasciato la provincia o la periferia per approdare nei centri culturali, nei gangli produttivi e dirigenti del Paese. Eroi sì, a tutti gli effetti. E, come tutti gli eroi, alla fine tragici. Una gran massa di individui, sospesi tra un passato da cui erano fuggiti in cerca di riscatto sociale e nello stesso tempo emotivamente ancora legati a quella originaria provincia o periferia d’origine. Attratti dalle opportunità, culturali prima e poi da quelle economiche, negate ai genitori, che si aprivano nella nuova classe a cui approdavano, e nello stesso tempo alquanto frenati da un indotto senso di inadeguatezza tipico di chi si muove in un ambiente estraneo e ne ignora usi, abitudini, comportamenti, regole, conoscenze, relazioni, persino posture. Devoti paladini del nuovo mondo che li aveva precettati e reclutati, ma sempre sospettosi di una cooptazione che non è mai avvenuta del tutto. Come dire? Intrappolati nell’ascensore sociale bloccato tra un piano e l’altro di un processo di integrazione intrapreso nell’ultimo ventennio del secolo scorso ma presto interrotto dalle mutate condizioni economiche dovute alle cicliche e sempre più ricorrenti crisi del neocapitalismo finanziario. “Smarriti”, dentro una indefinibile e incomprensibile, working class hero. Con una forte “melanconia di classe”. Non del tutto élite, non più classe medio-bassa (prosciugata sempre più verso la povertà), non ancora e forse mai classe medio-alta nel tramonto globale della borghesia. Ostaggi di una transizione eternamente in corso di cui loro stessi non sarebbero in grado di fornire un’autorappresentazione… figuriamoci come potrebbero rappresentarli i Partiti. Di fronte a questa impasse, senza un passato a cui tornare se non da sconfitti e senza un futuro da scalare per essere vittoriosi, anche un “eroe“ è costretto a fermarsi. E a cercare una nuova strada. Che – questa dovrebbe essere la preoccupazione di una democrazia matura e in particolare delle forze riformiste, radicali e se possibile azioniste che la animano. La sinistra dia ascolto alla melanconia di classe. Diffido  chiunque legga di questo post dall’estrarre dal testo qualcosa da cui la sinistra dovrebbe ricominciare. Non ne ho le minima idea e non vorrei fare la fine di quelli che, dopo le elezioni, hanno scritto che la sinistra doveva ripartire dalla piazza, sono tornati in piazza e dalla piazza sono stati cacciati. L’unica cosa che mi pare chiarissima è che la sinistra non deve ripartire da quelli che le dicono da dove ripartire. Anche perché la sinistra in questione, quella che dovrebbe rifondarsi per aver tradito sé stessa, nei commenti è soltanto il suo pezzo più grande, il Pd, che per carità ha colpe, limiti e correnti, ma non può prendere lezioni da chi ha racimolato quattro voti in croce o ne ha persi 6 milioni. Molto probabilmente con la crisi dei partiti riformisti, in tutta Europa, invece, la melanconia di classe resta individuale, privata, intima. Una forma di resistenza orgogliosa, non urlata e non esibita, che nasconde il dolore della ferita di un tradimento del sistema, delle parole e delle vocazioni su cui si era fondata la visione del mondo che la storia oggi ha spazzato via. Orbene, chiamare tutto questo astensionismo è sicuramente riduttivo…

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