Sulla strada giusta

Non c’è strategia efficace che possa aiutarti se non sei sulla strada giusta.

 

“Lo schiavo non è tanto quello che ha la catena al piede,
ma quello che non è più capace di immaginarsi la libertà”

(Silvano Agosti)

Di questi giorni… o meglio di questi tempi: spesso c’è il rischio di dimenticarci perché ci stiamo sbattendo così tanto.
Per questo motivo, di tanto in tanto, è importante volare alto, respirare aria fresca e rimirare l’orizzonte per capire dove stiamo andando e dove vogliamo andare davvero.
Ecco, questo post vuole essere una… boccata di aria fresca. Beh, almeno questa è stata la sensazione che ho avuto la prima volta che l’ho letto. Già, perché oggi sarò anche io un lettore e lascerò la parola a Francesco Grandis, autore del blog Wandering Wil. Francesco è uno dei pochi blogger italiani che seguo abitualmente (dopo aver letto il suo articolo capirai il perché). Classe ’77, Francesco è un ingegnere elettronico (l’invasione degli ingegneri “anomali” continua). Dopo la laurea, trova subito lavoro in un’azienda di robotica industriale, ma passati 3 anni capisce che il tradizionale modello laurea-lavoro-pensione non fa per lui. Si dimette e investe fino all’ultimo euro dei suoi risparmi in un giro del mondo di sei mesi in solitaria. Un viaggio alla ricerca di qualcosa che ancora non conosce, ma che alla fine riesce a trovare. Facciamoci raccontare questa sua ricerca, la ricerca della “strada giusta” verso la felicità.

Cercare la felicità?!
…“Un giorno di circa cinque anni fa – sembra passata una vita ormai – decisi di dedicare la mia esistenza a questa impresa. Verrebbe da chiedersi perché mai qualcuno, sano di mente, vorrebbe dedicarsi a qualcosa di così astratto.
La gente si occupa di cose più convenzionali: trovare un buon lavoro, una bella casa, una famiglia, qualcosa da fare nel tempo libero. Sono obiettivi con cui è facile confrontarsi. Però a pensarci bene questi rappresentano in fondo un’idea semplice di felicità. Abbiamo l’impressione, la speranza forse, che una volta raggiunti otterremo in cambio una certa dose di benessere. È un pacchetto preconfezionato di certezze che acquistiamo, pagando con il tempo della nostra vita.
Però non funziona così per tutti.
Il lavoro finisce per togliere più di quello che restituisce, la casa ci incatena ad un mutuo per trent’anni, e tempo per gli amici e per le proprie passioni ce n’è sempre troppo poco.
Gli intermediari a cui abbiamo affidato la nostre speranze di felicità ne trattengono una percentuale troppo alta.
Ecco perché ha senso inseguirla anche in un altro modo, cercandone direttamente la fonte. Quelle che seguono sono le basi della mia “ricerca della felicità“. Nulla di astratto: sono regole semplici che cerco di applicare tutti i giorni.
Non è sempre facile, lo ammetto. Non sono abbastanza disciplinato e costante, e questo è uno dei motivi per cui leggo assiduamente il blog che mi ospita. Ma ne vale la pena, credetemi.
Iniziamo dalla base: cos’è la felicità?
La felicità, per come la vedo io, è uno stato di serenità duratura. È il benessere che resiste agli inevitabili colpi della vita, gli eventi negativi su cui non abbiamo alcun controllo. Ed è anche il terreno fertile da cui nascono tanti piccoli attimi di gioia, la sensazione effimera e quasi estatica in cui tutto ci appare completo e perfetto.
La mia ricetta per la felicità si ispira proprio a queste due ultime parole: se la completezza è avere con sé tutto ciò che serve, la perfezione si raggiunge togliendo il resto.
Quindi per essere felici basta avere con sé “tutto il necessario e niente di superfluo“.
Cos’è il superfluo?
È tutto quello che non mi è utile e appesantisce la mia esistenza. Non solo gli oggetti che mi trascino appresso da anni e che nemmeno so più di avere. Sono soprattutto le paure che mi ostacolano, i pregiudizi che mi accecano, i lati del mio carattere che mi impediscono di diventare davvero me stesso.
Ancora più superflue sono le voci degli altri: le opinioni, le paure, le aspettative altrui. Tutto quello che mi influenza e dirige i miei passi in una direzione che non è la mia.
Perché penso che un buon lavoro o una bella casa siano importanti? Perché me l’hanno insegnato.
Mi hanno spiegato che devo farmi una posizione, e che devo seguire le mode. Mi hanno sbattuto in faccia esempi di bellezza inarrivabile per farmi comprare cazzate che non mi servono. E così mi hanno incolonnato in uno stile di vita che non mi appartiene, a inseguire valori in cui nemmeno credo, confortato dalla presenza di tutti gli altri, illusi tanto quanto me, infelici tanto quanto me.
È solo una gabbia fatta perlopiù di illusioni, ed è tutto superfluo, sono tutti ostacoli alla mia felicità. Devo liberarmene, e tenere solo il necessario.
Cos’è il necessario?
Il necessario si riconosce subito. La prima volta mi è capitato in Canada, di fronte a uno spettacolo incredibile. Ero lì, a bocca aperta, con le lacrime agli occhi, la bocca dello stomaco strizzata come uno straccio, non sapevo se ridere o piangere, e avevo un pensiero fisso in testa: “io da qui non me ne voglio andare“.
Ecco, quello per me era necessario. Il corpo è molto chiaro quando parla, basta solo ascoltarlo. Era la natura selvaggia. Qualcosa che avrei dovuto tenere stretto e con cui riempire la mia vita.
Invece ho detto “tornerò, prima o poi“, e l’ho lasciata dov’era. Sono tornato in città, in mezzo al traffico, al cemento. Dovevo tornare a lavorare. Avevo le bollette da pagare.
Ma il necessario non ti molla così facilmente. Prima o poi gliene devi rendere conto, o pagherai con i sorrisi che non farai, con le mattine in cui ti svegli e vuoi solo tornare a dormire, con il tempo che passa e non ti lascia nient’altro che tracce sul viso.

Sono milioni quelli che desiderano l’immortalità e poi

non sanno che fare la domenica pomeriggio se piove”

(S. Ertz)

Il problema del necessario è che spesso non l’abbiamo nemmeno mai incontrato. La sensazione che nella nostra vita “manchi qualcosa” deriva da questo. Dove cercarlo, allora?
Nello sconosciuto, nell’inaspettato. Non è ovvio? Se cerco qualcosa, della cui esistenza sono sicuro, e non lo trovo in quello che conosco di me o del mondo, allora deve essere per forza in quello che non conosco.
La gente ha generalmente paura delle novità, o perlomeno fa fatica ad accettarle. Le abitudini sono rassicuranti, ma se mi manca qualcosa per essere felice, sono proprio le abitudini a tenermici lontano.
Una volta abbandonata l’inerzia ai cambiamenti, la paura dell’ignoto e il pregiudizio verso l’estraneo, scopro che il mondo dentro e fuori di me è un miniera di sconosciuto, e io, come un disciplinato minatore, posso scavare in profondità, scartando man mano quello che non ha valore, e tenendo per me solo le gemme più preziose.
Per mettermi alla ricerca mi è bastato crearmi una vita che mi permettesse di avere a che fare con la novità il più spesso possibile. È un’attitudine mentale più che una regola pratica, ma sicuramente mi ha giovato trovare un lavoro che non assorbisse la quasi totalità del mio tempo e delle mie energie.
Grazie a questo ho potuto viaggiare molto, ma ho anche iniziato tanti piccoli progetti. Li ho abbandonati quasi tutti, perché lo scopo non era terminarli, ma imparare. Cercare il necessario. Crescere. È un procedimento “trial and error“, un’indagine, un sentiero da percorrere scoprendone un passo alla volta.
Questa, in sintesi, è la mia ricerca della felicità: zittire tutte le voci inutili, per poter ascoltare solo la mia. Distinguere grazie ad essa il superfluo, ed eliminarlo dalle mie giornate. Cercare nello sconosciuto le tracce di ciò che ancora mi manca, e una volta trovato, tenerlo stretto.
La ricerca non è pericolosa, non c’è il rischio di eliminare dalla propria vita l’amore, la stabilità di una casa o persino un lavoro. Al contrario: se fanno parte del mio necessario, prima o poi dovrò includerli comunque. Ma per arrivarci avrò evitato tutte le trappole e le illusioni.
Però non è una strada facile, questo è vero. Bisogna mettere in discussione le fondamenta stesse della propria esistenza, e ricostruire tutto da capo. Ci vuole disciplina, sincerità e tanta determinazione. Molti preferiranno piuttosto la comodità di una vita secondo i canoni, o aspettare che le cose accadano da sole, limitandosi a desiderarle.
Ma per chi avrà il coraggio di tentare, la ricompensa è grande. La felicità non è il premio alla fine di una caccia al tesoro, ma una luce che illumina sempre più le mie giornate man mano che mi avvicino.
Anche fare un solo passo in quella direzione è meglio di non averne fatto neanche uno.
Certo, ci sono momenti in cui mi fermo e mi siedo, stanco. Mi chiedo chi me l’ha fatto fare, ma non riesco a pentirmi di aver iniziato, neanche se volessi. Basta guardarmi indietro, e in tutte le cose che ho imparato, in tutte le esperienze che ho fatto, in tutta la vita che ho vissuto trovo la certezza più assoluta.
A che altra impresa più meritevole può un uomo dedicare la sua esistenza? A quale scopo più nobile o avventura più eccitante?
Sono esattamente dove vorrei essere. Sulla strada giusta. Se vuoi continuare il viaggio…
“Mi accorsi che la cosa peggiore che potevo fare della mia vita era cercare di viverla come qualcosa che non ero e non sarò mai. Se sono nato cavatappi, non morirò cucchiaio.”
(Francesco Grandis).

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