Usa 2: Donald Trump si gioca tutto in uno scontro elettorale durissimo… America First!

Una sintesi di come molti americani raccontano il clima delle prossime elezioni americane e di come tutto negli States sia già cambiato e vada ulteriormente cambiando, ce la da Bruce Springsteen, che racconta in musica «i tempi inquietanti» che sta vivendo l’America. Lo fa con un nuovo album: “A letter to you”, che esce il prossimo 23 ottobre… «Siamo cambiati noi, io per primo, ma soprattutto il mondo attorno a noi e in particolare sono cambiati gli Stati Uniti D’America: non esiste più un paese come luce brillante della democrazia è stato devastato da questa Amministrazione — dice — abbiamo abbandonato gli amici, fatto amicizia con i dittatori e negato la scienza climatica». E poi come per rassicurarsi dice: «Trump perderà e l’America tornerà unita». Questo il ‘mood’ profondo dell’America First lo scontro durissimo che divide gli americani e che è in corso negli USA. Uno scontro sicuramente epocale… E ci sono altri motivi (oltre a quelli già indicati nel precedente post) che ancora spingono l’America first di Donald Trump verso l’essere sempre più in prospettiva (anche senza Trump alla presidenza) comunque una superpotenza illiberale… Infatti, a rafforzare questa tendenza negli Stati Uniti contribuirà anche il cambiamento demografico mondiale, che rafforzerà la leadership economica e militare degli Stati Uniti e renderà il paese meno dipendente dagli altri… Il Prof. Beckley mette in fila una serie di dati abbastanza indicativi: «In primo luogo, la popolazione della maggior parte dei paesi sta invecchiando, in alcuni casi a ritmi estremamente rapidi. Entro il 2070, l’età media della popolazione mondiale sarà raddoppiata rispetto a 100 anni fa, da 20 a 40 anni, e la quota di persone di età pari o superiore a 65 anni sarà quasi quadruplicata. Per millenni, i giovani hanno superato di gran lunga gli anziani. Ma nel 2018, per la prima volta in assoluto, c’erano più persone di età superiore ai 64 anni che di età inferiore ai sei». Questo non avrà effetti soltanto sulla propensione al rischio e all’innovazione dei paesi industrializzati, che ragionevolmente diminuirà. Ma avrà conseguenze economiche molto rilevanti: «Gli Stati Uniti saranno presto l’unico paese con un mercato ampio e in crescita. Tra le 20 maggiori economie del mondo, solo l’Australia, il Canada e gli Stati Uniti avranno una popolazione crescente di adulti tra i 20 ei 49 anni nei prossimi 50 anni. Le altre grandi economie subiranno, in media, un calo del 16% in questa fascia di età. La Cina, ad esempio, perderà 225 milioni di giovani lavoratori e consumatori di età compresa tra i 20 ei 49 anni, il 36% del suo totale attuale. La popolazione giapponese di età compresa tra i 20 ei 49 anni si ridurrà del 42%, quella russa del 23% e quella tedesca del 17%. L’India crescerà fino al 2040 per poi diminuire rapidamente. Nel frattempo, gli Stati Uniti si espanderanno del dieci per cento». Il punto è, ragiona Beckley, che questi cambiamenti avvengono in un contesto dove gli Stati Uniti sono già di gran lunga più forti degli altri: «Il mercato americano è già grande quanto quello dei prossimi cinque paesi messi insieme e gli Stati Uniti dipendono meno dal commercio estero e dagli investimenti rispetto a quasi tutti gli altri paesi. Con la riduzione delle altre principali economie, gli Stati Uniti diventeranno ancora più centrali per la crescita globale e ancor meno dipendenti dal commercio internazionale». In concomitanza con questa tendenza, spiega la rivista Foreign Affairs, avverrà la crescita dell’automazione, un settore in cui gli Stati Uniti godono già di un notevole vantaggio che potranno sfruttare per sostituire le catene di fornitura globali con fabbriche integrate verticalmente nel paese, aumentando così il loro grado di indipendenza rispetto al mercato straniero. «Se queste condizioni persistono», scrive Michael Beckley, «lo scenario migliore per la leadership americana potrebbe implicare che Washington adotti una versione più nazionalista dell’internazionalismo liberale. Gli Stati Uniti potrebbero mantenere gli alleati ma farli pagare di più per la protezione. Potrebbero firmare accordi commerciali ma solo con paesi che adottano standard normativi statunitensi; partecipare alle istituzioni internazionali ma minacciare di lasciarle quando agiscono contro gli interessi del Paese; promuovere la democrazia e i diritti umani principalmente per destabilizzare i rivali geopolitici». E questo in parte sta già avvenendo, se si vedono le continue richieste di Donald Trump agli Stati europei, che non investono abbastanza per rafforzare i propri eserciti, essendo garantiti dalle forze militari degli Stati Uniti. Nella peggiore delle ipotesi, secondo l’analisi di Foreign Affairs, «gli Stati Uniti potrebbero uscire del tutto dall’ordine globale. Invece di cercare di rassicurare le nazioni più deboli sostenendo le regole e le istituzioni internazionali, gli Stati Uniti schiererebbero tutti gli strumenti del loro arsenale coercitivo – tariffe, sanzioni finanziarie, restrizioni sui visti, spionaggio informatico e attacchi di droni – per strappare il miglior accordo possibile sia dagli alleati che dagli avversari. Non ci sarebbero partnership durature basate su valori comuni, solo transazioni. I leader statunitensi giudicherebbero gli altri paesi non dalla loro volontà di contribuire a risolvere i problemi globali o dal fatto di essere democrazie o autocrazie, ma solo dalla loro capacità di creare posti di lavoro americani o di eliminare i fattori che minacciano gli Stati Uniti. La maggior parte dei paesi, secondo questi criteri, sarebbe irrilevante». Insomma, sintetizza Beckley, «gli Stati Uniti potrebbero iniziare a comportarsi meno come la guida di una grande coalizione e più come una superpotenza incattivita: un colosso economico e militare privo di impegni morali, né isolazionista né internazionalista, ma aggressivo e pesantemente armato». Concretamente, quindi, gli Stati Uniti decreterebbero la fine del multilateralismo. I partner americani potrebbero dividersi in due gruppi. Da una parte paesi strategici come Australia, Canada, Giappone e Regno Unito, le cui forze armate e agenzie di intelligence sono giù integrate con quelle di Washington. Dall’altra attori come i Paesi Baltici o le monarchie arabe del Golfo e Taiwan, che confinano con paesi rivali degli Stati Uniti. In poche parole: il trionfo del principio “America First”, dietro il quale alcuni analisti hanno tratteggiato distopici scenari futuri. C’è chi sostiene che ci sarà un ritorno al protezionismo degli anni ‘30 con Cina e Russia al posto di Germania e Giappone, oppure chi ipotizza una moderna “corsa all’oro” in cui la Russia cercherà di occupare gli Stati a lei vicini per aumentare la propria profondità strategica, mentre l’Asia orientale precipita nella guerra navale. «Queste previsioni possono essere estreme», lo scrive lo stesso Beckley, «ma riflettono una verità essenziale: l’ordine del dopoguerra, sebbene imperfetto e incompleto in molti modi, ha favorito il periodo più pacifico e prospero del genere umano. Senza questo ordine il mondo è un luogo più pericoloso». Col rischio già in atto di tornare a nuove forme di imperialismo con l’istituzione di mercati esclusivi e zone economiche protette. «Gli sforzi per combattere i problemi transnazionali come il cambiamento climatico, le crisi finanziarie o le pandemie», scrive Beckley, «somiglierebbero al modo in cui il mondo ha risposto al Covid-19: i paesi hanno accumulato rifornimenti senza solidarietà con gli altri, l’Organizzazione Mondiale della Sanità(l’Oms è un burattino della Cina – così il  Presidente Usa che pensa a ridurre a 40mln i contributi all’ Oms) ha avallato la disinformazione diffusa dalla Cina, e gli Stati Uniti hanno pensato a loro stessi». A repentaglio sarebbe anche la stessa sopravvivenza di alcuni Stati, il cui numero dal 1945 a oggi è triplicato. Secondo un’altra ricerca dello scienziato politico Arjun Chowdhury, citata anch’essa da Foreign Affairs, oggi due terzi dei paesi del mondo non possono fornire servizi di base alla propria popolazione senza ricorrere all’aiuto internazionale, e dipendono sostanzialmente dall’ordine che si è stabilito nel dopoguerra. Nessuno di questi esiti è inevitabile, afferma Foreign Affairs, e la speranza è che le future amministrazioni statunitensi, a partire da Biden (se prevarrà su Trump) trovino il modo di incanalare i crescenti impulsi nazionalisti in direzioni di un nuovo internazionalismo. Anche se gli americani non avessero intenzione di proteggere l’ordine liberale internazionale senza chiedere niente in cambio, come in parte è già accaduto e come è ancora più probabile che avverrà in futuro, vogliono però impedire l’egemonia di potenze autoritarie come Russia e Cina, e sono quindi disposti a collaborare con gli alleati per difendere le proprie istituzioni dall’ingerenza straniera. Gli Stati Uniti hanno intrapreso occasionalmente campagne liberali per ragioni egoistiche. Si sono opposti in parte al colonialismo europeo per aprire i mercati per i beni statunitensi, ad esempio, e hanno protetto una comunità di democrazie capitaliste per schiacciare il comunismo sovietico e stabilire il proprio dominio globale. Queste campagne hanno raccolto il sostegno degli americani perché collegavano gli ideali liberali agli interessi vitali degli Stati Uniti. Un approccio simile potrebbe funzionare ancora oggi», scrive Beckley: «Questa versione più nazionalista dell’impegno degli Stati Uniti può sembrare ingenerosa e poco interessante», conclude Beckley, «ma sarebbe più realistica e più efficace nel tenere insieme il mondo libero durante un periodo di cambiamento demografico e tecnologico senza precedenti». Questo e altro è in gioco con le elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America il prossimo tre novembre… e credetemi stando fuori da qualsiasi retorica sulla democrazia liberale…

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