1) Le pensioni e la riforma infinita…

…a cura di Maurizio Dal Santo

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Sono entrato nel mondo del lavoro ormai 50 anni fa, sentendo parlare, e poi anche occupandomi direttamente di pensioni e delle varie riforme intervenute. E oggi, ho un più che vago sospetto, anzi è praticamente diventata una certezza, che continuerò ad occuparmene e a scriverne anche adesso che ho smesso di lavorare da qualche tempo, mantenendo necessariamente un forte interesse per l’argomento, proprio perché ormai vivo di pensione.
Parto da una considerazione che in materia d’interventi ne sono stati fatti tanti, anche incisivi e l’assetto del sistema oggi, è certamente diverso rispetto a qualche anno fa, ma purtroppo non mi pare più solido rispetto a venti anni fa.
Mi sembra che alla fine, quello che è mancato veramente è il coraggio di affrontare il problema complessivamente, e di spiegare agli italiani cosa si stava facendo.

Dunque, nel 1992 fu approvato quello che forse in termini finanziari resta l’intervento più efficace: la cancellazione del collegamento tra pensioni e stipendi. Tre anni dopo è toccato alla molto ambiziosa riforma Dini, che sulla carta avrebbe dovuto mettere tutto a posto introducendo il sistema di calcolo contributivo: ognuno sarebbe stato arbitro del proprio destino, ma questo nuovo approccio è stato applicato in pieno solo a chi ha iniziato a lavorare dopo quella data. Un rinvio al futuro. Si sono seguiti altri aggiustamenti, finché nel 2004 si è deciso che era necessaria un nuovo intervento drastico: con una logica non coincidente a quella della riforma Dini, è stata spostata a 60 anni l’età minima per la pensione. Questo principio però sarebbe stato però applicato solo nel 2008, quattro anni e una legislatura più tardi. Il successivo governo ha nuovamente rimesso mano alla questione, rendendo più graduale la legge del 2004. Infine – e siamo nel 2009-2010 – il governo, di nuovo cambiato, ha deciso che dal 2015 l’età della pensione sarebbe stata spostata in avanti in modo automatico in base all’allungamento dell’aspettativa di vita. Spiegando poi che questa riforma – indubbiamente innovativa – sarebbe stata quella definitiva, in grado di mettere in ordine per sempre i conti della previdenza. E ora rieccoci qui, come se niente fosse, a parlare di anzianità e di quote, dell’avvenuto allungamento dell’età per andare in pensione e della necessaria flessibilità in uscita da introdurre per effetto di questo, si parla di rivalutazioni, no anzi di riduzione e di solidarietà delle pensioni alte rispetto a quelle basse, di azzeramento dei trattamenti di favore e dei privilegi di alcune categorie, di rivisitazioni delle pensioni di reversibilità. La solita discussione infinita… che rende opaca tutta quanta la questione delle pensioni…

Ora, mi sembra più che necessario fornire ai lettori di questo blog una serie di selezionati post scritti a cura di qualificati Esperti della materia previdenziale, per tentare di far conoscere e indirizzare chi abbia interesse e curiosità a riguardo dell’argomento, in modo che possa farsi un punto d’opinione più preciso rispetto a questo ormai, infinito dibattito… partiamo da:

Itinerari previdenziali – operazione verità. 

Il Centro Studi e ricerche di Itinerari previdenziali, di cui è animatore il Professore Alberto Brambilla, ha presentato, come ogni anno, un Rapporto sul sistema previdenziale italiano.

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Si tratta di un bilancio sugli andamenti finanziari e demografici delle pensioni, delle altre prestazioni previdenziali e dell’assistenza (dati 2014) sicuramente tra i più completi tra quelli prodotti anche da parte di istituzioni pubbliche. Il Rapporto ha il grande merito – in tempi in cui di pensioni si (s)parla a sproposito – di richiamare l’attenzione sui trend demografici che costituiscono (insieme agli andamenti dell’economia e dell’occupazione) il tapis roulant su cui camminano i sistemi pensionistici obbligatori. Sono, appunto, questi trend a determinare un acuto grido di allarme sull’equilibrio e la sostenibilità dei sistemi stessi. Bastano pochi dati per segnalare le sfide aperte.

Nel 2015, la speranza di vita degli uomini alla nascita è pari a 80,3 anni; a 60 anni è di ulteriori 23 anni; a 80 è di altri 8,8 anni. Per quanto riguarda le donne si tratta rispettivamente di 85,2 anni alla nascita, di ulteriori 27anni raggiunti i 60 anni di età, nonché di altri 10,7 anni una volta raggiunti gli 80 anni di vita. A metà del secolo corrente l’attesa di vita alla nascita degli uomini sarà di 86,4 anni, a 60 anni di altri 27,9 anni, a 80 l’aspettativa di vita sarà di ulteriori 11,5 anni. Per le donne rispettivamente 91 anni alla nascita, di ulteriori 32 anni una volta compiuti i 60 anni e di ulteriori 14,2 anni l’aspettativa di vita compiuti gli 80 anni.
‘’Negli ultimi 40 anni – afferma ancora il Rapporto – l’età effettiva di pensionamento si è addirittura ridotta’’, mentre gli effetti delle riforme più recenti che mirano ad invertire questa tendenza e ad aumentare l’età al pensionamento, saranno pienamente visibili solo nei prossimi anni. La crescita della longevità si riflette direttamente ed indirettamente sul sistema pensionistico: da un lato un numero crescente di pensioni vengono corrisposte per un numero maggiore di anni, dall’altro le pensioni di reversibilità fanno sì che la durata di vita di una pensione sia ben superiore alla durata di vita del pensionato. Oggi c’è un pensionato ogni tre individui in età lavorativa (non necessariamente anche occupati). In pochi anni di pensionati se ne conteranno due.
Tra i tanti aspetti interessanti merita una particolare sottolineatura la valutazione delle prestazioni pensionistiche, soprattutto sul piano distributivo: una valutazione che spiega e chiarisce la realtà e smentisce una ridda di luoghi comuni e di leggende metropolitane che inquinano le fondamenta stesse del dibattito sulle pensioni.

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Nel 2014 risultano in pagamento 23.198.474 di prestazioni pensionistiche (di cui 18.089.748 erogate dal sistema IVS) cui vanno aggiunte le 4.322.667 pensioni assistenziali (di cui 3.233.228 prestazioni di invalidità civile 856.882 pensioni e assegni sociali e 232.557 pensioni dirette e indirette di guerra) e 786.059 prestazioni indennitarie prevalentemente INAIL.
In particolare, vengono illustrati i dettagli del numero delle pensioni e di quello dei pensionati per classi di importo, per costo complessivo annuo della classe di importo e per importo medio della prestazione pensionistica. I pensionati con importi della pensione superiori a 3mila euro lordi al mese (circa 39mila euro lordi annui e circa 1,8mila euro netti al mese) sono circa 770mila, pari al 4,7%. Quelle derivanti da stipendi di quadri, funzionari e dirigenti (circa 100mila euro lordi l’anno cioè 51mila netti) sono meno di 335mila, un dato che – secondo il Rapporto – non rispecchia la ricchezza e il tenore di vita del nostro Paese. Altro dato interessante è il numero delle pensioni minime (fino a 500,88 euro): sono oltre 8 milioni mentre i pensionati sono poco più di 2,2 milioni. Lo stesso discorso vale per la successiva classe di importo (fino a 1.001,86 euro). In totale le prestazioni sotto i 1.000 euro mensili sono quasi 16 milioni ma i pensionati sono poco più di 7 milioni, quasi tutti con pensioni assistenziali o con una parte della pensione integrata (e quindi con pochi contributi versati durante la vita lavorativa).
Poiché nei talk show si agitano come una clava gli importi delle pensioni al fine di alimentare la demagogia, nel Rapporto vengono messe a punto alcune osservazioni che consentono una corretta informazione:
a) affermare che la metà delle pensioni è inferiore ai 500 euro al mese è sbagliato dal punto di vista tecnico ed è un ottimo argomento per incrementare elusione ed evasione fiscale: perché (si potrebbero chiedere i giovani) versare per oltre 35 anni all’Inps se poi le prestazioni sono così misere? In realtà – secondo Itinerari previdenziali – non è corretto confondere il numero delle prestazioni e con quello dei pensionati, cioè di soggetti fisici che percepiscono le prestazioni stesse. I pensionati che stanno sui 500 euro al mese, infatti, sono poco più di 2,2 milioni su 16,3 milioni di pensionati totali;
b) per quanto riguarda la pensione media, valore spesso utilizzato per raffronti ed analisi, a seconda dei criteri utilizzati si possono determinare due importi tra loro differenti: 1) se la pensione media si calcola sul numero totale delle prestazioni (316.004) l’importo è pari 11.695 euro annui (12 mesi perché la 13 mensilità è aggiuntiva all’importo della pensione media); 2) poiché, però, i pensionati beneficiari di questi trattamenti sono 16.259.491, l’importo medio pro capite diviene pari a 16.638 euro annui (oltre quindi i 1.000 euro al mese) sempre pagati in 12 mensilità, come specificato sopra. Ovviamente, il secondo dato è il più corretto anche se spesso i media e lo stesso Istat adottano impropriamente il primo, dividendo il monte pensioni (272.697 milioni di euro) per il numero delle prestazioni e non dei pensionati. Dal rapporto tra numero di prestazioni e di pensionati emerge, quindi, che nel nostro Paese, in media, ogni pensionato percepisce 1,434 pensioni. Il 66,7% percepisce una prestazione, il 25,4% dei pensionati ha due pensioni, il 6,6% ne ha tre e l’1,3% ha 4 o più prestazioni. La maggior parte dei beneficiari di più assegni percepisce pensioni di guerra (87,5%), prestazioni “indennitarie” (74,2%), di invalidità civile spesso associate alla indennità di accompagnamento e altre prestazioni (77,9%) e quelle di reversibilità (67,5%). Solo il 32,4 dei titolari di pensioni di vecchiaia ha una o più prestazioni.

Questi dati – di per sé – giustificherebbero quella ‘’razionalizzazione’’ delle prestazioni sottoposte alla ‘’prova dei mezzi’’ (la considerazione è di chi scrive) che tante polemiche ha suscitato nei giorni scorsi.

Ancora a proposito di pensione media occorre fare un’ulteriore precisazione. Sono in pagamento oltre 8 milioni di prestazioni di natura assistenziale (invalidità, accompagnamento, sociali, di guerra) o che beneficiano di integrazione al minimo o di “maggiorazioni sociali”; per la quasi totalità di queste prestazioni non è stato versato alcun contributo (o al massimo contribuzioni modeste e per pochi anni) e quindi neppure le tasse (65 anni passati senza contribuire alla collettività) per cui occorrerebbe, nel fare le medie, utilizzare il buon senso e toglierle dal computo – sostiene il Rapporto 2016 – in quanto sono parzialmente o totalmente a carico della fiscalità generale pur se di modesto importo e pagate dalle giovani generazioni a cui queste prestazioni sono precluse per legge.

Affinché il calcolo della “pensione media” abbia un senso e non sia una media del “pollo” (evitando così allarmi sociali ingiustificati) occorre – prosegue il documento – non mischiare prestazione tra loro assai differenti; non ha senso – sempre secondo il Rapporto – fare la media tra pensioni dirette e ai superstiti (che come minimo sono il 60% o meno della pensione diretta e a volte è pure suddivisa tra i figli minori o con handicap). O inserire nella media le pensioni sociali o gli assegni sociali che per legge sono rispettivamente pari a 368,88 e 447,61 euro al mese, o quelle relative al trattamento minimo (500,88 e) o quelle già corrispondenti al milione di lire al mese (ora pari a circa 605 euro) o quelle di invalidità (296,25 e) o gli assegni di accompagnamento (483 euro) o le prestazioni indennitarie erogate prevalentemente dall’Inail a seguito di infortuni sul lavoro (476,5 euro al mese). Sarebbe, invece, corretto fornire, separatamente, l’importo medio delle pensioni previdenziali (anzianità e vecchiaia), quello delle pensioni ai superstiti e quello prestazioni assistenziali. Cosa emergerebbe, si chiede Itinerari Previdenziali ? Escludendo le prime due classi di reddito pensionistico che sono tipicamente assistenziali (e spesso ciascun pensionato percepisce due o più assegni come ad esempio invalidità, accompagnamento, altre maggiorazioni o addirittura in qualche caso la reversibilità) per un numero totale di 7.083.582 pensionati che è comunque più basso del numero di pensionati assistiti (8.431.449), la pensione media previdenziale (supportata da contributi) ammonterebbe a 24.450 euro annui per ciascun pensionato rispetto ai 17.040 euro ufficialmente censiti. E’ vero che il 40% delle prestazioni è inferiore ai 1.000 euro al mese ma non sono pensioni; sono prestazioni assistenziali – precisa il Rapporto – che nulla c’entrano con le pensioni. In questa riclassificazione della pensione media occorrerebbe poi inserire il dato dell’età anagrafica ed eliminare dal calcolo circa 740mila prestazioni di cui beneficiano soggetti con meno di 39 anni (si tratta di figli minori, o invalidi o reversibilità multiple). Alla luce di tali considerazioni sarebbe il caso di lasciarsi alle spalle rappresentazioni grossolane sulla condizione degli anziani e dei pensionati.

D’altronde annotazioni simili erano state fatte nel saggio ‘’La lista della spesa’’ (Feltrinelli 2015) dall’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, secondo il quale: “il reddito dei pensionati è rimasto abbastanza stabile rispetto a quello medio italiano, intorno al 45-50 per cento, dal 1980 al 2007.Cottarelli riforma-pensioniSuccessivamente, il rapporto è cresciuto rapidamente, raggiungendo il 58 per cento nel 2012’’. Lo stesso Cottarelli, nel saggio, ha  fornito un confronto interessante. In Italia ci sono circa due milioni di pensionati con un reddito superiore di 26mila euro lordi annui (il reddito medio pro capite italiano). In Germania sono circa 650mila (a fronte di un reddito pro capite tedesco di circa un quarto superiore a quello italiano).

Altro particolare curioso: a 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sono erogate ancora più di 230mila pensioni di guerra per un onere di 1,4 miliardi di euro all’anno.

(continua)                                                            guerra

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