Coronavirus: è un problema sanitario grave, non uno spettacolo da talk show, ne una guerra contro un nemico misterioso da affrontare con le armi della propaganda politica…

Chiarisco subito: sono un “cittadino informato” e non mi considero certo esperto sugli aspetti di base e specialistici di un virus nuovo com’è questo Covid-19, ma averlo trasformato in un grave problema di salute pubblica, in uno scenario di “protezione civile” penso che sia stato un vero e proprio errore. Ora. Il caso del coronavirus ha messo in risalto, ancora una volta, il profondo distacco tra la classe dirigente italica e l’etica della responsabilità. Colpa del combinato disposto tra videocrazia e retecrazia, la vicenda del morbo cinese è sùbito salita, mediaticamente parlando, sul ring dell’intrattenimento televisivo e dell’informazione quotidiana stampata e/o online nonché attraverso i Social nella Rete globale. L’auspicio che formulo, è che dopo l’emergenza, alleata della “paura” e della “sicurezza”, che ha caratterizzato la prima parte di questa vicenda, e sta caratterizzando questa seconda fase di crescita esponenziale del virus, la questione Sanità pubblica torni a essere l’indicatore di un buon servizio ai cittadini, e non la contraddittoria garante delle scelte emergenziali delle forze politiche di governo e non, rispetto all’opinione pubblica italiana caduta subito preda del panico… Un problema sanitario trasformato in un mosaico che evoca il contesto e l’universo di personaggi, simboli, messaggi dell’angosciante “Cecità” nel romanzo di Saramago, più che non una questione di salute pubblica da gestire in un Paese che ha un sistema sanitario nazionale e tutte le competenze scientifiche e tecnologiche necessarie e disponibili, a mantenere e trattare il Covid-19 come un virus seppur non completamente conosciuto, comunque sufficientemente noto da essere correttamente gestito. E’ stato invece trasformato in una guerra misteriosa contro un nemico sconosciuto da affrontare in un regime di emergenza totale. E quando un problema o una materia arrivano sul palcoscenico dell’intrattenimento, il KO della verità (e della collettività) è assicurato. Non solo si perde di vista il confine tra vero e falso, non solo il dibattito assume la forma di una discussione o per meglio dire di una “lite” da condominio – non solo riprende slancio la teoria dell’uno vale uno – ma ecco il conto più pesante, avanza in brevissimo tempo il sentimento più deleterio che possa diffondersi in una comunità: quel senso di isteria aggravata dalla sfiducia. Quanto di più pericoloso e autolesionistico possa capitare a tutti noi. Il Covid-19 non è un esclusivo affare italiano. Ma solo in Italia sta monopolizzando h24 le trasmissioni televisive, riuscendo a oscurare persino il campionato e le coppe di calcio e i loro campioni come Messi e Cristiano Ronaldo, il che ha dell’incredibile in un Paese che ha nel calcio la sua religione primaria. All’estero, i tg si occupano dell’epidemia, ma con giudizio, come direbbe il celebre personaggio manzoniano. Non bombardano in continuazione i telespettatori né li conducano a uno stato di depressione, E, soprattutto, non contribuiscono, con gli allarmi minuto per minuto, a deprimere un’economia – il cui concime essenziale rimane la fiducia nel futuro – che è già debilitata di suo. Infatti, da noi, si profila un mix tra depressione (non solo psicologica) e recessione (non solo economica). Personalmente, mi riconosco completamente nelle posizioni che – hanno cercato di farsi strada nell’invasività aggressiva di decreti, raccomandazioni, talk show, cifre, previsioni, misure – di esperti reali come le dottoresse Maria Rita Gismondo e Ilaria Capua seguite dalle dichiarazioni del professore. Walter Ricciardi che ridanno a eventi, protagonisti e terrori surreali i loro nomi e la loro realtà. Quindi da cittadino informato penso di avere il diritto-dovere di esplicitare alcune domande utili per comprendere (e magari rendere effettivamente culturalmente e politicamente didattico) quanto sta succedendo. La prima domanda: perché un problema di salute pubblica (tra i tanti, per quanto particolare) è stato trasformato in uno scenario di “protezione civile”, con tutto il corredo di competenze, misure, messaggi che ne consegue? La trasformazione – sullo sfondo di uno scenario con suggestioni, antiche e nuovissime, come “la Cina”, di una domanda che, per definizione, richiede una partecipazione informativa reale (coerente e trasparente, su quello che si sa e su ciò che non si sa) nell’annuncio di un nemico da affrontare come un terremoto in atto o un uragano che può colpire mortalmente ovunque e chiunque ha fatto della paura e dell’impotenza le protagoniste. La seconda domanda: il termine più vicino a “paura”, ancor più minaccioso, è “sicurezza”: qualcosa che deve essere dato dall’esterno, in modo rigido, contro tutti gli invasori. Quanto più la sicurezza confonde le idee, tanto più le misure che suggerisce sono sostanzialmente senza senso. O talmente di senso generico e comune, da essere ridicole: dal lavarsi tutte/i sempre più spesso le mani, al pulire ogni 15 minuti tutte le maniglie su treni sostanzialmente deserti e ben in ritardo. Senza parlare di che cosa evoca, nell’Italia di Minniti e di Salvini, l’immaginario di in-sicurezza personale e collettiva coltivato per tanto tempo, e ora riversato su un nemico invisibile e potenzialmente mortale. Ed ecco che: il decreto, appena emanato, è già un colabrodo, che ha prodotto l’effetto esattamente opposto rispetto alle finalità che lo hanno ispirato. Dal “contenimento” del Nord, in una “zona rossa” che rossa non è più, all’esodo dei lombardi in tutta Italia, in un clima di panico, con la gente che prende d’assalto i treni e addirittura i traghetti neanche fossero le scialuppe del Titanic. E che si riversa nelle macchine come il giorno di Ferragosto. Mentre nei Palazzi suona l’orchestra dell’incertezza, in una crisi in cui dal primo giorno il punto debole è una solida catena di comando. È tutta qui la confusione delle ultime 24 ore. Sia detto senza retorica: davvero senza precedenti. Mettendo in fila gli elementi: sabato sera (attorno alle 19) viene pubblicata dai siti la bozza del decreto, non ancora firmata e dunque non ufficiale, che contiene misure straordinarie, di fatto la chiusura della Lombardia e di altre 11 province (alla fine saranno 14), è probabilmente un atto ostile al Governo. Una sorta di sabotaggio condotto da chi non era d’accordo. Secondo la CNN, da fonti della Regione Lombardia. A cui si aggiunge la Regione Veneto. Regioni governate dalla Lega. Che fin dall’inizio della vicenda Covid-19 “sparano” cannonate sul Governo giallo-rosso. Com’è stato da subito alquanto evidente. La notizia, non viene smentita da nessuno, e diventa l’apertura di tutti i telegiornali delle 20 e rimbalza su tutti i siti del mondo. E produce, nelle zone interessate, una fuga, disperata ed emotiva, sulla base della convinzione del “se non vado via ora, non esco mai più”. Altrove, cioè all’estero, non governano manipoli di irresponsabili, a tutti i livelli. Né, colà, operano signori amanti della censura e dell’autocensura. Anzi. Ma un conto è informare, un conto è deformare e, sovente, disinformare. Anche l’informazione richiede equilibrio e senso di responsabilità, come la politica. Se, invece, come accade soprattutto sulla Rete e nei numerosi salotti catodici, il fattore trattenimento da spettacolo e travalica ogni misura in nome dei «mi piace» e dell’audience, il risultato finale è inevitabile: chiunque in questi giorni, sintonizzandosi con il video o con la Rete, sta pensando che l’Italia è sull’orlo del precipizio a causa del virus e che la saggezza consiglia di tenersene alla larga vuoi come turisti vuoi come investitori. La terza domanda: avendo a riferimento, la consapevolezza che un’informazione sul pericolo e sul rischio deve, se vuole produrre i suoi effetti, essere chiara e generatrice di comportamenti razionali, come è stato possibile che non sia stato costituito un gruppo di esperti che fungesse da riferimento per coloro (a cominciare proprio dai media) che potevano/possono avere un ruolo di informazione? Un gruppo di esperti reali, non a priori concordi, ma credibili per indipendenza e chiarezza di posizioni: disponibili alla discussione pubblica, ma con potere/dovere di intervenire sulle informazioni fuorvianti, per eccesso o per difetto o per banale (e più frequente) scorrettezza, più o meno volontaria. È chiaro che la domanda potrebbe essere rivolta anche alla “comunità scientifica” che, di fronte a un problema dichiarato di “sicurezza nazionale”, non ci sia stato neppure un tentativo di ritrovare tra i tanti esperti una responsabilità collettiva non è irrilevante. Ognuno parla per sé. Con la sua immagine. Con i suoi titoli. Con l’aura che sa costruirsi intorno. Viva la libertà di parola, certo. Ma a patto che a livello istituzionale non ci sia solo il raccomandare, il controllare, l’essere protagonisti rispetto a una popolazione di “consumatori” delle informazioni più ingiustificate, incomprensibili, fuori da qualsiasi credibilità scientifica: privati del diritto/possibilità di essere “interlocutori” di un’autorità responsabile e dialogante. Se, poi, gli stranieri più interessati al chiacchiericcio del Belpaese vorranno appassionarsi alle logomachie in corso tra i nostri pubblici poteri, potranno pensare tranquillamente che l’Italia è una nazione anarchica, non governata e non governabile, dal momento che ciascuno procede per conto suo; che l’Esecutivo viene contestato dalle Regioni che a sua volta le contesta; che le Regioni si dividono, nella linea anti-virus, sulla base dei rispettivi colori politici, tanto che il presidente dell’Anci, Decaro, ha invocato il loro commissariamento (sul caso coronavirus) da parte del centro; che gli stessi Comuni vanno a briglia sciolta; e che, abbiamo letto, c’è pure qualcuno che spera di risolvere l’emergenza affidandosi prima al caldo primaverile e successivamente a quello estivo, roba che sconfesserebbe tutte le marce ambientalistiche contro il surriscaldamento terrestre (che, a questo punto, per l’epidemia in ispecie, sarebbe un fenomeno da benedire!). La «peste» cinese è sopraggiunta a proposito. I problemi mondiali non si possono risolvere con le ricette nazionali, figuriamoci con le soluzioni regionali o locali. Ma la dittatura dell’intrattenimento, mai così pervasiva come adesso, né si occupa né si preoccupa di queste controindicazioni. Preferisce farsi male e far male, anche perché le è estranea la cultura del dubbio. Oltre frontiera non sono irresponsabili nel mantenere i toni giusti sul morbo emigrato dalla Cina. Ma, all’estero, si pongono, giustamente, il problema dei contraccolpi economici che scaturirebbero dal doping mediatico, dall’enfatizzazione dell’emergenza. In fondo, fette consistenti della società scientifica invitano a non drammatizzare, a riflettere sul fatto che altri virus provocano ripercussioni ancora più letali, e che, pertanto, solo un Paese in preda a emotività compulsiva o a irrazionalità congenita può reagire come sta reagendo l’Italia, ossia contro se stessa. Ecco qui, il racconto di una perdita di senso, inteso come senso di drammaticità di quel che sta accadendo, in cui tra il “giallo” e il “rosso” si sceglie “l’arancione”, che è come il grigio tra il bianco e il nero. Perché non c’è una vera plancia di comando, ma una sovrapposizione tra più piani, in particolare Governo e Regioni, nella debolezza della Protezione civile. E nell’assenza di un vero e proprio “coordinamento scientifico efficace e funzionale alla straordinarietà della situazione”. Ecco qui, una catena di errori al posto di una catena di comando, che da oggi aggiunge a questa crisi un elemento in più rispetto a quello sanitario, che riguarda l’ordine pubblico e la tenuta sociale ed economica del paese. Ci sono anche le carceri in subbuglio, i treni presi d’assalto, le rianimazioni al collasso, i governatori del centro-sud che dicono “mettiamo in quarantena chi viene dalla Lombardia”, senza sapere come, perché tra l’altro solo quelli che arrivano in aereo sono tracciabili. E questo avviene in un paese dove Roma è deserta perché i romani sono andati a fare la gita a Fregene, e dove sabato pomeriggio a Milano continuava lo shopping sui viali del commercio e la sera la movida ai Navigli, ignorando che la prima misura di prevenzione è stare a casa, limitare i contatti e rispettare le norme. Solo pochi giorni fa Mattarella aveva invitato il paese a non cedere all’emotività, le istituzioni a tutti i livelli a una gestione univoca, coordinando competenze e piani istituzionali, le forze politiche alla concordia e all’unità di impegni. Sono messaggi già franati e, oggi, non potrebbe più fare lo stesso tranquillizzante discorso. Per molto meno alcuni Stati americani hanno dichiarato lo stato di emergenza. Mettendoci la faccia e assumendosi la responsabilità delle scelte più necessarie e più radicali. In certe situazioni, come questa del virus, può capitare che il consenso non coincida con la salute pubblica e con il bene dei cittadini… ma la politica ha il dovere almeno in queste occasioni di non essere di parte. L’ultima domanda: questo cittadino informato è anche abbastanza vecchio, da essere stato attore e testimone diretto di molte vicende emergenziali nel nostro Paese dai tempi – ormai preistorici (anno 1976) – di Seveso. Lo scenario era quello di un gravissimo incidente industriale che colpiva l’ambiente di un ampio territorio regionale. L’Epidemiologia e la Sanità pubblica erano centrali. In maniera molto più “potente” di ora. Era un’estate molto calda. La commissione di tecnici era disponibile quotidianamente a valutare e discutere tutti i risultati (affidabili o meno) e le proposte di sicurezza/legalità e di civiltà/democrazia (la domanda non era, allora, così banale: visto ad esempio che aveva permesso la gestione pubblica di una discussione importante come quella dell’interruzione di gravidanza delle donne “contaminate”. E le comunità locali erano i soggetti – con tutte le parzialità – e non le semplici destinatarie/oggetto di misure di salute pubblica. Anche allora il problema era la credibilità dell’istituzioni politiche, al centro come in periferia e la loro disponibilità/accessibilità alla trasparenza/condivisione dell’incertezze, ma soprattutto dei loro perché. È una cosa normale, infatti, che un evento che sembra venire da un mondo “altro” ed è minaccioso generi fantasmi. Che hanno bisogno di risposte fondate sulla realtà. Non di altri fantasmi, o di numeri che fingono di coincidere con la realtà – come i numeri di morti “per” o “con” il Coronavirus – che fanno ancora in questi giorni da titolo di prima pagina ad alcuni giornali. Chi ci dice quanti sono i denominatori dei “positivi”, e da dove vengono, e perché e quanti sono i falsi positivi e negativi? Non per il gusto di altri numeri: semplicemente per avere, dopo l’emergenza, un tempo in cui la Sanità pubblica riprenda a fare il suo unico mestiere indiscutibile: quello di essere un indicatore di servizio e allo stesso tempo di reale democrazia, e non un garante più o meno illusorio delle risposte insufficienti della nostra politica per essere vendute comunque bene all’opinione pubblica…

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