È l’ora di far pagare i ricchi…

Torno ancora sull’argomento perché ormai risulta centrale rispetto alle sorti dell’economia e allo stesso stato di salute della democrazia. Ne approfitto per dare anche alcuni flash sugl’incontri e le conclusioni delle ‘Giornate sulle disuguaglianze’ la manifestazione tenutasi a Bologna nelle scorse settimane (esattamente dal 24 ottobre al 5 novembre) che ha visto (come già accennato in un altro post) impegnati a discutere una 70tina tra economisti, sociologi e studiosi vari proprio sulle differenze, disparità e discriminazioni economiche e sociali derivanti dalla globalizzazione.   Le disuguaglianze di reddito e di ricchezza si sono diffuse come una malattia endemica, provocando dappertutto guasti economici, sociali e politici. È un fenomeno mondiale, che coinvolge i paesi occidentali come le economie emergenti. Una distanza tra ricchi e poveri sempre più in aumento, che ha creato divisioni permanenti tra universi che diffidano profondamente l’uno dell’altro, quando non arrivano a odiarsi! Finora la politica non sembra ancora essersene accorta più di tanto e non risulta (salvo sottolinearne la crescita) una sua particolare attenzione al problema… continuando a parlare genericamente di ripresa economica e dello sviluppo dell’economia e dei mercati. Eppure il dibattito sulle diseguaglianze oggi, può essere fatto in maniera più agevole proprio perché può aver agio rispetto alle ideologie. Ricordate Francis Fukuyama  e il suo libro:  “La fine della storia e l’ultimo uomo” dove scriveva della fine delle ideologie? Ebbene non è affatto vero che le ideologie sono finite,  anzi, la celebrazione della fine delle ideologie negl’ultimi 30anni, ha nascosto in realtà il trionfo dell’ideologia dominante ed è sicuramente la più grande operazione ideologica che sia stata mai fatta prima…  Comunque  è vero che le ideologie non sono più i ‘baluardi’ su cui si divideva il mondo fino a 30 anni fa, i due blocchi contrapposti EST e OVEST, con le loro ‘influenze’ geografiche sul resto del mondo. URSS USA e Comunismo Capitalismo… Oggi il dibattito sulle diseguaglianze economiche sociali che sono andate aumentando nell’ultimo periodo anche per la crisi finanziaria iniziata nel 2007/2008, è praticamente tutto interno a quello che allora si chiamava il Blocco Capitalistico. Accennavo alla poca attenzione della politica al problema.  L’unico ad avere messo la questione al centro della sua agenda elettorale è stato il democratico americano Bernie Sanders: «Lo 0,1 per cento degli americani più ricchi ha tanta ricchezza quanto il 90 per cento della popolazione. Qualcuno pensa che questo sia giusto? La classe media americana sta scomparendo. È ora di dire basta!». Così dicendo, ha martellato in ogni suo comizio durante le primarie americane. L’argomento aveva trovato elettori tanto entusiasti da costringere anche Hillary Clinton a farlo proprio. La disuguaglianza aveva cambiato così l’agenda politica dei democratici americani ai tempi delle elezioni un anno fa… Com’è finita lo sappiamo tutti… ha vinto Donald Trump, un ricco americano, votato da molti degli americani colpiti dalla crisi economica e in crisi anche d’identità… ha vinto chi nel “sogno americano” del se non tutti uguali alla partenza, almeno di avere tutti le medesime opportunità di salire sulla cima della società americana… non ci aveva mai creduto. Sanders, chiedeva di legiferare una tassa progressiva sul patrimonio per favorire la redistribuzione del reddito. «È quanto occorre fare subito per correggere le iniquità, altrimenti esploderanno rabbia sociale e nazionalismi. Perché il mercato non è una realtà astratta che funziona in modo spontaneo e non può esistere senza etica e regole». In realtà le cifre di Sanders non erano esattissime. Meglio ricorrere a quelle di Joseph Stiglitz, l’economista premio Nobel che da anni denuncia con libri e articoli l’insostenibilità della situazione. In “La grande frattura”, appena uscito da Einaudi, Stiglitz scrive: «Il primo uno per cento degli americani si porta a casa ogni anno quasi un quarto del reddito della nazione. In termini non di reddito, ma di ricchezza del paese, il primo 1 per cento ne controlla il 40 per cento. Venticinque anni fa i termini di quel rapporto erano 12 e 33 per cento. Tutta la crescita degli ultimi decenni è andata a chi stava in cima». Può sembrare un problema solo di equità sociale. Una disparità tanto enorme da essere eticamente inaccettabile, l’esatto opposto di quella “Economia giusta” evocata qualche anno fa da Edmondo Berselli nel suo ultimo libro. Ma c’è altro. La disuguaglianza porta con sé effetti che riguardano l’economia in generale. «Quando il denaro si concentra molto in alto», scrive ancora Stiglitz, «la domanda aggregata inizia a scendere». Detto in altre parole, le economie “ingiuste” crescono poco. Per decenni gli economisti “ortodossi” hanno sostenuto che il problema semplicemente non esisteva. Sulla base della teoria dello “sgocciolamento”: la ricchezza di chi sta in alto “cola” sugli strati sottostanti a beneficio di tutti. Perciò non c’è nessuna necessità di intervenire sul funzionamento spontaneo dei mercati, le cose vanno a posto da sole. Oggi è evidente che non è affatto così. Persino le istituzioni internazionali tradizionalmente più liberiste, come Fondo Monetario Internazionale e l’Ocse considerano la disuguaglianza una minaccia per la crescita economica e premono perché si trovi un qualche rimedio. C’è un altro luogo comune da sfatare. Che la crescita tumultuosa di paesi come Cina, India, Brasile abbia ridotto le disuguaglianze nel mondo. Branko Milanovic, economista già alla Banca Mondiale, da anni studioso di povertà e disuguaglianza. Nel suo ultimo libro “Global inequality”, scrive: «Con la globalizzazione le distanze tra paesi ricchi e paesi poveri si sono senz’altro ridotte. Ma solo se guardiamo alla media dei redditi. Le disuguaglianze all’interno dei paesi invece aumentano ovunque. Così in pochi decenni potremmo tornare al XIX secolo, quando le differenze maggiori erano tra ricchi e poveri inglesi, ricchi e poveri russi o ricchi e poveri cinesi. Una situazione familiare a qualunque lettore di Karl Marx». Secondo Milanovic, non ci sarà più un occidente benestante rincorso dai paesi del “terzo mondo”. Ma super-ricchi e ultra-poveri su scala globale. E in Italia come siamo messi? «Abbiamo una delle disuguaglianze economiche più alte in tutti i confronti internazionali – spiega Maurizio Franzini, professore di Politica economica alla Sapienza che ha pubblicato con Mario Pianta da Laterza “Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle”  …E cresce da decenni.  L’1 per cento della popolazione ha una quota del reddito nazionale del 10 per cento. Negli anni Ottanta era del 6,5. Un discorso appena un po’ tecnico serve a capire la distorsione caratteristica dell’Italia. Noi economisti distinguiamo tra redditi “di mercato” e redditi “disponibili”. Questi sono calcolati dopo le tasse e i trasferimenti del welfare.  L’indice di Gini (che misura la diseguaglianza) per i redditi disponibili in Italia è 0,32, superiore a quello di Gran Bretagna, Francia, Germania. Ma per i redditi di mercato è altissimo, arriva allo 0,5. Questo significa che la disuguaglianza nasce da un mercato che funziona male, ed è così forte che tassazione e welfare non riescono a correggerla». E’ giunto il momento che la diseguaglianza venga combattuta. Su questo insistono ormai tutti gli studiosi, perché questa iniquità dilagante ha conseguenze non solo economiche. «Il più importante effetto negativo», prosegue Franzini, «è sulla mobilità sociale. Chi nasce povero ha molte più probabilità di restare povero che in passato. Ma tutti gli indicatori della “qualità sociale” peggiorano. C’è chi ha trovato una relazione anche tra disuguaglianza e corruzione». I paesi dove maggiore è la differenza di reddito sono quelli con malattie, criminalità, consumo di droghe, perfino obesità, e peggiore rendimento scolastico, come hanno dimostrato Richard Wilkinson e Kate Pickett in un libro, “La misura dell’anima” (Feltrinelli), ormai un classico sull’argomento.  «Trovo particolarmente intollerabile – dice Chiara Saraceno, sociologa che molto ha studiato la povertà e i suoi effetti sulle famiglie – la disuguaglianza che colpisce i bambini. Nascono svantaggiati. Alimentazione, scuole, case: sono condannati ad avere tutto peggio rispetto ai loro coetanei più fortunati. I test internazionali registrano differenze cognitive di due anni tra i ragazzi delle zone più ricche e quelli più poveri. Perché oggi in Italia il welfare funziona a rovescio. È di qualità inferiore proprio nelle zone dove invece ci sarebbe più bisogno di servizi migliori. Le scuole a tempo pieno, per esempio, sono molte di più nel centro-nord. Per questo bisogna pensare ad azioni “selettive”. Ci vorrebbe una scuola “davvero” buona, servizi “veramente” inclusivi. Bisogna cioè investire risorse con un’attenzione particolare ai più svantaggiati». Qual è l’origine di tutto ciò? Ho avuto modo già di scriverlo in un altro post qui sul Blog… Non è vero che con le ideologie sono finite Destra e Sinistra e anche la lotta di classe. Infatti: «C’è stata una lotta di classe negli ultimi vent’anni e l’abbiamo vinta noi» è la sintesi fulminante del miliardario americano Warren Buffett. Come diceva ancora Berselli: «a un certo punto si è deciso che invece di far guadagnare di più chi stava peggio, bisognava far avere più soldi ai ricchi». E sono stati due i meccanismi fondamentali utilizzati: la deregulation dei mercati finanziari e del mercato del lavoro. «Gran parte della disuguaglianza di oggi è dovuta alla manipolazione del sistema finanziario», sostiene Stiglitz, scandalizzato per gli immensi guadagni di grandi investitori e manager, compresi i responsabili della grande crisi del 2007, che hanno continuato ad assegnarsi “bonus” spropositati. Sull’altro fronte, spiega Franzini, «la proliferazione di forme contrattuali flessibili, precarie, sempre più individuali ha fatto nascere il fenomeno dei “working poors”. E, oggi per essere poveri non c’è più bisogno di essere disoccupati». Thomas Piketty, nel suo bestseller “Il capitale nel XXI secolo”, sostiene che l’aumento della disuguaglianza è nella natura del capitalismo. È sempre stato così, con l’eccezione dei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale, “les trentes glorieuses” come li ha chiamati un altro francese, Jean Fourastié. Joseph Stiglitz, con molti altri economisti, non è d’accordo: «La disuguaglianza è una scelta politica». Dovuta al fatto che chi comanda fa parte dell’1 per cento. Le opinioni della minoranza più ricca prevalgono su quelle della maggioranza, come hanno dimostrato i due politologi Martin Gilens e Benjamin Page. Ma è una scelta miope. «La sensazione di partecipare a un gioco dove le carte sono truccate, allenta i legami che tengono insieme la società come nazione» conclude Stiglitz. Ed ecco il perché, della rivolta contro l’establishment, l’astensionismo elettorale, e la fortuna del populismo e dei personaggi populisti come Donald Trump in America… Ma non mancano in Europa e meno che meno in Italia. La diseguaglianza mina: «Le ragioni per stare assieme, per stare alle regole vengono meno – concorda Chiara Saraceno – Ecco allora prevalere, disaffezione, devianza, illegalità, rancore, desiderio di vendetta sociale. In una parola, perdita di fiducia. Pensiamo alla frustrazione che possono provare oggi genitori che si sacrificano per far laureare i figli, e scoprono che restano disoccupati, mentre i laureati figli delle famiglie più ricche trovano lavoro senza problemi». E spesso …senza alcun merito. Senza speranza nel futuro, nella possibilità di salire la scala sociale, di migliorare, vengono meno le premesse delle democrazie moderne. Che volevano garantire se non uguali condizioni di partenza, almeno uguali chance. In una società equa ognuno dovrebbe avere l’opportunità di costruirsi la vita secondo i propri desideri, come dice il premio Nobel Amartya Sen: «Uguaglianza è libertà». Invece, negli Stati Uniti, ad esempio, il sistema educativo vede una crescente segregazione economica geografica che genera disuguaglianza nelle opportunità educative. Gli studi mostrano anche l’elevata correlazione tra opportunità educative e reddito. La riduzione della progressività del sistema delle imposte sul reddito (anzi, ora è regressivo) aumenta anche la disuguaglianza del reddito e della ricchezza. Una riduzione del tasso di risparmio riduce la disuguaglianza; una riduzione della dimensione familiare (media) aumenta la disuguaglianza. Un aumento della dispersione in una delle variabili rilevanti, inclusi i rendimenti a favore del lavoro o del capitale, aumenta il livello di disuguaglianza. Alcuni studiosi hanno anche sostenuto che il cambiamento tecnologico premia di più il lavoro qualificato, aumentando il rendimento dell’istruzione (più si studia, più si guadagna) e quindi la dispersione dei salari. Sempre più importanti sono poi le rendite, incluse le rendite monopolistiche derivanti dalla crescente concentrazione in molte industrie. L’indebolimento delle norme anti-trust e i cambiamenti nella tecnologia, nonché i cambiamenti nella struttura dell’economia verso settori che sono naturalmente meno competitivi – pensiamo ai giganti dell’high tech – hanno sicuramente contribuito ad un aumento del “potere di mercato” medio nell’economia e quindi delle rendite monopolistiche. Altre forze, poi, hanno portato ad un aumento dei redditi più alti: i cambiamenti nelle pratiche della corporate governance di molte società hanno permesso ai dirigenti di tenere per sé quote crescenti del reddito delle società. L’aumento della finanziarizzazione dell’economia, combinata con una governance aziendale più debole e una vera e propria diffusa turpitudine morale, hanno portato ad una situazione in cui molti, nel settore finanziario, sfruttano il resto dell’economia. Allo stesso modo, l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori,  risultato sia di sindacati più deboli, che di cambiamento del quadro giuridico che nella globalizzazione,  hanno portato ad una riduzione del reddito dei lavoratori. Più in generale, le regole del gioco sono state cambiate a vantaggio di quelli in alto e a svantaggio di quelli in basso, aumentando la disuguaglianza. I mercati non esistono in un vuoto astratto. Vanno strutturati, regolati. Negli ultimi 30/40 anni, le regole del gioco sono state riscritte in modi che aumentano la disuguaglianza e indeboliscono l’economia… L’effetto di tutto questo è che si è aperto un enorme divario tra la crescita della produttività e la crescita delle remunerazioni del lavoro (portando ad una marcata diminuzione della quota del reddito da lavoro sul reddito nazionale). Prima della metà degli anni ‘70, produttività e remunerazioni si muovevano insieme, e ciò è stato vero per molti Paesi e settori per lunghi periodi di tempo, fino ad essere visto quasi come una “legge” in economia. Poi, improvvisamente, le cose sono cambiate e non per via del cambiamento nella tecnologia o nella qualità della forza lavoro. Ci sono stati cambiamenti rapidi nelle regole del gioco imposti alla politica che si è arresa (senza combattere) ai mercati, ignorando ogni altra istanza e merito del mondo del lavoro e della vita sociale. Questo è ciò che è successo, non altro: le regole del gioco sono state cambiate a favore di alcuni e a danno di molti. Ne scrive ancora Branko Milanovic in due saggi recenti.  Di fronte a una tale ‘ingiustizia globale’ quali rimedi dobbiamo e possiamo invocare? Non v’è dubbio: “E’ necessario riscrivere le regole dell’economia di mercato, ancora una volta, fare di meglio per ridurre il potere del mercato monopolistico, l’esclusione e la discriminazione; garantendo una minore trasmissione intergenerazionale dei vantaggi acquisiti, inclusa una minore trasmissione intergenerazionale del capitale umano e finanziario come: in parte migliorando l’istruzione pubblica, aumentando la tassazione sull’eredità e reintroducendo una progressività maggiore nelle imposte sul reddito…” Oggi, e non è un caso abbiamo il sistema che abbiamo, con le regole che ha, mette attenzione solo agli “interessi particolari” e purtroppo piace che sia così. Invece, È giunta l’ora di far pagare i ricchi…Tranquilli non c’è alcun ritorno ideologico al Comunismo. Ma nell’anno che si celebrano i 500 anni dell’eresia di Lutero… a dire di sempre più numerosi economisti che formano una “corrente di pensiero” sembra essere giunto il momento di compiere un’altra ‘eresia’ rispetto ad  un pensiero dominante che negl’ultimi 30 anni, ha condotto la nostra Società a svendere l’anima  sull’altare del libero  mercato. Un altare “pagano” come si è rivelato e definito. E’ giunto quindi il momento che la nostra società chieda a se stessa e alle forze che governano la finanza e l’economia e la politica di farsi promotrici di una vera critica al Capitalismo senza regole che non ha saputo governare la  globalizzazione creando guasti e disastri all’economia reale e al lavoro…  Joseph Stiglitz,  che non è certo un comunista ma uno dei principali studiosi e conoscitore del Capitalismo e del suo funzionamento ci sollecita in questo senso. Nel suo recente libro: “la grande frattura” Ed. Enaudi 2016 – conclude il suo ragionamento sulle diseguaglianze scrivendo: «Potrei avere esagerato un po’, in passato, quando ho detto che gli Stati Uniti avevano un governo dell’uno per cento, per l’uno per cento e fatto dall’uno per cento, o quando ho suggerito che siamo passati da una democrazia con una-persona-un-voto ad una con un-dollaro-un-voto. Ma è chiaro che alcune delle politiche che sono state perseguite sono state fortemente svantaggiose per l’economia nel suo complesso e hanno creato, allo stesso tempo, più disuguaglianze: ci sono stati così solo pochi vincitori e molti vinti».

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